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La strada (2006) Ding an sich – Recensione del libro

'La strada' racconta un mondo post apocalittico caotico dove i protagonisti non hanno nome e l'ordine è ridotto all'essenziale, buoni/cattivi, vivere/morire

Di Marco Marcato

Pubblicato il 21 Dic. 2020

Il libro La strada è una finestra… Si apre su un mondo desolato, finito, fatto a pezzi.

 

Non si sanno i motivi di questa visione apocalittica. Dapprima la spinta che si prova, che almeno io ho provato, è di una curiosità a sapere i motivi per i quali si è arrivati a questo punto, a questa desolazione. Rari flashback della mente del protagonista ce ne danno un assaggio ma poco alla volta anche il lettore viene avvolto da questo mondo triste e desolato. Un mondo nel quale non è rimasto nulla, solo terra bruciata.

La finestra si apre su un pezzo di vita di un padre e di un bambino (suo figlio) che si ritrovano a vagare per le strade in cerca dei buoni. Il mondo è ridotto all’essenziale: i buoni da un lato, i cattivi dall’altro, la necessità di sopravvivere, di procacciarsi il cibo, un riparo e dei vestiti per il freddo e nulla di più… E una speranza, quella di raggiungere il sud, nel quale (forse), trovare una comune dove altre persone (i buoni) possano essersi radunati e con loro ricominciare. Un forse che è tutto ciò che è possibile ottenere dalle tenebre che hanno avvolto il mondo. Poco alla volta quelle tenebre avvolgono anche il lettore che smette di chiedersi i motivi per i quali il mondo è stato ridotto in cenere e vive, vive anche lui nella speranza che esista un ‘forse’, laggiù, in un futuro, nel sud.

Il mondo è stato spogliato di tutto e così anche le persone. Non hanno nome i protagonisti, in un mondo ormai caotico dove l’ordine è ridotto all’essenziale (buoni/cattivi – vivere/morire) anche le persone sono ridotte all’essenziale: e fisicamente e psichicamente.

Se ti sparo non sentirai il rumore… La pallottola viaggia più veloce della luce e ti entrerebbe dal lobo frontale dove distrugge tutte le strutture necessarie a sentire’, disse l’uomo. ‘Lei è un medico?‘ rispose l’altro (McCarthy, 2006, p.50) . Ma l’uomo non disse né di sì né di no… Ormai non contava più… Solo per necessità di scrittura si potevano distinguere l’uomo dal bambino… Ma erano distinzioni ormai inutili: la vita ridotta all’essenziale non necessita di nulla di ciò con cui la società (come noi la conosciamo) si è venuta a costruire. Non la professione, nemmeno il nome proprio. Tutto è stato spogliato di tutto. Il mondo è vuoto, cenere… Gli uomini sono nudi e messi a nudo assieme alla loro capacità distruttiva… Alla loro perfidia che non può essere biasimata: si deve vivere o morire.

Ma mentre si procede nella lettura, si rischia di perdersi in questo mondo ben costruito, che ti assorbe e per poco non credi che i personaggi siano qualcuno, salvo accorgersi che non hanno nulla, nemmeno un nome e, dunque, nemmeno una storia. E, infatti, non si sa chi siamo, come siano arrivati lì, non esiste senso… D’altronde il senso è possibile solo nella relazione. Il nome proprio raccoglie la nostra storia, storia fatta di relazioni con gli altri, in primis con chi quel nome ce lo ha attribuito con una particolare valenza, che solo egli sa e persa ormai nella notte dei tempi. Nessuna storia, nessun nome, nessuna relazione possibile.

In un mondo estremizzato, come quello apocalittico, come quello del libro, se si riesce a conservare un minimo di distacco con il quale osservare le scene che si affacciano alla finestra, emerge la possibilità di vedere il mondo nella sua essenza. Spogliato di tutto si vede il suo nucleo, il magma che accende la vita e che, nel libro, è forse stata spenta per sempre, da cosa non è dato saperlo e forse non è nemmeno importante.

Come si evince dal libro ‘Anatomy of minimum’ (Pawson, 2019) occorre ridurre le cose all’essenziale, spogliarle per vedere davvero. Come nella scultura occorre levare per vedere qualcosa apparire. Togliere per vedere, provare per far nascere. È la vita, la vita fatta di antinomie, di contrari che a fatica si equilibrano e il gioco della vita è questo: sostare su una fune, in bilico assaporando il gusto del brivido.

Così l’autrice spogliando il mondo e anche i suoi personaggi di tutto, della vita, del nome, della storia, della cultura, della società e conservando solo le forme primitive del vivere, fa emergere la struttura latente della vita, troppo spesso mascherata, troppo spesso data per scontata. E quella struttura latente è tutta contenuta nel ‘forse’ che all’uomo e al bambino fa percorrere la strada verso sud. ‘Tu sei coraggioso, papà?’ ‘Il coraggio è ciò che mi ha fatto alzare stamattina’ (McCarthy, 2006, p. 207).

Ma cosa nasconde questo ‘forse’ che fornisce coraggio? Una speranza, nasconde la fede. Una necessità: senza fede non si vive. Una fede che alle volte, nel libro, intercetta Dio ma che più in profondità nasconde la speranza, la fede, di trovare i buoni. Di trovare altri, altre persone… Forse solo allora si potrà, ancora, dire il proprio nome. In fondo, questo ha senso solo in relazione ad altri… Senza altri il nome non serve a nulla se non, non è scontato ma non basta, dare a sé stessi un senso. Ma per vivere al mondo occorre ci sia un altro, un qualsiasi altro da sé: che sia cibo per nutrirsi nel fisico o relazioni per nutrire la mente.

La speranza nel mondo, la fede nel mondo, è la possibilità che esistano i ‘buoni’: altre persone con cui intessere delle relazioni. Relazioni attraverso le quali dare un nome alle persone, alle cose, dare maggiore ordine al mondo oltre alla vita/morte. Far nascere maggiore complessità e, dunque, una cultura, una società. Questo è ciò che angoscia di più il lettore: se non trovassero nulla? Se non ci fossero altre persone, altri con cui intessere relazioni, di cui aver fede allora il mondo non avrebbe senso. La condanna dell’uomo e di poter dare senso, per sua mancanza, solo attraverso la figura dell’altro. Ma se questo manca? Rimane il reale di un mondo a pezzi, una vita destinata solo alla morte… La fatica di vivere giorno per giorno per poi morire. E seppure la vita vuole la vita, se al fondo di ogni corpo, di ogni organismo, del mondo stesso c’è una volontà di vivere, questa da sola non basta poiché, fortunatamente o sfortunatamente, siamo dotati di una psiche che è relazione. E se il corpo vuole la vita e vuole vivere, la psiche vuole dare senso e ordine, costruire e nutrirsi. Ma se il corpo si nutre di cibo fisico la psiche si nutre dei ‘buoni’, di persone (oggetti) da introdurre in essa che diano speranza, fiducia, gratitudine e, in una parola, amore.

L’unico barlume di speranza è un bambino, il bambino protagonista del libro, che non si lascia bruciare da una vita ingiusta. Rimane empatico davanti agli altri e, forse nella sua innocenza, forse per il suo proprio temperamento, ancora sente e vive dentro di lui la paura… Non la nega né la evita, la avverte in sé e, di conseguenza, anche negli altri. E forse è la paura della morte ciò che muove il mondo, la paura di morire nell’assenza, nella solitudine, senza aver dato senso alla propria vita, al mondo che fa nascere relazioni e da queste cultura e socialità. E il bisogno dell’uomo di mantenersi in vita, e fisicamente e psichicamente e di prendersi cura di sé e dell’altro e del mondo. La natura non genera mai a caso. Se è vero che la mente impara dal corpo, possiamo, allargando lo sguardo, affermare che siamo come piccoli centri concentrici: dunque la mente è specchio del corpo, la famiglia della società e così via. Dunque la coscienza, nell’uomo può essere solo un meccanismo che la natura ha trovato per salvaguardare sé stessa e la vita in sé. E noi da questo, inconsciamente, abbiamo imparato… Così come la mente impara dal corpo anche noi abbiamo imparato dalla natura. Così il corpo è diventato mente, la natura Dio e l’organizzazione della bio-diversità società. Abbiamo astratto dal fisico allo psichico. Imparando gli uni dagli altri e modificandoci a vicenda. Ma il tutto è Uno. Se guardiamo la società abbiamo creato organi che controllino altri organi e così via… Abbiamo creato internet, un network, cose che in natura, tra le piante per esempio, esistevano già. Le abbiamo copiate, o replicate, in mondo inconsapevole. Sono gli archetipi: esiste una certa ridondanza… Forse il detto ‘la mela non cade distante dall’albero’ può far capire meglio il concetto.

La vita si organizza attorno a delle strutture che si ripetono, a ridondanza… Nulla cade distante dal centro originario che è Uno, l’Uno da cui tutto origina.

La coscienza allora può essere capita solo allargando lo sguardo dall’uomo al mondo e alla natura. La coscienza, che dota l’uomo di libero arbitrio, permette alla natura di avere qualcosa (come gli organi di sorveglianza nella nostra società) che ne presieda il regolare funzionamento. Che si occupi di mantenerne l’equilibrio e, per farlo, era necessario che a differenza degli animali questo qualcosa fosse dotato di libero arbitrio, fosse cioè separato da essa. La natura ha trovato così il suo equilibrio, lo stesso equilibrio che poi l’uomo ha ricopiato (o ricalcato) per creare e strutturare la società. Allora occorre ritornare al reale, alla natura per comprendere alcune strutture e questo, chiaramente, impone di uscire dallo schema antropocentrico. Allora la coscienza è dell’uomo perché questo gli consente di sopravvivere e realizzare sé stesso (si vedano le sue funzioni per Bion in Grotstein, 2009) ma permette, sopravvivendo e realizzando sé stesso, di essere vigile nel mantenere un certo equilibrio nella natura. Certo la società consumistica e capitalista questo discorso lo nega e lo vuole negare perché contro le esigenze del capitale. In fondo, ogni sistema, seppur disfunzionale tende a mantenere il suo ordine e ad appiattire tutto ciò che vuole modificarlo, risucchiandolo al suo interno.

Ecco allora che bisogna ridurre la vita al suo essenziale, porsi al di là della finestra ed osservare il mondo come agenti passivi che guardano qualcosa che subiscono e cercando, nell’essenzialità, di vedere il loro ruolo in quel tutto, il loro ruolo… Come un’ape impollina, come esistono gli animali ‘spazzini’, come in un acquario o in una voliera occorre mettere determinati pesci o uccelli e non altri per mantenere l’equilibrio, così l’uomo ha una funzione nell’equilibrio delle cose. Anche l’ape ha una funzione e la sua funzione dipende dalla sua propria struttura che, entrambe, la fanno essere ciò che propriamente è. Così la struttura dell’uomo che lo distingue è la coscienza, la sua possibilità di libero arbitrio e di agire a favore o contro sé stesso. La sua libertà, che ha l’importante funzione di presiedere alla natura. Questo è anche il messaggio che la psiche dell’uomo ha da sempre capito. Se si guarda alla Bibbia, per il pensiero cristiano, all’uomo è stato dato il mondo… L’errore è stato quello successivo di valutare questo in chiave antropocentrica. Se all’uomo è stato dato il mondo è stato dato non in quanto creatura superiore, ma in quanto avente funzione di sorveglianza, che è sì funzione alta perché è dall’alto che è possibile osservare ed intervenire se qualcosa non funziona. Ecco la funzione di Dio come limite ultimo: attento! Uomo… Che anche se puoi agire contro natura e contro la natura non lo devi fare, era necessario che tu possedessi la libertà di scegliere per poter essere distaccato dalla natura e quindi tutelarla, e questo ha implicato che tu potessi agire anche contro di essa ma attento! Non lo devi fare.

Forse questo è il senso dell’esistenza della coscienza e di Dio. Tutto è uno ed è più reale di quanto si creda.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Grotstein, J. S. (2009), Un raggio di intensa oscurità. L’eredità di Wilfred Bion, Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • McCarthy, C. (2006), La strada, Torino: Einaudi.
  • Pawson, J., (2019), Anatomy of minimum, USA: Alison Morris.
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