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L’epigenetica e il mondo prenatale

L’epigenetica sembra rappresentare il tratto di unione tra dimensione genetica e ambientale, come un mediatore con i numerosi stimoli ambientali circostanti

Di Cristi Marcì

Pubblicato il 14 Giu. 2021

Aggiornato il 18 Giu. 2021 11:29

L’eredità genetica e quella epigenetica sembrano partorite dalle rispettive esperienze dei caregiver, i quali mostrano durante l’epoca prenatale una gamma di modificazioni chimico-fisiologiche, capaci di incidere sui vari livelli di cura nei confronti di chi si porta in grembo.

 

Il ruolo dell’epigenetica nelle prime fasi di vita

La programmazione del genoma nelle prime epoche di vita rappresenta una chiave di svolta capace di offrire nuove interpretazioni e nondimeno nuove chiavi di lettura, tra queste quella di Barker (Barker, D, J., 1998).

L’autore infatti, sul finire degli anni 90, postula l’esistenza di un processo definito “fetal programming” caratterizzato dalla plasticità del feto nell’interagire e nel reagire a seguito degli stimoli ambientali, capaci – come detto in precedenza – di indurre modifiche più o meno durature.

Procedendo sotto il profilo olistico, che vede in stretto rapporto DNA, feto, figura materna e ambiente circostante in un continuo scambio reciproco di informazioni, si può assistere allo sviluppo della vita già a partire dagli eventi che avvengono all’interno dell’utero.

In questa prima fase infatti tali eventi correlati alla dimensione genetica e cioè geneticamente determinanti, possono essere modulati da condizioni ambientali materne. Tale fase iniziale quindi non solo è caratterizzata da un primo imprinting ma rispecchia altresì il primo stadio dello sviluppo cerebrale.

Viceversa la seconda fase – rispetto alla quale convergono sia quella prenatale che post natale, come sottolineato da Kolb – risulta caratterizzata da un ampio sviluppo delle connessioni sinaptiche sensibili all’esperienza materna esterna.

Inoltre in concomitanza con il programma genetico serve a riepilogare e a confermare quanto l’imprevedibilità delle interazioni con l’ambiente e i fattori stressanti possa essere un fattore predominante (Kolb, B., 2011).

Nondimeno quello che colpisce è riscontrare come i genitori, in base alla propria capacità autoregolatrice ed omeostatica, depositino il loro stesso bagaglio biologico/esperienziale nel genoma della prole, proprio a partire da quello genitoriale/materno. I contenuti delle rispettive esperienze riflettono quindi una responsabilità nel sapersi prendere cura di sé stessi al fine di lasciare una traccia positiva nel genoma di chi si affaccerà al mondo.

In pratica l’eredità genetica e quella epigenetica sembrano partorite dalle rispettive esperienze dei caregiver, i quali mostrano durante l’epoca prenatale una gamma di modificazioni chimico-fisiologiche, capaci di incidere sui vari livelli di cura nei confronti di chi si porta in grembo.

Grazie a questa visione emerge una mappatura delle aree cerebrali interessate e coinvolte che si riflette durante il periodo di gravidanza nella figura materna; ma al contempo un’altra relativa alle modifiche biomolecolari a carico o a discapito del genotipo. Sotto questo aspetto il periodo della gravidanza va percepito come un insieme di fattori in relazione reciproca e al contempo come un’evoluzione sinergica, tra la madre e il futuro bambino, capace di evidenziare la maturità o meno genitoriale.

A sostegno di quanto evidenziato sinora, in relazione alla compresenza di numerosi fattori presenti durante la fase dello sviluppo embrionale, Crews ha posto l’accento sull’azione svolta dagli influssi ambientali che sono determinanti per la salute dell’individuo nel corso e nello sviluppo della sua esistenza (Crews, D., 2014).

Rapporto tra epigenetica, ambiente e stress

Come si è visto sin qui, l’epigenetica sembra rappresentare il tratto di unione tra la dimensione genetica e quella ambientale (Champagne F, A., Curley, J, P., 2009), una sorta di ponte che mette in comunicazione le modificazioni epigenetiche come veri e propri mediatori con i numerosi stimoli ambientali circostanti.

Quanto ci circonda infatti determina cambiamenti entro il nostro organismo dei quali è possibile al contempo evidenziare e riscontrarne i risultati attraverso le modificazioni epigenetiche. Grazie al termine epigenoma si indica l’insieme e l’assetto delle modificazioni epigenetiche che coinvolgono il genoma stesso.

A questo punto è importante sottolineare come l’interazione non si limita esclusivamente a fattori fisici o facilmente visibili, ma si estende oltre quello che non vediamo e che spesso e volentieri sentiamo a livello corporeo.

Le sensazioni da noi provate infatti, spesso, possono essere restrittive e altre volte invece promotrici di grandi cambiamenti.

Nel primo caso tuttavia qualora si raggiungano elevate condizioni psicofisiologiche che frenano la nostra espressività allora lo stress rischia di inficiare la nostra vita e le varie fasi che ci troviamo a vivere (McGowan, P, O., 2009).

Quest’ultimo, infatti, se circoscritto al periodo di gravidanza può rappresentare un forte fattore di rischio, se non comunicato, sentito e condiviso; proprio perché è un fattore potentissimo in grado di produrre profonde modificazioni epigenetiche (Gassen, N, C., 2016).

Entrando in questa ottica, risulta affascinante vedere come il nostro genoma sembra sapersi adattare a qualcosa di “invisibile” e cioè ad elementi non fisici. Questo inoltre mette in luce una strutturazione ben precisa ed organizzata di quei fattori che giocano un ruolo fondamentale e, come accennato prima, nel loro insieme producono meccanismi molecolari coinvolti direttamente negli effetti epigenetici indotti da cure parentali dopo la nascita (Galimberti, D., 2018).

A seguito di quanto descritto è possibile quindi ipotizzare che gli stessi meccanismi molecolari possono indurre modificazioni epigenetiche anche prima della nascita, cioè in fase prenatale, dove il background genetico parentale una volta trasmesso risulta caratterizzato ed arricchito dalle rispettive capacità omeostatiche genitoriali, che sotto il profilo biologico ed ormonale influenzano direttamente il feto (Barker, D., 1995).

I meccanismi di metilazione, di trascrizione e la capacità di creare i siti di legame a livello molecolare sembrano quindi rispecchiare solo un primo livello (Jiang, R., 2014).

Tuttavia se si dispongono sullo stesso piano molti fattori, compreso quello genetico, non vuol dire che quanto trasmesso debba necessariamente seguire una determinata strada, non vuol dire quindi che quanto acquisito per trasmissione non possa subire ulteriori trasformazioni in positivo.

Se la metilazione del DNA è fondamentale, lo è ancor di più a partire dallo sviluppo embrionale. In questa fase prende vita, gradualmente, un organismo con centinaia di tipi cellulari diversi la cui graduale differenziazione dipende dalle modifiche che incidono e si verificano durante l’espressione dei geni riscontrabile durante lo sviluppo.

Se dunque il punto di partenza è dato dalla stessa sequenza genomica, parallelamente – grazie al lavoro e al controllo svolti da sub unità – la differenziazione è promossa attraverso la selezione dei geni che verranno sottoposti o meno a metilazione e a de-metilazione, al fine di promuovere un processo di rimozione e creazione di marker epigenetici o etichette chimiche (Hajkova, P., 2011).

Questa sequenza rispecchia dunque lo sviluppo dello zigote le cui caratteristiche epigenetiche rifletteranno la presenza o la mancanza che porterà ad una differenziazione e ancor di più ad un destino cellulare nelle future generazioni di cellule.

L’identità cellulare sembra quindi dipendere pienamente dalla metilazione del DNA, la cui importanza si riscontra proprio durante l’embriogenesi in cui eventuali mutazioni possono raggiungere elevati livelli di incidenza.

Nelle prime fasi di sviluppo fetale, in definitiva, l’epigenoma non tende a stabilizzarsi, ma al contrario riflette solo il trampolino di lancio.

Le esperienze vissute in età prenatale sono quindi in grado di modificare la struttura della cromatina o il livello di metilazione di un gene, confermando così come un pattern epigenetico possa innescare ulteriori cambiamenti (Li, E., 1992).

Programmazione fetale ed epigenetica transgenerazionale

Una logica (invisibile) interna all’organismo

Con tale termine ci si riferisce alle capacità e anche alle necessità delle cellule embrio-fetali di definire il proprio assetto epigenetico in risposta alle informazioni provenienti dalla madre e, attraverso di essa, dal mondo esterno.

In accordo dunque con il concetto di ontogenesi fetale, risulta che il programma genetico specifico di un individuo è il risultato di 9 mesi di interazione epigenetica tra miliardi di cellule e l’ambiente circostante.

Fattori non trascurabili in questo periodo, pertanto, risultano essere prima di tutto lo stress materno fetale, gli errori nutrizionali trasmissibili attraverso l’allattamento e, come sopra accennato, i fattori ambientali (Heijmans, B, T., 2008).

Quanto detto sinora avvalora ancor di più non solo la presenza o meno di una corrispondenza e una sintonia tra questi numerosi tasselli, ma ancor di più il loro disquilibrio, che in una fase delicata come quella prenatale, può ripercuotersi nel periodo successivo, ossia postnatale.

Pembrey e Byrgen hanno infatti posto l’accento sugli effetti transgenerazionali che le modifiche epigenetiche possono comportare mettendo in risalto il concetto di epigenetica transgenerazionale (Brygen, L, O., 2011).

Il GUT, definito dalla comunità scientifica come cervello addominale, oggi viene inoltre definito secondo cervello, con una propria organizzazione ed un insieme di funzioni dedite ad ottimizzare il nostro rapporto con il nostro mondo interno e con quanto ci circonda (Galimberti, D., 2018, Sudo, N., 2016).

Secondo la medicina orientale il gut, situato al centro dell’addome, viene definito manipura chakra, ossia centro energetico attorno al quale e in più direzioni ruotano energie nuove, promotrici di un cambiamento.

Risulta dunque un punto fondamentale dove convergono assimilazione dell’informazione, memoria, riconoscimento o rifiuto e, non ultimo, luogo dove convergono le emozioni.

Se questi fattori risultano quindi in interazione reciproca a più livelli, esiste un ulteriore equilibrio ad un livello ancora più profondo che non solo gioca un ruolo importante, ma che in maniera dinamica influenza lo stato di salute umana, confermando ancora come quello che all’apparenza non si veda si concretizzi più di quanto non si creda.

Come detto in precedenza è come se il nostro comportamento in superficie fosse solo la punta dell’iceberg, sotto il quale ciò che è invisibile è in costante movimento.

L’organismo umano infatti risulta popolato da popolazioni microbiotiche con i loro rispettivi DNA e geni, in continuo equilibrio reciproco (Nielsen, D, S., 2014).

Il gut microbiota può essere considerato come un ambiente definito dell’organismo umano o, meglio ancora, come una parte circoscritta di esso. Questo non vuol dire considerare la vita che risiede dentro di noi come spezzettata o peggio ancora divisa, ma al contrario significa prendere consapevolezza circa i vari distretti corporei con le rispettive funzioni che, in sinergia tra loro, hanno un impatto a livello infinitesimale sulla nostra salute (Clemente, J, C., 2012, Mackos, A, R., 2012).

Il gut microbiota è a sua volta costituito da numerosi microrganismi situati nel tratto gastroenterico dell’uomo, mentre il microbioma umano altro non è che il risultato della codifica dei geni dei microrganismi che compongono il microbiota stesso. L’equilibrio mutualistico e trasformativo che si viene a creare è dato dunque dal gruppo più funzionale dei geni che strutturano il microbioma, il quale come si è visto presenta un proprio patrimonio genetico (Peter, J., 2007, Marchesi, J., 2016, Qin, J., 2010).

Quello che dunque ci si chiede è se un’alterazione a questo livello (gut microbiota) possa o meno portare ad una distribuzione atipica degli stessi geni. Quanto viene a dispiegarsi è una vera e propria popolazione circoscritta che prende il nome di popolazione del microbiota, che risente delle modifiche in base all’alimentazione, soprattutto durante l’allattamento, e che oltremodo, a livello microscopico, risulta strettamente correlato alla salute umana; più nello specifico attraverso le interazioni ed i coinvolgimenti sia di natura ormonale che neurotrasmettitoriale (Turnbaugh, P, J., 2007, Moloney, R, D., 2014).

Ciò che risulta affascinante è come una concatenazione di numerose sub unità favorisca e dia vita ad un condizionamento fisico, ripercuotendosi sull’umore, sul comportamento e sulle proprie potenzialità.

 

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Cristi Marcì
Cristi Marcì

Psicologo, Specializzando in Psicoterapia

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Barker, D. J., (1998), “In utero programmingof chronic disease”. In Clin. Sci., 1998.
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