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L’arduo lavoro del cuoco: tra stress e rischi psicologici

Cosa c’è dietro alla preparazione di un piatto? Quale ruolo ha il lavoro di squadra? Quali sono i rischi psicologici legati alla professione dello chef?

Di Antonella Bascià

Pubblicato il 29 Ott. 2020

Il lavoro del cuoco è uno dei lavori più stressanti proprio perché se manca coordinazione e spirito di squadra all’interno di una brigata, il rischio è sì di sbagliare il piatto, ma soprattutto si vive male l’intero ambiente lavorativo. Per un cuoco, ciò è tutto, visto che la maggior parte del loro tempo lo passano in cucina.

 

Mi sono sempre chiesta come facessero cuochi e chef a gestire gli alti livelli di stress. È soprattutto nei fine settimana che il cuoco deve dare il meglio di sé: il numero di comande che aumentano spropositatamente, dare la giusta attenzione ad ogni singolo dettaglio, ma allo stesso tempo essere veloci perché alla gente non piace aspettare quando ha fame. È successo ad ognuno di noi di ritrovarsi in un ristorante e lamentarsi del piatto che fatica ad arrivare, sbuffando e guardandoci attorno con fare accusatorio. Ma cosa c’è dietro alla preparazione di un piatto? Ebbene, ho avuto modo di osservare un po’ di cuochi “all’opera”, guardandoli da “dietro le quinte” e sono rimasta sbalordita dal lavoro di squadra che è presente in ogni “brigata”. È stato Escoffier, cuoco francese di fine 800, a coniare il termine di brigata, ideando una gerarchia piramidale in cui ruoli e mansioni sono ben suddivisi, proprio come una brigata militare (A. Meldolesi, 2019).

Il lavoro del cuoco è uno dei lavori più stressanti proprio perché se manca coordinazione e spirito di squadra all’interno di una brigata, il rischio è sì di sbagliare il piatto, ma soprattutto si vive male l’intero ambiente lavorativo. Per un cuoco, ciò è tutto, visto che la maggior parte del loro tempo lo passano in cucina. Lavorano, infatti, fino a 12/15 ore al giorno, è un lavoro full-time, nel vero senso della parola.

Inoltre, mi sono chiesta come facessero ad accettare tutto ciò anche perché un lavoro che impegna così tanto preclude la possibilità di avere relazioni di qualche genere con l’ambiente esterno. La risposta più comune che mi è stata data, è la passione per la cucina, è questo che spinge i più a intraprendere questo tipo di carriera. Molti di loro, però, non vorrebbero invecchiare in una cucina e si ritrovano tirati da due lembi: da una parte, la passione di creare nuovi piatti in connubio con nuovi gusti, dall’altra la consapevolezza che non si può lavorare per sempre in cucina, rimanendo così intrappolati in questa ambivalenza. Tematica preponderante è il senso di fallimento: molti cuochi non abbandonano il lavoro, anche se usurante, proprio perché associano l’abbandono del mestiere con il fallimento personale. Il fallimento e la crisi vengono definiti come

un pilastro di una certa visione del mondo, una visione che (porta) in sé il senso della morte e della resurrezione. (G.M. Ruggiero, 2016)

Connessa alla tematica del fallimento vi è l’autostima, preferita al concetto di crisi che rigenera, che ormai ci rende incapaci di fallire. Tutti gli studi sull’argomento autostima sottolineano l’intollerabilità dell’idea del fallimento e dunque di un’autostima che spesso ci

rende incapaci di fallire e quindi di morire e ripartire. (Idem)

Queste parole suggeriscono la necessità di un cambiamento della visione del fallimento che può essere interpretato come una ripartenza, un nuovo inizio.

In uno studio condotto su 710 chef italiani, è emerso che il 47% del campione ha un problema di salute moderato-grave. Tra i problemi più comuni vi sono: disturbi gastrointestinali, della pressione sanguigna e muscolo-scheletrici (A. Cerasa, C. Fabbricatore, G. Ferraro et al., 2020). Da tale studio emerge che lo stress accumulato sul lavoro può fungere da “base” per lo sviluppo di disturbi mentali come la depressione. Si evince che la durata del lavoro e della giornata lavorativa possono essere fattori predittivi di stress, che aumentano la probabilità di malattia (Idem).

Dalla mia esperienza diretta con tale categoria lavorativa specifica, ho constato che oltre a disturbi somatici, uno dei rischi maggiori è di ricorrere all’uso di sostanze stimolanti (come, ad esempio, abuso di alcol e droghe). Molti cuochi ricorrono a tali “palliativi” per fronteggiare un ambiente lavorativo che richiede una prestazione elevata costante.

Un ulteriore rischio tra chef famosi e di successo, e non solo, è il suicidio. Tale dato suggerisce che l’associazione tra successo personale e benessere, in questo specifico ambito non coincide, in quanto avanzando di grado, aumentano le responsabilità, le ore di lavoro e lo stress.

È opportuno, dunque, attuare un piano nazionale di supporto psicologico rivolto a tale categoria di lavoratori. Ad oggi, l’Ordine Psicologi del Lazio, ha attivato il progetto La psicologia al servizio della ristorazione per consentire strumenti alternativi nella gestione dello stress. Un grande traguardo per tutto il settore e la speranza è che ciò si propaghi in tutti gli Ordini regionali degli psicologi.

 

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