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Dopo Trump, tornare alla razionalità

È tempo di tornare a dare un suo ruolo alla razionalità perché troppo di emotivo e irrazionale vi è nei fatti accaduti a Washington

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 11 Gen. 2021

In questi giorni, gli strani e inquietanti eventi che accompagnano la fine della presidenza di Donald Trump ci dicono molte cose, tra le quali ce ne è una che interessa a noi che lavoriamo nel campo psicoterapeutico: che è tempo di tornare a riconoscere il ruolo significativo che la razionalità gioca nel benessere emotivo oltre che in quello sociale.

È tempo di tornare a dare un suo ruolo alla razionalità forse anche in psicoterapia perché troppo di emotivo e irrazionale vi è nei fatti accaduti a Washington. È vero: rischia di essere strumentale discorrere di razionalità o razionalismo in psicoterapia in questo momento in cui ben altro accade: la solidità della democrazia americana, tra le più antiche al mondo, ha mostrato una crepa. La razionalità è un valore importante ma non si può non riconoscere che in psicoterapia questa parola ha un significato preciso: “razionalità” e “razionalismo” sono due termini legati a determinati orientamenti psicoterapeutici, così noti che è inutile indicarli. Additare gli scricchiolii della politica americana per fare la propaganda a una psicoterapia non suona elegante.

Eppure, distaccandoci dalle singole psicoterapie e parlando di “razionalità” e “razionalismo” in maniera più ampia, come atteggiamenti clinici e orientamenti scientifici e non come brand di una determinata psicoterapia, i fatti di Washington possono essere un monito a riconsiderare i meriti delle funzioni razionali nel processo psicoterapeutico. Proveniamo da alcuni decenni di riscoperta, a volte benemerita e altre volte meno, dell’emotività in psicologia e in psicoterapia. Tra i tanti libri, uno dei più mainstream e pop è stato “Emotional Intelligence” pubblicato nel 1995 dal giornalista scientifico Daniel Goleman. Accanto a questa opera, altre ne sono state pubblicate più rigorose e profonde e molto ci hanno insegnato.

Tutti questi contributi ci hanno fatto capire quanto sia complesso il rapporto tra gli stati emotivi e le nostre decisioni più ponderate, calcolate e fondate su i principi più impersonali e astratti della razionalità. Un rapporto complesso in cui non possiamo pretendere che l’emozione sia meccanicamente asservita alla ragione. Abbiamo capito che i nostri stati esecutivi e consapevoli, la cosiddetta ragione, possono svolgere una funzione regolativa che arriva sempre dopo la percezione emotiva ma non può sostituirla: come scriveva Jonathan Haidt (2001) la buona ragione è la coda del cane, una metacognizione e non una cognizione primaria. Abbiamo imparato che la razionalità è una funzione acquisita tardivamente nell’evoluzione e da questa provenienza derivata dipendono i suoi limiti nel controllo degli stati mentali. Sappiamo ormai che la razionalità, lasciata a sè stessa, genera anch’essa i suoi mostri: il rimuginio e i pensieri ossessivi ad esempio. Abbiamo infine appreso che gli stati mentali, compresi quelli più razionali e impersonali, non sopravvivono al di fuori delle relazioni emotive con le altre persone e che quindi in ogni ragionamento vi è un affetto per o contro qualcuno. Da ultimo, abbiamo imparato che la mente è incarnata e che gli algoritmi e i concetti della ragione non vivono al di fuori di stati corporei che coinvolgono nervi, muscoli, pelle e visceri.

Insomma, abbiamo imparato di tutto ma abbiamo iniziato a trascurare la ragione rischiando così di dimenticare quella che è una delle principali virtù del pensiero razionale, la sua capacità di distaccarsi, di disincarnarsi, di decontestualizzarsi e di valutare freddamente e astrattamente i pro e i contro di una situazione e poi stabilire il da farsi (anche) al di fuori di ogni istinto. Che poi ci riusciamo ad attivarlo questo da farsi è un altro paio di maniche, ma intanto possiamo immaginarlo, sapere cos’è e sapere che prima o poi faremmo bene a fare quel che si deve fare. Insomma, abbiamo dimenticato che la razionalità è connessa con la funzione esecutiva consapevole, quella funzione che ci consente di prendere decisioni che sono certamente condizionate dalle percezioni affettive, emotive, relazionali, interpersonali e corporee ma che poi posseggono sempre un margine, un margine sottile ma presente in cui per un attimo e in maniera del tutto astratta, decontestualizzata e impersonale possiamo dire “si, faccio questo” o “no, non voglio farlo”.

Questa funzione è stata a volte svalutata, trascurata, definita illusoria e irrilevante. E questo pensiero si è diffuso sia a livello popolare che scientifico, in un movimento che ha coinvolto vari ambiti. Un movimento, ripeto, che ha i suoi grandi meriti scientifici ma che è solo una possibile linea di sviluppo nella storia umana, non l’unica e nemmeno sempre la più promettente. È anche una direzione che spesso ha mostrato delle corrispondenze con movimenti culturali di tipo irrazionalistico e romantico che periodicamente hanno conquistato l’egemonia o almeno la prevalenza sulla scena della storia, accanto ad altri periodi in cui l’orientamento prevalente era quello razionalistico.

Non si può ignorare che l’ondata neoromantica in psicoterapia, che dura da un po’, mostri le sue risonanze armoniche con le ondate populistiche e anti-elitarie che da alcuni anni hanno acquistato forza. Mi pare sia più diffusa di un tempo la convinzione che un ragionamento astratto non abbia alcun valore sociale, culturale e personale se non è accompagnato da una convinzione emotiva, da una sensazione viscerale e se non è vissuto in una relazione affettiva che fornisca un significato sentimentale al tutto. È un pensiero popolare indubbiamente, e che ha i suoi meriti. Si pensa che una musica debba avere il suo “hook” immediato, il suo appiglio melodico altrimenti non vale nulla ed è sospettata di snobismo. E così per mille altre manifestazioni della vita culturale, sociale e mentale. La conseguenza è che però decresce la fiducia nella possibilità di poter effettuare uno sforzo volontario non sentito ma razionale, lo sforzo di educarsi a imparare a fare qualcosa che spontaneamente e visceralmente non ci piace. Questa conseguenza vale non solo per la psicoterapia, in cui decresce la fiducia nel poter trasmettere al paziente la possibilità di un suo impegno razionale a mettere in atto comportamenti e pensieri funzionali, ma anche per la società, sempre più preda di idee populistiche, irrazionalistiche, percepite ma non elaborate, di grande impatto emotivo ma non pensate e, se permettete, non razionalizzate razionalisticamente.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Goleman, D. (1995). Emotional Intelligence. New York: Bantam Books. Tr. Italiana, Intelligenza emotiva, Milano, Rizzoli, 1997.
  • Haidt, J. (2001). The emotional dog and its rational tail. A social intuitionist approach to moral judgement. Psychological Review, 4, 814-834.
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