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Il fenomeno dell’enactment nel setting psicoanalitico

Opportunamente gestito, l’enactment è un prezioso strumento di interpretazione terapeutica, occassione di conoscenza del Sé attraverso il Sé di un altro

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 15 Dic. 2021

L’enactment, per quanto abbia origine nella sfera psichica del paziente, non può essere definito un accadimento individuale, in quanto è nel vissuto diadico del setting che riesce a strutturarsi autenticamente (Ponsi, 2012).

 

La relazione terapeutica è un’esperienza trasformante, basata su dinamiche intersoggettive che si evolvono alla ricerca di un delicato equilibrio, tra punti di contatto, rotture e tentativi di riparazione. Ma è soprattutto un impianto collaborativo in divenire, i cui costruttori sono le personalità e gli agiti dei soggetti, e la materia prima è costituita dal materiale inconscio e conscio, verbale e non verbalizzato, che emerge dalla relazione.

È noto come la psicoanalisi ponga uno dei propri fondamenti terapeutici proprio nell’analisi del non detto, dei meccanismi di difesa inconsci, degli agiti e di tutti quegli elementi non interpretativi del colloquio clinico che molto possono rivelare sul vissuto personale del paziente e anche del terapeuta.

Il setting diviene così teatro di un disvelamento interiore reciproco, nel quale paziente e terapeuta si mostrano l’uno all’altro, in un messaggio implicito dal prezioso ruolo comunicativo. Al di là e in assenza delle parole, attraverso il contenuto del non detto.

È in questo universo interiore gradualmente slatentizzato che ha luogo il fenomeno dell’enactment, in cui alcuni vissuti transferali del paziente- inconsci e non verbalizzati- vanno a ripercuotersi nella sfera emotiva del terapeuta, favorendo l’emersione di contenuti emotivi altrettanto inconsci e non verbalizzati (Craparo, 2017; Bromberg, 2001).

Più di frequente si tratta di episodi che, a causa della loro eccessiva portata pulsionale si trovano segregati nell’inconscio, sotto forma di memorie subsimboliche. Una sorta di elementi beta (Bion, 1967), la cui natura non pensabile si sottrae ad ogni possibile categorizzazione, mentalizzazione, traslazione simbolica; sono esperienze deprivanti depositate nella mente come frammenti psichici non assimilati, che hanno creato un’interruzione nella naturale sintesi del Sé, restando all’esterno della consapevolezza.

Natura relazionale dell’enactment

Nel momento in cui un paziente accede alla relazione terapeutica con la sua sofferenza vitale, spinge il terapeuta a riattivare la medesima sofferenza per i condensati psichici dei Sé materni, paterni o di altri oggetti affettivi precedentemente interiorizzati, in una modalità traumatica, e dunque soverchiante, dissociativa, non simbolizzata. E l’attacco che il paziente opera nei confronti dei propri condensati psicologici, si ripercuote inevitabilmente, in una ovvia risonanza empatica, anche in quelli del terapeuta, che ne fronteggia, forse per la prima volta, una inattesa emersione dal subconscio (Crocetti e Pallaoro, 2007).

Il disvelamento del paziente contribuisce ad originare uno stimolo attivante per i contenuti inesplorati del terapeuta, che a sua volta li accoglie, in un tentativo di contenimento sano e bonificante.

Per questo l’enactment, per quanto abbia origine nella sfera psichica del paziente, non può essere definito un accadimento individuale, in quanto è nel vissuto diadico del setting che riesce a strutturarsi autenticamente (Ponsi, 2012). È il non detto del paziente che funge da stimolo elicitante per il non detto del terapeuta, e questo incontro inconsapevole tra non parole dà vita ad un’inattesa occasione di contatto.

La volontà relazionale del paziente viene percepita inconsciamente dal clinico, che a sua volta accetta questo invito inconsapevole, creando un canale comunicativo sorprendentemente generato attraverso il non detto. A dimostrazione di come il vissuto comunicativo non si attui né si esaurisca esclusivamente mediante l’utilizzo dello strumento verbale, ma come in certe occasioni, proprio un linguaggio fondato sulla non parola risulti foriero di un inestimabile quanto inatteso potere relazionale.

La psicoanalisi relazionale ha evidenziato l’aspetto comunicativo dell’enactment, affermando come sia proprio la sua natura intrinsecamente intersoggettiva a distinguerlo dagli altri fenomeni non verbali generabili all’interno del setting (Mitchell, 2000).

In primo luogo si cita la differenza con l’acting out, un atto comunicativo non verbale attraverso il quale una pulsione angosciante viene letteralmente “agita”, senza essere preceduta da alcuno spunto riflessivo (Ponsi, 2012). La funzione liquidatoria dell’acting out è generata interamente nella dimensione psichica del paziente, e la sua manifestazione eterodiretta non ne inficia la natura unidirezionale. Il terapeuta può soltanto prenderne atto, può descriverlo, può notarlo e provare ad interpretarlo: ma non può reperire in esso il contenuto relazionale riscontrabile nell’enactment.

Malgrado i punti di contatto, non sembra possibile neppure accostare l’enactment all’identificazione proiettiva, meccanismo inconscio in cui si assiste alla proiezione difensiva di una pulsione inaccettabile, seguita dall’inserimento della stessa nell’universo psichico di un altro, che ne riconosce la presenza in modalità inconsciamente egosintonica (Madeddu e Lingiardi, 2002).

Le differenze con l’enactment sono evidenti: in primo luogo nell’identificazione proiettiva la funzione comunicativa non è ugualmente rilevante; per quanto la stessa Klein (1921-1958) vi legga una primaria forma di empatia, e dunque di una valenza relazionale allo stato embrionale, l’intento dell’identificazione proiettiva è volto principalmente a liberarsi di una pulsione inaccettabile, attribuendone l’esistenza ad un altro che la accoglie in Sé, sentendosene psichicamente colonizzato; inoltre il materiale proiettato appartiene al proiettante ed è depositato nell’altro, alla stregua di un oggetto parziale, solo con finalità difensive e liberatorie (Ogden, 1991). Al contrario il contenuto mnestico elicitato dall’enactment è relativo ad un vissuto che appartiene alla sfera psichica individuale del terapeuta in via pregressa.

Non sembra opportuno accostare l’enactment neppure al controtransfert somatico, nel quale si riscontra una mera risposta somatica del terapeuta di fronte all’esposizione del materiale inconscio del paziente: si tratta perciò di una condotta reattiva, una risposta il cui contenuto è affidato all’espressività somatica anziché alla parola.

Immaginiamo che uno schizofrenico esponga al terapeuta esperienze allucinatorie persecutorie, provocando nello stesso una reazione di mal di stomaco, o di una forte fitta alla testa: in questo momento non si sta tuttavia sperimentando un enactment, perché non c’è relazionalità nella risposta del terapeuta, né elicitazione inconscia di materiale dissociato. Piuttosto il corpo prende il sopravvento sul processo di simbolizzazione e dà vita ad un vissuto sensoriale, una pulsione che trova nel soma una possibilità di espressione immediata, non riflettuta né rielaborata (Lombardi, 2016).

Craparo (2017) precisa come nel controtransfert somatico il terapeuta si concentri sulla reazione somatica provocatagli dal racconto del paziente, escludendo al contempo la possibilità di identificare lo stato emotivo che si accompagna a quella sensazione (2017). Potremmo definirla una reazione immediata, qui e ora, che il terapeuta realizza in risposta ad una dinamica relazionale scaturita nel setting; un’empatia somatizzata, una risonanza emotiva controtransferale le cui intensità ed immediatezza si esprimono meglio tramite il linguaggio corporale. Al contrario, nell’enactment la reazione somatica del terapeuta non è contingente e contestualizzata ad un racconto del paziente, ma costituisce la risposta inconscia di vissuti non verbalizzati che proprio le memorie dissociate emerse nel setting hanno contribuito ad elicitare.

La gestione terapeutica dell’enactment

Nel fenomeno dell’enactment le memorie coinvolte hanno natura dissociativa. Sono frammenti di esperienze traumatiche che, a ragione della loro intensa portata pulsionale, non hanno trovato collocazione adattiva nella memoria semantica, né sono state dotate di una connotazione verbale o simbolica (Bromberg, 2011); al contrario, restando segregate nella memoria implicita, si sono tramutate in schegge di un passato traumatico impronunciabile, che non può essere inserito nella memoria episodica, né ricordato in una sequenza logica, ma solo riattivato, riattualizzato nel presente, nelle modalità e nei contesti più inattesi. Il loro unico strumento di espressione è il canale somatico, che ne offre testimonianza a mezzo di una sintomatologia “corporale” in grado di schermarne la reale radice psichica.

“In virtù del suo reale e inconscio rapporto con le emozioni traumatiche, il paziente mette in atto, articolandolo con il corpo, ciò che è al di là del linguaggio e che non è assimilabile alla simbolizzazione” (Evans, 1996, pp. 159-160). L’enactment comunica ciò che il paziente non riesce ad articolare consapevolmente, servendosi di un linguaggio formato da ritmi, suoni, sintomi, sensazioni somatiche.

Il trauma e le memorie dissociate ad esso collegate vengono ricostruite per la prima volta nel setting terapeutico, attraverso una delicata operazione a due, un incontro tra vissuti emotivi – quello del paziente e quello del clinico – destinati a lasciare tracce trasformative reciproche.

Le memorie traumatiche si trovano al di fuori di una dimensione temporale proprio perché sono sfuggite ad una rielaborazione conscia, ad una consapevolezza dell’accadimento che, pur verificatosi nella realtà, non è ancora “avvenuto” nell’interiorità psichica del paziente.

In questo senso il setting può essere inteso come un luogo di legittimazione esplicita del trauma, in cui il paziente si sente finalmente autorizzato a soffrire e inizia a dar sfogo ad un dolore mai realmente “accaduto”, provocando inconsciamente il medesimo effetto nella psiche del terapeuta, che si lascia contagiare da questa sofferenza inespressa per legittimare a sua volta la propria.

Ma si tratta di un’operazione complessa, di cui proprio la natura dissociata delle memorie rende insidioso il completamento. Esiste il pericolo concreto che l’analista non riconosca adeguatamente la presenza di questo non simbolizzato interno al proprio Sé, assecondando la percezione dissociata che percepisce nella sfera psichica del paziente (Bromberg, 2011). Ciò impedirà la rielaborazione adattiva delle memorie traumatiche sfuggite alla sintesi, causandone la ripetizione ricorsiva e atemporale, in una sorta di dinamica paralizzante e preclusiva dell’evoluzione.

Questo atteggiamento di resistenza all’enactment potrebbe indurlo ad esibire atteggiamenti sadici –ad esempio attacchi inconsci verso gli oggetti interni cattivi del paziente- o masochistici- aggressione passiva della propria realtà interna- o ancora potrebbe suscitargli vissuti di panico legati alla sensazione di essere inondato da contenuti emotivi ingestibili (Grotstein, 2007). Si verificherà così il “collasso” delle capacità dell’analista di tollerare consapevolmente i propri vissuti emotivi e quelli del paziente, con il risultato che entrambi rimarranno prigionieri del rispettivo non detto, impedendo ogni sua possibile rielaborazione attiva e provocando l’impasse funzionale della terapia (Steiner, 2008).

Ove venga opportunamente gestito, l’enactment può invece rivelarsi un prezioso strumento di interpretazione terapeutica, in grado di fornire occasione di indagine reciproca, di conoscenza del Sé attraverso il Sé di un altro: è un’associazione generata da una dissociazione, un accordo collaborativo che, per attuarsi in tutta la sua produttività, dovrà essere in primo luogo riconosciuto, lasciato emergere e dunque riattualizzato, aggirando ogni possibile mezzo di difesa. In seguito dovrà essere reso accessibile alla coscienza per ricevere adeguate etichette verbali, così da portare un non Sé allo stato di Sé riflessivo e auto centrato (Bromberg, 2011). Tutto questo cercando di tollerare collusioni con la dissociazione del paziente, e di gestirle in modo da non creare regressioni involutive controtransferali in grado di invalidare il percorso terapeutico.

Il terapeuta non dovrà sottrarsi all’enactment in una funzione difensiva, né assecondarlo eccessivamente in modo da annullare ogni distanza che differenzi il proprio Sé da quello del paziente: ciò che dovrà assecondare sarà piuttosto il provvisorio stato di impasse creato dall’enactment, e servirsi di questa attesa in una funzione evolutiva, evitando di cedere a tentativi di interpretazione precoci e implicitamente difensivi. Questo consentirà di aggirare ogni resistenza di fuga al trauma, che riceverà finalmente una propria connotazione logica, verbale e temporale fino ad allora negatagli (Craparo, 2018).

La terapia è soprattutto la costruzione di un legame in cui l’apporto collaborativo tra terapeuta e paziente è costantemente richiesto. Il paziente deve sperimentare un nuovo Sé nel e attraverso il terapeuta, avvalendosi di quel materiale psichico che è già in suo possesso; se ne origina una sorta di creazione maieutica in cui nulla viene concesso dall’esterno, perché il mutamento evolutivo giunge dalla trasformazione di un’interiorità inespressa e inesplorata (Crocetti e Pallaoro, 2007).

Al contempo il terapeuta deve lasciarsi distruggere consapevolmente, nella certezza che l’intento distruttivo del setting, lo stesso che è in grado di destare i suoi condensati più profondi, isolati e mai rielaborati, è un istinto inevitabilmente collegato alla vita; un modo per scoprire non solo il Sé dell’altro, ma anche l’altro nel Sé, e fonderne gli aspetti in una integrazione inter ed intrapsichica di cui l’elemento relazionale costituisce il fondamentale presupposto.

Conclusioni

L’enactment è il bozzolo dissociativo in cui le memorie traumatiche di due soggetti si incontrano, nell’intento di svelarsi le une alle altre (Bromberg, 2011).

Questo prezioso fenomeno relazionale consente la rievocazione del “già fatto” in funzione del non ancora (Crocetti e Pallaoro, 2007). Consente di far accadere il passato, e trovare in esso l’ombra di quell’oggetto relazionale traumatico nel quale si rispecchia, inevitabilmente, anche l’origine della memoria dissociata (Bollas, 1987).

Craparo (2018) osserva come l’esperienza di due inconsci non simbolici che si incontrano sia un impatto psichico di grande rilevanza. Sono due negazioni che si annullano, generando una positività che tramuta la circolarità ricorsiva in linearità progressiva, in impulso alla comunicazione e alla parola che rappresenta la sintesi del Sé e l’autentico successo del compito terapeutico.

Per certi aspetti l’enactment è un’esperienza verbale mancata che, pur nella sua condizione di non parola, anela di venir pronunciata. Ma non essendo mai divenuta parola non può che esprimersi con l’agito corporeo, dunque non può che agire se stessa.

Sta alla funzionalità del setting terapeutico coglierne, pur in questo aspetto di non verbalità, il profondo intento comunicativo, e trarre dallo stesso le risorse in grado di renderla, da elemento dissociato, un’esperienza simbolizzata, pronunciabile e finalmente integrata nel Sé.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Albasi, C. (2006) Attaccamenti traumatici, I modelli operativi interni dissociati, UTET, Torino;
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  • Bromberg, P.M., (2011), L’ombra dello tsunami, tr.it. Raffello Cortina, Milano, 2012;
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  • Craparo, G. (2017) L’enactment nella relazione terapeutica. Caratteristiche e funzioni, Raffello Cortina, Milano;
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