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Lavoro con le (p)arti – Report dal laboratorio su trauma e dissociazione nell’infanzia e nell’adolescenza tenuto dalla Dott.ssa Annalisa Di Luca

Il lavoro col trauma e la dissociazione nell’età evolutiva. Il disegno e la matrioska per integrare le parti - Report dal laboratorio della Dott.ssa Di Luca

Di Giada Alberti

Pubblicato il 28 Ott. 2020

Aggiornato il 03 Nov. 2020 14:15

Alla base dei sintomi dissociativi vi è un evento traumatico o un ricordo traumatico che provoca un dolore tale da generare una risposta di evitamento, sia dei ricordi che degli stimoli.

 

Il laboratorio dal titolo “‘Strumenti clinici per il lavoro con il trauma e nella dissociazione nell’infanzia e nell’adolescenza. L’uso del disegno e della matrioska per favorire l’integrazione delle parti”, svolto dalla dottoressa Di Luca, psicoterapeuta, psicotraumatologa e formatrice, il 12 Settembre ha aiutato ad ampliare lo sguardo sul concetto di dissociazione nella pratica clinica con bambini ed adolescenti utilizzando una prospettiva e uno sguardo sistemico.

La cosa che più colpisce è come vengano affrontati nel corso del laboratorio i casi clinici e le tematiche inerenti al trauma e alla dissociazione: la creatività, la fiducia nella cura e i piccoli pazienti sono gli assoluti protagonisti e tutti questi elementi contribuiscono a rendere argomenti ad alto impatto meno grigi e spaventosi. Il laboratorio inizia con un brano del film Storie pazzesche di Almodóvar che mette in luce quanto ciò che ogni giorno facciamo abbia una ricaduta in termini relazionali su tutti i sistemi, siano essi interni o esterni. Da subito è stato chiarito che nel corso del laboratorio la teoria sul disturbo post traumatico, la teoria sulla trasmissione trigenerazionale (che mette in luce l’aspetto relazionale) e la teoria dell’attaccamento si sarebbero intrecciate e ci avrebbero offerto una cornice teorica per pensare e progettare un possibile intervento. La dottoressa si è dedicata nella prima parte alla teoria sul trauma e sulla dissociazione nell’infanzia e nell’adolescenza. Abbiamo visto come il trauma generi una disgregazione e come l’obiettivo del trattamento diventi l’associazione per fare in modo che la persona integri gli elementi dissociati per riconoscere e distinguere gli eventi del presente e quelli del passato. Il criterio A del DSM-5 (APA, 2014) utilizzato per la valutazione del Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) orienta il clinico stabilendo che per la diagnosi debba esserci stata l’esposizione a un evento traumatico come morte o minaccia di morte, grave lesione oppure violenza sessuale.

L’esposizione può avvenire in diversi modi:

  • Fare esperienza diretta, cioè la vittima vive il trauma in prima persona;
  • Assistere a un evento traumatico accaduto ad altri;
  • Venire a conoscenza di un evento traumatico accaduto a una persona con cui si ha una relazione intima, ad esempio un componente della propria famiglia o un amico stretto, e in particolare ai caregiver primari nel caso dei bambini. La morte o la minaccia di morte deve essere stata violenta o accidentale;
  • Estrema e ripetuta esposizione a dettagli crudi dell’evento (ad esempio, nel caso dei primi soccorritori in seguito all’evento o di agenti di polizia durante le indagini), ma non tramite i media, ad eccezione dei casi in cui anche ciò sia legato alla professione svolta.

I sintomi dissociativi sono sintomi che in questo caso sorgono in risposta al PTSD:

  • Sintomi intrusivi: ricordi intrusivi, sogni spiacevoli, reazioni dissociative o flashback, disagio emotivo e risposta fisiologica a fattori scatenanti (interni e/o esterni) che richiamano qualche aspetto dell’evento traumatico;
  • Evitamento: ricordi, pensieri e sentimenti relativi all’evento traumatico o evitamento di fattori esterni (persone, luoghi, conversazioni o situazioni) che suscitano il pensiero o il ricordo dell’evento traumatico;
  • Persistenti modificazioni negative: incapacità di ricordare in modo parziale o totale l’evento traumatico, convinzioni negative su se stessi e su gli altri (per esempio ‘sono cattivo’, ‘non ci si può fidare di nessuno’), tendenza a colpevolizzarsi, persistente stato emotivo negativo (rabbia, paura, colpa, vergogna), sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri, incapacità di provare emozioni positive;
  • Ipervigilanza o aumento dell’arousal: aggressività, scoppi d’ira, alterazioni del sonno, problemi di concentrazione, comportamento spericolato o autodistruttivo.

La dottoressa Di Luca ha introdotto il modello quadridimensionale dei sintomi proposti da Lanius che mostrano le quattro dimensioni (tempo, emozione, pensiero, corpo) della coscienza colpite dal trauma per poi passare alla descrizione del disturbo traumatico dello sviluppo (Developmental trauma disorder) che comprende una costellazione di sintomi clinici manifestati nell’infanzia e nell’adolescenza conseguenti all’esposizione a traumi cumulativi e complessi. In questo caso il minore è stato testimone di molteplici e prolungati (almeno un anno) eventi sfavorevoli con inizio nell’infanzia o prima adolescenza. Abbiamo visto come il trauma dell’età evolutiva nella pratica clinica si riconosca soprattutto negli adulti e quanto siano presenti storie di traumi complessi e ripetuti nell’esperienza degli psicoterapeuti. L’impatto traumatico di un evento dipende da diversi fattori come: la gravità del trauma, la frequenza del trauma, la relazione di intimità con il maltrattante (che non comprende solo la vicinanza ma anche la qualità del legame relazionale) e l’età in cui il trauma è esperito, quindi la precocità d’esposizione. A livello biologico il sistema nervoso autonomo è responsabile del sistema d’emergenza e d’allarme per fare in modo che tutti i sensi dell’individuo siano coinvolti nel cogliere i segnali di pericolo. Il neurofisiologo statunitense Stephen Porges (2014) parla di teoria polivagale centrata sulle risposte neurofisiologiche dinanzi a una minaccia. Gli assunti di base della teoria sono:

  • L’essere umano risponde a uno stimolo attivando una risposta neurofisiologica di diversa intensità che dipende da come si percepisce e valuta lo stimolo stesso, processo che avviene in modo pre-cognitivo e automatico;
  • Il processo di valutazione della pericolosità dello stimolo viene chiamato neurocezione, elaborazione influenzata da fattori soggettivi come la storia personale di attaccamento o fattori temperamentali;
  • La risposta neurofisiologica del corpo è direttamente proporzionale a quanto un certo stimolo ci attiva.

Dopo il processo neurocettivo vengono elaborate delle risposte differenti connesse a diverse vie neuronali che sono: il nervo vago ventrale, il sistema nervoso simpatico, nervo vago dorsale (la più antica).

Individui con uno sviluppo traumatico, poggiandoci anche alla teoria di Porges, sono maggiormente incentrati e focalizzano le loro energie per sopravvivere al trauma piuttosto che impiegarle nei sistemi di regolazione, cognitivi e socio emotivi. Cirillo paragona lo sviluppo traumatico a un rampicante che si sviluppa intorno alla pianta che lo ospita ed è compito del terapeuta riconoscerlo, trovare con il paziente una modalità di convivenza con il trauma e guardare insieme a una possibile crescita post-traumatica. Sono fondamentali ulteriori passi avanti a livello teorico e clinico ma anche, probabilmente soprattutto, una rivoluzione culturale affinché sia sempre più repentino il cogliere i sintomi e altri elementi che manifestano un trauma e i sintomi dissociativi; un’elaborazione precoce favorisce una migliore e meno complessa elaborazione e integrazione dell’informazione.

Individui con un attaccamento traumatico potrebbero avere una rappresentazione interna di sé come costantemente in pericolo in quanto le relazioni con i caregiver sono state caratterizzate dal pericolo e le uniche fonti d’aiuto erano percepite come spaventose e minacciose. Tenendo a mente questo, la relazione terapeutica deve diventare un luogo sicuro che offre controllo e regolazione. La dottoressa Di Luca, per concretizzare e rendere maggiormente chiaro e accessibile il posto sicuro che le vittime di traumi dovrebbero possedere, fisicamente e nella mente, per fronteggiare i ricordi e le emozioni spiacevoli e dolorose chiede: ‘cosa identifichi come luogo sicuro?’ e, lavorando principalmente con bambini ed adolescenti, può anche farlo disegnare. Il luogo sicuro dunque si concretizza in una stanza, in un posto specifico o in alcuni oggetti che facciano sentire il bambino o l’adolescente al sicuro e protetto.

Per quanto riguarda la dissociazione generata dal trauma, essa implica un fallimento dell’integrazione delle informazioni cognitive ed emotive ma allo stesso tempo possiede uno specifico valore adattivo volto alla sopravvivenza. La divisione della personalità si manifesta con dei sintomi dissociativi: negativi – perdite funzionali come amnesie e paralisi, positivi – intrusioni come voci e flashback o psico/somatoformi come voice hearing e tic. Sono tre i livelli della dissociazione strutturale della personalità, dove il primario è connesso con il PTSD semplice e i suoi sintomi, il secondario con il PTSD complesso (Desnos) e il terziario con il Disturbo dissociativo dell’identità (DID). La dissociazione sembra affondare le sue basi eziologiche nel trauma cronico e complesso infantile e nell’attaccamento traumatico. Proprio per questo alla base dei sintomi dissociativi vi è un evento o un ricordo traumatico che provoca un dolore tale da generare una risposta di evitamento, sia dei ricordi che degli stimoli. La dissociazione può avere anche la funzione di mantenere il segreto rispetto a qualcosa di profondamente vergognoso.

La seconda parte del laboratorio si è concentrata sull’espressione del trauma attraverso il disegno e le creazioni espressive e artistiche. La dottoressa ha sottolineato che questi strumenti sono in funzione del paziente in quanto ogni individuo ha bisogno di un intervento su misura poiché ognuno porta nella stanza di terapia un vissuto emotivo ed esperienziale unico e irripetibile. Il terapeuta, soprattutto quando si occupa di bambini, dovrà possedere un’adeguata competenza relazionale, una buona conoscenza degli strumenti, dovrà essere flessibile e creativo e aver acquisito una competenza metodologica. Non bisogna scordare che i bambini hanno una matrice molto creativa e che dunque alcune tecniche espressive artistiche, ma anche corporee, possono essere estremamente utili nell’intervento.

Nel chiedere di disegnare ad un bambino, la dottoressa ci consiglia di osservare con attenzione la qualità del tratto, la densità del segno, l’uso del colore, le forme ricorrenti, le diverse fasi del disegno (chi disegna per primo, chi per secondo, ecc…) e la ripetitività delle forme, quindi le possibili cristallizzazioni. È possibile utilizzare il disegno guidato con compiti ben definiti scelti dal terapeuta o il disegno spontaneo dove è il bambino in totale libertà a esprimersi. Il terapeuta può anche scegliere di utilizzare in una prima fase il disegno libero per poi passare a quello guidato o viceversa; nel passaggio dal disegno spontaneo a quello guidato c’è bisogno che il terapeuta sia maggiormente supportivo. La dottoressa Di Luca fa riferimento al libro di Elbrecht Healing trauma with guided drawing dove vengono descritte 3 fasi che si concentrano sul rinforzo continuo, sul come e sul che cosa. Nella fase del rinforzo e del supporto continuo il terapeuta dovrà sostenere il bambino per esempio producendo suoni supportivi o con frasi del tipo ‘sì, bene, vai avanti’ alle quali corrisponderanno delle specifiche risposte fisiologiche a livello dell’addome e dell’intero corpo nel paziente. Questa fase pone particolare attenzione alle emozioni. La fase del ‘come’ corrisponde alla consapevolezza sensoriale dove il terapeuta chiede: ‘cosa senti? In che parte del corpo lo senti?’ e le risposte fisiologiche annesse solitamente sono a livello dell’addome, della pancia e del cuore. Questa fase lavora principalmente sulle sensazioni corporee. La fase del ‘cosa’ promuove invece l’integrazione cognitiva e le domande da fare sono: ‘cosa stai facendo/disegnando? Hai un’immagine in testa? Cosa rappresenta per te?‘. Questa fase stimola la riflessione e la ricerca di un significato.

È necessario permettere di far parlare le parti durante l’atto di disegnare o successivamente, ma la finalità deve essere sempre l’integrazione e l’unità della persona. Infatti tutte le attività che rappresentano frammentazione e dissociazione possono essere ricondotte ad un’unità integrativa, come ci spiega la dottoressa Di Luca. Lavorando con pazienti che hanno vissuto dei traumi cumulativi la Di Luca ci invita ad osservare con attenzione il possibile ritiro e l’assenza dal campo della consapevolezza nel corso della seduta in quanto potrebbe essere un indice che ci avverte di aver toccato qualcosa di importante e forte a livello emotivo e non solo. Questi comportamenti, pur non avendo un ben definito valore diagnostico, potrebbero attestare una sensibilità all’uso della dissociazione. Bisognerà comprendere il conflitto e aiutare il bambino a fare lo stesso per poi capire come si manifesti; i bambini abusati sentono forte il bisogno di trovare qualcuno con cui poter condividere la singolarità del proprio mondo interno e finalmente trovare un luogo dove essere ascoltati. Nei casi portati dalla dottoressa Di Luca appare chiaro l’utilizzo della dissociazione da parte del bambino in quanto alcuni disegni svolti su uno stesso foglio, utilizzando la parte anteriore e quella posteriore, hanno tematiche, colori, tratto grafico e pressione sul foglio molto differenti. Passiamo da disegni molto colorati ed eseguiti con precisione a disegni che mostrano una regressione, un probabile tornare nel là ed allora, un salto nel vuoto nel vissuto traumatico. La dottoressa a questo punto, per integrare le parti dissociate e restituire al bambino l’idea e la percezione di un’unità integrata, fa disegnare i due disegni su due fogli di carta trasparente e li sovrappone rendendo i due disegni parte di un’unica opera, di un’unica mente e di un unico corpo. L’atteggiamento della dottoressa nel corso del disegno è supportivo ed empatico e non mancano le domande che fanno riferimento agli aspetti emotivi e corporei. Vedere disegni così diversi sovrapporsi rassicura ed emoziona non solo i piccoli pazienti ma anche coloro che si prendono cura di loro siano essi clinici o educatori. Le ipotesi di lavoro che formula la dottoressa Di Luca prima del disegno o dell’uso della matrioska e che precede il suo pensiero e lavoro terapeutico sull’integrazione, è che le parti potrebbero essersi fermate e cristallizzate all’età del trauma. Quindi si lavora sul passato traumatico, sottolineando il bisogno di ogni essere umano di essere amato, e si iniziano a costruire insieme nuove prospettive future attraverso gli aspetti di integrazione. Nel lavoro clinico si possono usare gli strumenti del disegno e della matrioska andando a lavorare anche sulle emozioni e i ricordi ad esse associati; si lavora sulla paura e sulla rabbia, sulla tristezza, sulla sorpresa e sull’attesa, sul disgusto e l’accettazione fino ad arrivare al forte senso di vergogna, emozione secondaria in quando compare con l’autocoscienza (per approfondimenti sulla vergogna connessa al trauma è possibile leggere l’articolo riguardo la vergogna cronica). Per far contattare le emozioni antiche connesse all’evento traumatico la terapeuta parte dal qui ed ora e dall’espressione artistica dei pazienti. Mentre si lavora il terapeuta diventa custode dell’integrazione delle parti anche se il bambino o adolescente può sentirsi ancora frammentato. Così come per il disegno, anche nell’uso della matrioska, il bambino disegna le diverse parti che alla fine però, inserendosi l’una dentro l’altra, diventano un tutt’uno integrato; le matrioske in legno vengono disegnate dai pazienti e così facendo si può lavorare sulla ricostruzione  anche dell’identità corporea. Interessante a questo proposito anche l’utilizzo che la dottoressa Di Luca (2014) fa del My body, il disegno della figura umana a dimensione naturale. Lavorando sulle parti attraverso queste tecniche espressive si favorisce il dialogo e la comprensione delle diverse parti interiorizzate dal paziente come per esempio quella dell’aggressore che coincide con la figura o il contesto abusante. Nell’utilizzo della matrioska la dottoressa parte da quella più piccola a quella più grande e, mentre il bambino le colora e vi disegna sopra, lei chiede per esempio: ‘come si chiama? Quanti anni ha? Come si sente?’. Il bambino o l’adolescente con queste tecniche può sperimentare e ricontattare il trauma ma in sicurezza, come guardare giù in un profondo burrone ma con una salda imbracatura che non gli permette di precipitare, la mano salda del terapeuta, fatta di parole, di silenzi e di sguardi, fa in modo che possa guardare l’abisso spaventoso con fiducia. La dottoressa Di Luca nella sua pratica clinica utilizza anche altri strumenti espressivi che danno nuova forma al dolore come il das e la plastilina e il suo intervento, seppure si occupi di ricostruire dalle macerie e di rimarginare ferite ancora sanguinanti, mantiene la forma di un gioco luminoso e pieno di vita. Per fare solo un esempio, per spiegare gli effetti del trauma sul cervello ai bambini e agli adolescenti ha pensato di utilizzare un modellino di plastica di un cervello molto colorato per restituire al paziente la percezione di normalizzazione di quello che sente e vive, dove i pensieri angoscianti trovano una loro collocazione e dove la spiegazione di ciò che gli è accaduto non è più ‘sono cattivo’ o ‘sono sbagliato’. La dottoressa Di Luca, avendo una formazione e una sensibilità alla prospettiva sistemico relazionale, sposa la logica dell’inclusione dei caregiver anche nella restituzione di quanto fatto con i diversi strumenti e così facendo restituisce al bambino la capacità di raccontarsi. Infatti il trauma frammenta la capacità relazionale dell’intero nucleo familiare traumatizzato e accompagnare anche i caregiver, quando è possibile, risulta essere importante in quanto il trauma del bambino fa risuonare anche il trauma dei genitori.

Per concludere, il laboratorio condotto dalla dottoressa Di Luca è risultato essere molto formativo in quanto ha fornito strumenti validi e creativi che si possono adattare ai bisogni e alla storia di ogni paziente, mettendo al centro il suo soggettivo vissuto emotivo e dandogli insieme una nuova forma, disegnare insieme un nuovo futuro su un grande foglio bianco, questa volta non sgualcito, ma chiamato fiducia.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • American Psychiatric Association (2014). DSM-5: Manuale diagnostico e statistic dei disturbi mentali. Raffaello Cortina: Milano.
  • Di Luca, A. (2014). My Body: il disegno della figura umana a dimensione naturale nel trattamento delle vittime di violenza.Maltrattamento e abuso all'infanzia, 16, 97-106.
  • Elbrecht, C. (2018). Trauma Healing with GuidedDrawing: A Sensorimotor Art TherapyApproach to Bilateral Body Mapping. North Atlantic Books: California.
  • Porges, S.W. (2014). La Teoria Polivagale: fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione. Giovanni Fioriti Editore: Roma.
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