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Attacco di paura o attacco di solitudine? Uno studio intorno al disturbo di panico

La radice del disturbo di panico, in una prospettiva fenomenologica-gestaltica, è la solitudine di scoprirsi esposti a un mondo che lascia sopraffatti

Di Annamaria Nuzzo

Pubblicato il 17 Mar. 2022

Abbracciando una prospettiva che stabilisce una stretta connessione tra gli attacchi di panico e la solitudine di essere sovraesposti all’ambiente, molti elementi prendono senso.

 

Inquadramento nosografico del disturbo di panico

Secondo il DSM-5, il disturbo di panico è una situazione clinica complessa caratterizzata da ricorrenti e inaspettati attacchi di panico, conseguenti preoccupazioni per questi attacchi, nonché da una complessa riorganizzazione comportamentale intorno a questo timore.

Un attacco di panico (PA) è definibile come la comparsa di una paura o un disagio intensi che raggiungono il picco in pochi minuti, accompagnata da una forte attivazione autonomica. Diversi i sintomi somatici associati a questo stato, tra cui palpitazioni, sensazione di asfissia o soffocamento, sudorazione improvvisa, tremori e brividi, nausea o dolori addominali, vertigini e instabilità, stordimento o svenimento, e i sintomi psichici, come la depersonalizzazione, per cui ci si sente distaccati da se stessi, e la derealizzazione, per cui si sperimenta un senso di irrealtà, il timore di morire, la paura di perdere il controllo o ‘impazzire’ (Black, D. W. & Grant, J. E., 2014).

Nella popolazione generale, le stime di prevalenza a 12 mesi per gli attacchi di panico negli USA sono del 11,2%, più basse nei paesi europei, tra il 2,7 e il 3,3%. Questi pazienti in genere sperimentano difficoltà lavorative e alti tassi di disoccupazione, cercano cure mediche più frequentemente e vivono più ricoveri (es. Markowitz, Weissman, Ouellette, Lish, & Klerman, 1989).

Gli approcci attuali di solito considerano l’attacco di panico come una risposta di paura esagerata e inappropriata (Clark, 1986; Casey, Oei, & Newcombe, 2004), innescata da un’intensa attivazione dell’amigdala e del relativo circuito neurale della paura (McNally, Otto, Yap, Pollack e Hornig, 1999; Windmann, 1998; Gorman, Kent, Sullivan e Coplan, 2000; LeDoux, 2015; Hamm et al., 2016). Tuttavia, vi sono alcuni elementi che mettono in discussione tale concezione.

Dal punto di vista psicologico, gli attuali interventi psicoterapeutici (soprattutto CBT) volti a ridurre la sensibilità alla paura (e all’ansia), mediante procedure di decondizionamento, la correzione dei pensieri disadattivi e il miglioramento dell’autostima (Barlow, Gorman, Shear, & Woods, 2000; Gallagher et al., 2013; Yang, Kircher e Straube, 2014), risultano essere molto efficaci nell’immediato, senza però garantire buoni risultati a lungo termine, con un’alta probabilità di recidive nei pazienti (Bakker, 2001; Durham et al., 2005; Batelaan et al, 2017; Nardi et al., 2016).

Dal punto di vista farmacologico, è ben noto che gli agenti ansiolitici a base di benzodiazepine, come il Valium, hanno scarso effetto sull’incidenza del panico, mentre gli antidepressivi risultano maggiormente efficaci nel reprimere tali attacchi (Klein e Fink, 1962).

Inoltre, gli attacchi di panico differiscono dalla risposta alla paura di emergenza di Cannon (Cannon, 1920) e dalla Sindrome da allarme generale di Selye (Selye, 1956) in due importanti aspetti psicofisiologici: il panico risulta caratterizzato dalla prevalenza di un’intensa fame d’aria, reazione fisiologica che si verifica raramente nella paura acuta insorta di fronte un pericolo esterno (Klein, 1993; Preter & Klein, 1998), ed è accompagnato dalla mancanza (eventualmente soppressione) dell’attivazione ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) che prepara alla risposta lotta-fuga, contrariamente alla paura.

Radici etimologiche

[…] Pan invocando coi gridi, dei pascoli il Dio chiomabella,
l’irsuto, a cui son sacre le cime coperte di neve,
i vertici sublimi dei monti, i sentieri di rocce (Inno Omerico 19 a Pan, Omero)

A livello etimologico, il termine ‘panico’ rimanda alla mitologia greca: il dio Pan, divinità del mondo agreste, figlio di Ermes e della bellissima ninfa Driope, che incuteva timore ai viandanti solitari (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020). Secondo la tradizione greca, la ninfa Driope cercò un luogo appartato e solitario nel cuore della foresta per dare alla luce il figlio ma, alla vista del nascituro con le corna e il piede caprino, inorridì e scappò via, abbandonandolo nella foresta.

Balzò su, fuggi via la nutrice, lasciando il bambino,
ché sbigottí, vedendo l’aspetto spiacente e la barba (Inno Omerico 19 a Pan, Omero)

In questa narrazione mitica è racchiuso il tema centrale del disturbo di panico: l’esperienza di essere precocemente sovraesposti al mondo senza un’adeguata mediazione affettiva – quindi privati del caldo abbraccio materno – senza la presenza di un filtro che renda possibile affrontare il mondo, senza una protezione relazionale.

Ciascun essere alla nascita è un viandante della vita e se non è accompagnato almeno per il primo tratto di cammino si sentirà sempre solo e impotente in un mondo pericoloso. (p.94) (Il racconto della mente. Il mito nella relazione psicoanalitica, Romano R., 2002).

Oltre a stabilire un legame tra il terrore e la solitudine, il racconto mitico ci propone quindi un parallelismo tra il viandante in preda al panico, mentre si aggira per i boschi da solo, e ciascuno di noi.

Il disturbo di panico in una prospettiva fenomenologica-gestaltica

La radice esperienziale del disturbo di panico, in una prospettiva fenomenologica-gestaltica, è la solitudine di scoprirsi esposti, senza protezione e disarmati, a un mondo che lascia sopraffatti, è la solitudine di Pan, un cucciolo rifiutato e abbandonato alla nascita in una foresta sconosciuta.

Il legame che la mitologia stabilisce tra il terrore del panico e la solitudine ha sorprendenti somiglianze con evidenze cliniche ed epidemiologiche.

Per esempio, lo studio clinico con pazienti agorafobici condotto da Klein e Flink (1962) evidenzia che i pazienti affetti da Disturbo di Panico hanno riportato una grave ansia da separazione che spesso ha impedito la frequenza scolastica durante l’infanzia, un risultato replicato da specifici studi longitudinali sugli stessi individui che confermano la relazione tra il disturbo di panico (e l’agorafobia) e il Disturbo d’Ansia da Separazione dell’infanzia (Klein 1993, 1995; Kossowsky et al., 2013). Studi epidemiologici stabiliscono l’esordio del disturbo di panico in un periodo che va dall’adolescenza ai 35 anni (DSM 5), una complessa fase di vita caratterizzata da processi di separazione-individuazione dal proprio nucleo familiare (es. il trasferimento in un’altra città per l’università), dal movimento verso il mondo e verso una crescente autonomia (es. andare a vivere da soli). Inoltre, emerge come l’insorgenza del disturbo di panico nella popolazione adulta sia spesso preceduto da eventi di effettiva separazione coniugale, perdite e lutti, o altri eventi che implicano una separazione emotiva o fisica da una figura significativa (Roy-Byrne, Geraci, & Uhde, 1986; Jacobs et al., 1990; Faravelli & Pallanti, 1989; Kaunonen, Paivi, Paunonen, & Erjanti, 2000; Klein, 1993; Venturello, Barzega, Maina, & Bogetto, 2002; Milrod, Leon e Shear, 2004).

Abbracciando una simile prospettiva, che stabilisce una stretta connessione tra il panico e la solitudine di essere sovraesposti all’ambiente, molti elementi prendono senso.

Il disturbo di panico si accompagna di frequente all’agorafobia (dal greco, agorà: piazza, e fobia: paura) e quindi al concretizzarsi, nel qui ed ora, dell’essere sovraesposti al mondo mentre ci si ritrova soli in mezzo a una piazza, senza sufficiente protezione relazionale. La conseguente necessità di essere accompagnati, a volte così forte da rendere impossibile muoversi da casa autonomamente, costituisce l’espressione del bisogno di una mediazione tra sé e il mondo, tramite la vicinanza fisica e corporea di un altro significativo (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020).

Il disturbo di panico insorge tendenzialmente in un periodo che va dalla preadolescenza fino all’età di giovane adulto, una fase complessa e delicata caratterizzata da un movimento di separazione dal contesto familiare (dall’Oikos, la casa, alla Polis, luogo dei molti, la città) e da un processo di individuazione (Francesetti, 2007; Francesetti et al., 2013).

Il sintomo peculiare della fame d’aria può essere spiegato dalle risposte neurofisiologiche indotte dal sistema cerebrale di Panico/Separazione, caratterizzato da neuroanatomie e percorsi neurochimici distinti dal sistema della paura (Panksepp & Biven, 2012).

Secondo le neuroscienze affettive, infatti, esistono due sistemi di allarme cerebrale separati: il primo è il sistema neurologico della paura attivato da una minaccia esterna, un pericolo nell’ambiente, per cui l’organismo è pronto per fuggire o aggredire (risposta fight or flight), attivato dalla percezione di una minaccia esterna: l’altro, il sistema del Panico, si attiva quando l’individuo viene separato da un fondamentale supporto affettivo-sociale (il caregiver di riferimento), ad esempio quando i cuccioli vengono allontanati dalla madre e si trovano a protestare attivamente, per esempio piangendo nel caso degli esseri umani (separation cry) e/o producendo vocalizzazioni di angoscia (distress vocalization), nel caso di altri mammiferi, al fine di sollecitare il sistema motivazionale di accudimento nell’adulto (Nelson & Panksepp, 1988; Panksepp, 1998). Non a caso, i principali neurotrasmettitori del sistema di Panico – gli oppiodi endogeni, l’ossitocina e la prolattina – sono i neuromodulatori chiave delle interazioni socio-affettive (Panksepp & Biven, 2012; Nelson & Panksepp, 1998).

Dal punto di vista anatomico, il sistema del Panico coinvolge la zona del grigio periacqueduttale (PAG), le regioni del mesencefalo, il talamo dorsomediale, l’area settale ventrale, l’area preottica dorsale e i siti del nucleo del letto della stria terminale: tutte regioni sottocorticali. Esso controlla una serie di risposte neurofisiologiche e neuroendocrine che modificano lo stato interno del corpo, come la respirazione e il battito cardiaco; ciò spiegherebbe come mai gli attacchi di panico sono caratterizzati da sintomi fisici, acuti e inspiegabili, che interrompono la continuità dell’esperienza abituale, tra cui la fame d’aria e il senso di soffocamento (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020).

Spesso i pazienti che soffrono di attacchi di panico non riferiscono sentimenti di solitudine o problematiche affettive e non riconoscono alcuna causa psicologica o significato per i loro attacchi (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020).

Tenendo in considerazione la distinzione tra lo stato emotivo in sé e la sua esperienza cosciente (Adolphs, 2017), possiamo comprendere come a volte sia possibile dissociare stati emotivi, esperienze emotive e concetti emotivi. Nel caso dei pazienti con disturbo di panico, si tratterebbe di una sofferenza non nominabile né riconoscibile consapevolmente, riconducibile ad un profondo vissuto di solitudine. In linea con questa visione, recenti studi sperimentali hanno evidenziato che spesso questi pazienti riferiscono esperienze traumatiche infantili (Zou et al., 2016), che conducono a una forma patologica di dissociazione emotiva in età adulta (Major et al., 2011). Tendono ad essere alessitimici, avendo difficoltà a realizzare, riconoscere, discriminare ed esprimere sentimenti emotivi (Francesetti, 2007; Francesetti et al., 2013), e meno cooperativi e fiduciosi verso le altre persone, con uno stile relazionale altamente autonomo e indipendente (Cox, Swinson, Shulman e Bourdeau, 1995; Iancu, Dannon, Poreh, Lepkifker e Grunhaus. 2001; Marchesi, Fontò, Balista, Cimmino, & Maggini, 2005; Cucchi et al., 2012; Izci et al., 2014; Wachleski et al.,2008).

Evidenze cliniche: le parole dei pazienti

Il momento dell’attacco di panico è vissuto dai pazienti con la sensazione concreta di morire o impazzire, non si tratta semplicemente di un ‘timore’ ma di un’esperienza vera e propria a cui fa seguito la paura che possa ripresentarsi. Si tratta di sensazioni percepite come un disagio corporeo, da cui i pazienti sono terrorizzati e per le quali si recano in pronto soccorso o dal medico di base, al fine di trattare la sintomatologia fisica acuta. In quest’ottica, la morte o la follia rappresentano le due esperienze radicali di separazione dalla comunità (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020).

Nel trattamento di questi pazienti, gradualmente emerge la dimensione emotiva della solitudine, una solitudine negata, indicibile, non formulata e non legittimata nella loro biografia. Un paziente, profondamente toccato da questa scoperta, afferma: ‘il punto non è che ho paura di morire, il punto è che sono così solo che potrei morire, da sempre nella mia vita’ (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020).

Nel corso della terapia spesso emerge con forza un vissuto di profonda tristezza e una rabbia malcelata, come nel racconto di una paziente: ‘Adesso mi ricordo quanto ero brava a scuola… ero solo una bambina, ma non ho mai pianto quando andavamo in gita per qualche giorno. Molti bambini piangevano, ma io no, mai. Per la mia maestra, ero un esempio per tutti. Ora, ricordandolo, mi viene da piangere… è così triste…’ (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020)

L’emergere della solitudine è un passaggio difficile, che richiede tempo e supporto relazionale: all’inizio della terapia non solo non viene percepita, ma esiste una sorta di distanza o reattività affettiva nei confronti della solitudine, come se fosse un’area dissociata dell’esperienza. Solo gradualmente e attraverso un’attenta esplorazione terapeutica il paziente può sentire, riconoscere, legittimare e infine mentalizzare il suo vissuto di solitudine (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020)

L’insorgenza del disturbo di panico è solitamente reputata dai pazienti priva di collegamento con gli eventi di vita personale, sconnessa dal quotidiano e indipendente dal proprio vissuto autobiografico; in realtà, attraverso un’esplorazione più attenta, appare strettamente legata a passaggi evolutivi caratterizzati da processi di separazione-individuazione, o dalla perdita di figure significative nel processo di mediazione tra il paziente e il suo ambiente. Riportiamo le parole di un paziente, in merito: ‘Mia nonna è morta un anno prima del primo attacco di panico. Non ci ho fatto caso, abitavo già abbastanza lontano da lei, lei aveva la sua vita e io la mia. Ma ora capisco una cosa diversa: sono cresciuto con lei, da quando i miei genitori hanno divorziato ed erano impegnati con il lavoro. Lei era la mia protezione nella vita. Ora posso sentire tutto il dolore e la tristezza… mi manca tremendamente’ (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020).

Conclusioni

Considerare il panico semplicemente come un attacco di paura non contempla una serie di importanti elementi clinici ed evidenze neuroscientifiche, precedentemente esposti. Al contrario, è possibile ritenere il disturbo di panico una situazione clinica complessa, che emerge da un’esperienza di solitudine dissociata e non mentalizzata, connessa al disagio dovuto a una separazione da contesti socio-culturali di riferimento, una solitudine caratterizzata da una sovraesposizione al mondo senza una sufficiente protezione relazionale che preveda una mediazione affettiva con il mondo (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020)

Il mancato riconoscimento della cruciale esperienza di solitudine, implicata nel disturbo di panico, potrebbe essere il risultato di una pressione individuale, relativa alla solitudine negata nella propria storia di vita, e di una pressione sociale, ossia la negazione del bisogno di legami relazionali e intimi, all’interno di una società individualista, senza rituali di passaggio, una ‘società liquida’ che porta avanti una svalutazione di fondo sull’importanza dell’altro come luogo di ancoraggio per affrontare il mondo. In questo senso, pur rappresentando un elemento centrale delle società occidentali, la solitudine risulta un elemento dissociato nella nostra cultura e viene considerata l’esperienza di persone che non sono sufficientemente integrate nella società: ‘the losers’, i perdenti (Lasch, 1978; Bauman, 2002; Cacioppo & Patrick, 2008; Rosa, 2010; Bollas, 2018).

Questa ipotesi è compatibile con la ricerca interculturale ed epidemiologica, che ha evidenziato la presenza di differenze rilevanti nei tassi di prevalenza del disturbo di panico in diversi paesi (es. Kessler et al., 2007), trovando un legame positivo abbastanza forte tra valori sociali come l’autonomia affettiva e i tassi e il rischio nel corso della vita di sviluppare il disturbo di panico (Heim, Wegmann e Maercker, 2017).

In conclusione, il mito del Dio Pan, abbandonato alla nascita dalla sua stessa madre, sembra fornire una cornice narrativa a un’esperienza che rimanda sia ad una condizione individuale che ad una situazione sociale: una solitudine dissociata e il bisogno, dissociato, di un legame relazionale. La paura, in questa prospettiva, può essere intesa come l’espressione travolgente di un acuto attacco di solitudine (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020)

 

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