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Il Gruppo come cura (2021) di Claudio Neri – Recensione del libro

"Il Gruppo come cura" utilizza due modi di raccontare la terapia gruppale, uno prettamente concettuale, l’altro puramente clinico.

Di Debora Pannozzo

Pubblicato il 03 Giu. 2021

Il gruppo come cura ha il chiaro intento di trasmettere le conoscenze maturate in tanti anni di terapia gruppale e rivelatesi efficaci, candidandosi ad entrare a pieno titolo nella cassetta degli attrezzi di psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, educatori, operatori di comunità, infermieri.

 

 Il gruppo come cura, scritto da Claudio Neri, Psicoanalista e Psicoterapista di Gruppo, segue la pubblicazione Gruppo (2017), ed è frutto di un sogno, al risveglio dal quale il Dottor Neri risulta illuminato circa la direzione da dare ai vari appunti presi: il narratore non doveva essere solo osservatore ma partecipe dei fatti.

Il libro ha il chiaro intento di trasmettere le conoscenze maturate in tanti anni di terapia gruppale e rivelatesi efficaci, candidandosi ad entrare a pieno titolo nella cassetta degli attrezzi di psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, educatori, operatori di comunità, infermieri, nonché aiutare gli studenti di psicologia e psichiatria ad approcciare l’analisi di gruppo.

Si intrecciano nel libro due modi di raccontare, uno prettamente concettuale, l’altro puramente clinico, volto ad esplicitare i contenuti teorici trattati: le 7 sequenze cliniche riportate, racchiudenti ognuna più sedute, coprono un periodo di dieci anni, dal 2005 al 2015, e non seguono, dunque, un ordine cronologico, quanto piuttosto rispondono alle esigenze del Dottor Neri di rendere il processo terapeutico maggiormente comprensibile.

Nella prima parte vengono presentati i protagonisti del testo, in particolare la narrazione inizia con la richiesta di Gianna di partecipare ad una terapia di gruppo. Da qui la differenziazione tra “candidato ideale” e “paziente possibile”: dai colloqui preliminari ci si accerta se il soggetto ha effettivamente bisogno di un percorso psicoterapeutico e se, nello specifico, può giovare di una terapia di gruppo rispetto ad una psicoterapia individuale. Il paziente possibile è una persona che realmente esiste:

È ogni uomo o donna che viene nel mio studio, chiedendomi aiuto per affrontare la sua sofferenza psicologica ed esistenziale (pag.22).

Gianna accederà al gruppo dopo un percorso individuale durato un anno, durante il quale si è lavorato sulla sintomatologia depressiva.

Obiettivo della psicoterapia di gruppo è riattivare il “progetto vitale” dell’individuo, tendenza evolutiva originaria che ciascuno cerca di perseguire lungo l’intero arco di vita: progetto vitale e psicoterapia di gruppo sono in un rapporto inversamente proporzionale, dal momento in cui l’impellenza del primo rende meno necessario il lavoro di gruppo.

Come sottolinea Kohut:

Il cuore del processo terapeutico, infatti, non consiste nel risolvere singoli meccanismi che sono disfunzionali, ma nel riattivare il potenziale evolutivo del Sé difettoso.

Il gruppo è un tutto in cui ciascuno mantiene la propria individualità: esso non esiste soltanto sul piano sociale, ma ha una propria connotazione nella psiche, essendo una presenza nella mente delle persone. Nel gruppo analitico i rapporti sono di natura egualitaria ed il compito è di conoscersi l’un l’altro, e di conoscere sé stessi nel rapporto con gli altri.

Il setting è di cruciale importanza: statico, immodificabile, luogo sicuro cui affidarsi. Il timing di una psicoterapia di gruppo ideale è bisettimanale, della durata di un’ora e quarantacinque minuti, favorendo il raggiungimento di un’ottimale intensità nella vita dei partecipanti.

 Il gruppo raggiunge maggiori benefici quando è formato da 7/8 persone: un numero inferiore andrebbe a favorire i rapporti duali ed un numero maggiore renderebbe difficoltoso seguire le vicende di ciascuno. Il gruppo analitico descritto nel testo è eterogeneo per sintomatologia e relativamente omogeneo per età e viene descritto dal Dottor Neri “ad alto funzionamento”. Trattasi di un gruppo “slow open”, ovvero a lento ricambio: ogni anno circa due persone concludono la terapia e altrettante la iniziano. Con la consapevolezza che i gruppi chiusi a lungo andare stagnano, l’autore sottolinea il delicato momento di ristrutturazione cui l’intero gruppo va incontro quando entra un nuovo partecipante-paziente: la fuoriuscita di uno dei membri viene vissuta come un lutto, ragion per cui si lavora su tale momento per mesi; di converso alle new entry si associano intense aspettative. Appartenere a un gruppo analitico corrisponde ad un lavoro di ri-definizione identitaria, ovvero si percorre la strada della soggettivazione. Più precisamente, rappresenta l’inizio di un processo che va in direzione opposta alla strada di solitudine e ripiegamento su di sé verso cui la persona si era precedentemente indirizzata, o verso cui era stata spinta.

Disposti in cerchio, i soggetti affidano i propri pensieri, fantasie, sogni, emozioni, al centro vuoto, venendo in contatto con l’ignoto. Il materiale portato in seduta viene così pensato e trasformato.

Nello stato del “gruppo nascente”, caratterizzato da speranza ed apertura al futuro, l’individuo sperimenta depersonalizzazione, ovvero perdita dei confini del sé, accompagnata da un cambiamento del proprio modo abituale di pensare e di porsi in rapporto con la realtà circostante: le sensazioni e le attese non sono più localizzate, ma diffuse in uno spazio comune. Il tempo non è più il tempo della quotidianità, bensì il tempo della seduta, ovvero un “presente esteso”. Tale disorientamento colpisce tutti i partecipanti, incluso il terapeuta. L’evoluzione di tale stadio è “la comunità dei fratelli”: i membri prendono consapevolezza delle potenzialità del gruppo come soggetto collettivo, come comunità capace di pensiero. In tale stadio ogni membro diviene maggiormente disponibile a mettersi in gioco. L’analista, conduttore del gruppo, è percepito meno distante, più umano e maggiormente partecipe: se nella fase precedente veniva costantemente atteso un suo intervento (di approvazione, disapprovazione o salvazione), nella comunità dei fratelli vi sono lunghe fasi della seduta dove il terapeuta non interviene; calibrando i suoi interventi, il terapeuta si colloca in posizione laterale, lasciando scorrere gli interventi dei pazienti.

Compito del terapeuta è fare in modo che vengano rispettati i tempi di ciascuno alla condivisione, proteggendo il diritto al riserbo. Specie nelle fasi iniziali, la sola presenza e l’accoglimento dei pensieri altrui nella propria mente, costituisce un momento di condivisione e trasformazione. Quando tutti riescono a partecipare al gruppo allo stadio della comunità dei fratelli, ogni membro si trova a essere contemporaneamente un paziente e un agente attivo che svolge una funzione nel trattamento degli altri.

Il pensiero di gruppo sviluppa le sue potenzialità terapeutiche soprattutto quando può lasciare da parte il ragionamento organizzato e il problema concreto, ed è libero di spaziare nell’immaginazione e procedere per rapide intuizioni. Il pensiero di gruppo è mimetico, ovvero capace di rappresentare qualcosa e renderlo emozionalmente e sensorialmente presente.

Il racconto delle sequenze di seduta si dispiega come un dialogo a più voci, mettendo in luce il processo veritativo che si realizza in analisi di gruppo: punti di vista diversi e diverse verità coesistono, si confrontano, si scontrano, favorendo un’evoluzione del discorso e delle persone che vi prendono parte. Gradualmente si forma il senso del “NOI” e un sentimento di interdipendenza, portando alla creazione della membrana protettiva, pelle psichica, denotante il senso di appartenenza.

Ogni membro deve impegnarsi non solo per raggiungere la sua meta personale, ma anche per creare e mantenere le condizioni di un buon funzionamento del gruppo come insieme.

Il problema del singolo diviene problema del gruppo: il dottor Neri utilizza il termine commuting per indicare tale processo.

Compito del terapeuta è focalizzare l’andamento di ciascun membro nel processo di cura, stando bene attento ad evitare l’attivazione dell’assunto di base della dipendenza, il cui risultato sarebbe la passivizzazione del gruppo. Rivolgendosi alla totalità del gruppo, piuttosto che al singolo individuo, egli favorisce le libere associazioni utilizzando immagini o piccoli racconti, promuovendo, in tal modo, la “buona socialità”. Un gruppo è dotato di buona socialità, quando è in grado di soddisfare almeno in parte il bisogno di riconoscimento delle persone che lo formano. Trattasi di un riconoscimento realistico: oltre alle capacità vengono focalizzati anche limiti e manchevolezze. Da ciò può dispiegarsi un discorso comune diretto verso una meta condivisa: l’autenticità, vista come conoscenza, sincerità, miglioramento individuale.

Il modello esplicitato non importa nel setting gruppale metodologie psicoanalitiche standard, quali transfert e controtransfert, che, seppur notate, vengono collocate sullo sfondo.

Centrale è il dispiegarsi della “capacità negativa”, individuata da Bion: l’esercizio del “non capire” fa sì che l’analista non dia prematuramente forma a ciò che sta evolvendo e che potrà emergere in modo più chiaro nel campo analitico. Ciò non equivale ad un atteggiamento di passività, quanto piuttosto al restare in contatto con l’incomprensibile, non uscendo dalla condizione di dubbio.

La funzione analitica non è prerogativa del terapeuta: è invece una funzione ruotante, che può venire assunta dal gruppo nel suo insieme e di volta in volta dal Genius loci, ovvero dalla persona che prende la parola e coglie in modo più creativo il senso della situazione in atto in quel dato momento.

Nel gruppo vengono elaborati e metabolizzati traumi, lutti, separazioni, conflitti: il modus operandi è dato dal racconto e dalla condivisione di sogni, di fantasie, di pensieri. Il racconto e il raccontare hanno finalità terapeutiche e i confini di ciascuno divengono via via più permeabili. Il paziente si lascia andare alla condivisione e alla compartecipazione esperendo il gruppo come luogo sicuro.

Particolarmente rilevanti sono i “sogni a tema”: serie di sogni con contenuto simile tra loro, contenenti piccoli cambiamenti, indice dello sviluppo personale che il sognatore sta compiendo.

Il processo terapeutico implica una trasformazione complessiva della persona e non soltanto un miglioramento della sintomatologia: il gruppo rappresenta la cura nel processo di soggettivazione.

Utilizzando il concetto di “zona di sviluppo prossimale” sviluppato da Vygotskij, si può affermare che l’appoggio e il sostegno dell’analista e del gruppo incidono sulla possibilità del paziente di sviluppare le sue potenzialità verso il miglioramento e la guarigione. Il primo passo di questo percorso è offerto dall’accettazione e dalla convalida dei pensieri e delle emozioni: solo sentendosi un umano, vedendo riconosciuto il proprio diritto all’errore, l’individuo può muovere i passi verso il cambiamento.

L’epilogo del libro coincide con la fine della terapia di Gianna, comunicato al gruppo diversi mesi prima: il processo di soggettivazione si è dispiegato e Gianna è diventata autonoma.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Neri, C. (2021). Il gruppo come cura. Raffaello Cortina Editore
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