Nel 2015 il presidente Obama emanò un ordine esecutivo destinato a rimanere nella storia “Using Behavioural Science Insights to better Serve the American People” (usare le scoperte delle scienze comportamentali per servire meglio il popolo americano) e il documento recita “quando le politiche sono progettate in modo da tener conto delle scoperte scientifiche in ambito di economia comportamentale e psicologia dei processi decisionali, esse hanno migliorato la situazione di individui, famiglie comunità e organizzazioni”. Nel 2017 Richard Thaler vince il premio Nobel per l’economia grazie ai suoi fondamentali contributi nella Behavioral Economics sviluppando la teoria della contabilità mentale. La sua teoria spiega come le persone semplificano il processo decisionale in materia finanziaria, creano resoconti separati nella loro mente e si concentrano sullo stretto impatto di ogni singola decisione piuttosto che sul suo effetto complessivo. La base delle sue riflessioni è il concetto di nudge. Una spinta che può essere applicata per migliorare il modo in cui si prendono decisioni che riguardano i propri risparmi, come Thaler stesso ha dimostrato applicando una “spinta gentile” per indurre a preferire, per esempio, una pensione sicura.
In questo senso, virtuosa è stata la scelta di Enpap, la cassa nazionale di previdenza e assistenza degli psicologi, nell’utilizzare sapientemente questa conoscenza prevedendo una prima base di architettura delle scelte, volta ad incentivare comportamenti funzionali e nello specifico a “spingere gentilmente” le psicologhe e gli psicologi ad aumentare la soglia di contribuzione annuale. Tuttavia, non è sufficiente. E forse nel nostro Paese abbiamo ancora bisogno di imparare a leggere come strettamente connessi due concetti che anticipano e determinano non solo il risparmio che siamo chiamati a gestire, ma anche una situazione di equità distributiva: l’istruzione, la formazione e il reddito.
Partiamo da due aspetti centrali: il primo aspetto lo troviamo nei dati raccolti dalla Banca d’Italia che hanno messo in evidenza che gli italiani hanno un livello di conoscenze finanziarie ancora insufficiente nel confronto con la media OCSE. Il secondo dato che ci richiede un’attenta lettura è il tasso di occupazione femminile. Sappiamo che le donne hanno un minor accesso al mercato del lavoro, percorsi più frammentati e, anche quando sono attive, si tratta di lavori precari e discontinui. Non è diverso per la libera professione, situazione che genera l’illusione di una flessibilità, ma che finalmente, durante il lockdown è stata smascherata come condizione, almeno per le donne, che permette di coprire contemporaneamente e faticosamente più ruoli. Come sappiamo equità e giustizia sociale non hanno a che fare con il dirsi uguali, ma con l’avere pari opportunità, che non sono “uguali opportunità”, ma opportunità necessarie a partire dalla condizione di partenza.
Il Gender Gap Report del World Economic Forum rivela che la retribuzione annuale delle donne ha appena iniziato a eguagliare la somma che gli uomini guadagnavano dieci anni fa. Questo significa che il mondo sta perdendo enormi quantità di talento dalla forza lavoro. Rispetto alla riduzione del gender pay gap nell’ultimo report pubblicato l’Italia arretra, portandosi al 76esimo posto dal 70esimo dello scorso anno, ultima in Europa, davanti solo a Grecia (84esimo posto), Malta (90esimo posto), e Cipro (91esimo posto). Il WEF sottolinea che, anche laddove le donne siano professionalmente dotate per ricoprire alcuni ruoli, non sono adeguatamente rappresentate. D’altra parte, sappiamo che a fronte di un’occupazione femminile che dall’attuale 48% arrivasse al 60%, il PIL aumenterebbe del 7%, quindi avremmo risolto probabilmente molti dei problemi della crescita di un gap economico semplicemente puntando sulla valorizzazione del lavoro delle donne.
Se ora leggiamo in modo correlato due dati vediamo che se il gender gap è ampio, ancor più ampio è il divario in tema di financial literacy, aspetto che rappresenta una grande area di vulnerabilità del nostro Paese, indipendentemente dal genere, ma ancor più per le donne che in tema di educazione finanziaria sono ampiamente più disinformate degli uomini. E’ un divario che si riduce nelle generazioni più giovani (18-35 anni), ma resta comunque grave.
Ma allora perché si investe ancora così poco nell’educazione finanziaria? E che cosa significa per la nostra comunità professionale di psicologhe e psicologi composta per l’86% da donne? Se un grande traguardo è stato raggiunto con la creazione di un ponte tra l’economia e la psicologia, la sfida dei prossimi anni sarà quella di realizzare un programma di formazione alla gestione finanziaria di tutta la comunità professionale, colmando il gap culturale di un’ampia fetta di popolazione che ha poche o scarse conoscenze di un conto economico, di planning & budgeting (anche solo a livello personale) e di aspetti previdenziali. Siamo a conoscenza degli studi che hanno identificato i comportamenti apparentemente “irrazionali” sul piano economico, ma in realtà perfettamente comprensibili se si considera il modo in cui le persone ragionano ed utilizzano le informazioni. Pensiamo ai comportamenti di mental accounting (Thaler, 1999), di sunk costs (Arkes e Blumer, 1985; Arkes, 1996) o all’endowment effect (Kahneman, Knetsch e Thaler, 1990).
Tuttavia, non abbiamo previsto all’interno dei nostri percorsi di studio universitario le conoscenze di concetti economici di base, che permettano l’adozione di comportamenti finanziari adeguati e l’attitudine a formulare decisioni orientate al lungo periodo. A questo punto del ragionamento possiamo porci qualche domanda. Perché pur avendo solide conoscenze sul potere della formazione, sui processi di apprendimento, sull’economia comportamentale non riusciamo a trasformare queste risorse per ridurre il gender pay gap almeno all’interno della nostra comunità in modo da avviare un modello virtuoso? Perché non riusciamo a rendere obbligatoria già a partire dalla scuola secondaria un processo di alfabetizzazione finanziaria?
E ancora perché con le nostre conoscenze in termini di ricerca, modelli organizzativi e processi decisionali la nostra comunità non è ancora stata in grado di portare all’attenzione del legislatore la necessità di agire preventivamente sulla salute mentale con programmi di educazione emotiva fin dalla scuola primaria. Perché all’interno dei dipartimenti di salute mentale sono ancora pochi i modelli organizzativi che obbligano a produrre studi di esito, i soli in grado di potare evidenze concrete per aumentare in modo virtuoso gli investimenti? Conosciamo bene i costi di una mancata educazione emotiva fin dall’infanzia, ma non siamo ancora in grado di comprendere che, fino a quando non saranno inseriti programmi di educazione finanziaria all’interno dei nostri percorsi accademici, la nostra professione continuerà ad essere percepita come un servizio non essenziale, “un lusso” nel migliore dei casi o un costo, ma certamente non un investimento.
Solo quando avremo colmato questo gap formativo saremo in grado di fare “prevenzione” e le parole pronunciate qualche ora fa dal Presidente del consiglio Draghi ci fanno sperare che i tempi siano maturi “Dovremo imparare a prevenire piuttosto che a riparare, non solo dispiegando tutte le tecnologie a nostra disposizione ma anche investendo sulla consapevolezza delle nuove generazioni che «ogni azione ha una conseguenza. Conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni”.