Grazie ai suoi studi, Mancuso ci svela aspetti non proprio evidenti in prima battuta sul comportamento delle piante.
Ho sempre pensato che ‘Homo sapiens’ fosse un termine descrittivo che mal si adatta all’attuale condizione dell’uomo sulla terra ovvero che fosse una visione decisamente antropocentrica e tendenzialmente presuntuosa: saremmo ‘sapienti’ sì ma rispetto a chi o a che cosa?
A dire il vero, un facile termine di paragone potrebbe essere quello con il regno a noi vicino, quello delle piante, anche se qualcosa in realtà crea dissonanza perché, a seconda della prospettiva, di sapiente avremmo ben poco. Le piante rappresentano circa l’85% di tutto ciò che vive sul nostro pianeta, contro lo 0.03% del regno animale in cui noi siamo compresi, infatti senza di loro, probabilmente, la vita stessa non sarebbe possibile in quanto rappresentano la base della nostra catena alimentare e della produzione di ossigeno, molecola per noi di vitale importanza. A condividere queste mie riflessioni tanti pensatori del passato, non ultimi Charles Darwin e Rudolf Steiner (Darwin, 1898; Steiner, 1910) che, anche se in epoche diverse, son arrivati a conclusioni simili circa il ruolo di primaria importanza delle piante per noi e più in generale per la vita stessa sulla terra.
Su questa scia di pensiero nel 2005 nasce presso l’Università di Firenze un ‘nuovo’ ramo della scienza ovvero la ‘neurobiologia vegetale’ ad opera del professor Stefano Mancuso, ordinario di arbicoltura generale e fondatore del LIB ‘Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale’, dove porta avanti i suoi studi focalizzando l’attenzione sul comportamento delle piante ed, in particolare, sul sistema radicolare, una particolare struttura che coinvolge l’apice delle loro radici, zona trigger per l’inizio di tanti processi utili alla loro sopravvivenza.
Grazie ai suoi studi, Mancuso ci svela aspetti non proprio evidenti in prima battuta sul loro comportamento: la sensibilità sarebbe resa possibile grazie a recettori sparsi su tutto l’organismo, la memoria sarebbe ben più ‘a lungo termine’ della nostra, la loro percezione del tempo sarebbe molto più dilatata della nostra ed inoltre avrebbero la capacità di sottrarsi a stimoli dolorosi retraendosi e/o creando vere e proprie strategie difensive, se non addirittura offensive tramite la liberazione di sostanze. La presenza di tutti questi aspetti cognitivi porterebbe a presupporre dunque l’esistenza di un certo grado di coscienza ed anche di intelligenza, rifacendosi alla sua definizione come ‘capacità di risolvere i problemi’ e confermata dall’indiscusso successo evolutivo del regno vegetale (Mancuso & Viola, 2015).
Tra le tante ricerche Mancuso pone l’attenzione su numerosi neurotrasmettitori che sono presenti in maniera similare anche negli animali e sulla presenza di zone simili per struttura alle nostre sinapsi, in cui nel regno vegetale fa da protagonista un particolare neurotrasmettitore, l’auxina. In una prospettiva molto ampia tutto questo ci porta ad ipotizzare una qualche provenienza filogenetica comune tra il sistema neurologico animale e quello vegetale, una sorta di trait d’union.
D’altro canto i suoi studi portano alla luce anche le differenze presenti tra piante ed animali, come ad esempio l’assenza nelle piante di una struttura centrale per l’elaborazione delle informazioni (corrispondente al nostro cervello) oppure la maggior diffusione su tutto il corpo di recettori dediti alla cattura di informazioni provenienti dall’esterno e alla loro elaborazione, quindi della loro sensibilità (viceversa negli animali questi recettori son più localizzati e rappresentati principalmente dagli organi di senso).
In Plant revolution Mancuso ribalta la visione delle piante, da sempre viste come immobili e in balia del comportamento animale. Qui diventano esseri attivi, capaci di ammaliare e manipolare gli animali stessi attraverso sostanze che liberano, se non di creare vere e proprie dipendenze utili a modificare il comportamento degli stessi animali (Mancuso, 2017).
Aspetto di non poca rilevanza assume la loro struttura sociale decisamente distribuita ed in cui l’immobilità crea un profondo senso di rispetto senza per questo cedere alla passività in quanto le piante risultano essere organismi anche decisamente aggressivi e territoriali a seconda della necessità.
Dalla struttura sociale a quella politica il passo è breve, qui l’aspetto comunitario è predominante e la scelta è quella di non prediligere un’organizzazione fortemente gerarchica a favore della cooperazione verso quella che potremmo definire una democrazia verde: modello teorico da imitare per le future strutture sociali? (Mancuso, 2019).
Ma non tutto è roseo, la neurobiologia vegetale infatti non è stata esente da critiche da parte di botanici, scienziati e colleghi di vario grado, i più non concordi sul fatto che la definizione stessa di intelligenza potesse esser applicabile al mondo vegetale. Nonostante ciò, qualcosa di innovativo questa nuova branca del sapere ha portato: numerose sono state infatti le applicazioni pensate a partire dallo studio della loro mente, tra queste i plantoidi, robot progettati per crescere come vere e proprie piante e progettati per la conquista di spazi a noi ostili es. colonizzazione di pianeti lontani dalla Terra come Marte, oppure la ‘Jellyfish barge’ una serra agricola galleggiante dedita alla produzione di cibo senza il consumo di suolo, acqua dolce ed energia, progettata e realizzata presso Navicelli, in collaborazione con l’Università di Pisa. (Expo, 2015; Istituto Italiano di Tecnologia, 2012).
In conclusione un mondo, quello della neurobiologia vegetale, sicuramente molto affascinante e tutto da scoprire che potrebbe nel futuro aprirci prospettive completamente nuove non solo nel campo delle neuroscienze (ad esempio: lo sapevate che le piante si addormentano con i comuni farmaci anestetici usati nelle nostre sale operatorie?) ma anche in quello delle scienze della vita stessa.