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Eroi dietro le mascherine: i medici volontari nei reparti Covid, tra paure e coraggio – Intervista al Dott. Enrico Russolillo

Intervista al Dottor Enrico Russolillo, cardiologo di Napoli, volontario al reparto di Medicina Covid dell’Ospedale di Rivoli, in Piemonte..

Di Simona Specchio

Pubblicato il 24 Lug. 2020

Spesso sono stati descritti come eroi, semi-dei la cui forza e il cui coraggio salvano uomini, personaggi centrali di una storia che diventa memoria collettiva di un popolo. Non stiamo parlando di Eracle o Enea, e neanche di Spiderman, stiamo parlando dei medici volontari che hanno scelto di aiutare il sistema sanitario al limite del collasso durante il periodo più critico dell’emergenza Covid-19.

 

Descritti spesso in questi termini, si è rischiato di mettere in ombra quel lato squisitamente umano che accompagna una scelta così importante, come quella di salvare vite. Quel lato umano fatto di sofferenza, rinunce e dubbi, ma che allo stesso tempo è la forza propulsiva dell’aiuto dato ai pazienti affetti da coronavirus. La filosofia greca ci aiuta a capire. Platone scriveva: “Non esiste uomo tanto codardo che l’amore non renda coraggioso e trasformi in un eroe.”

E a capire può aiutarci anche l’intervista al Dottor Enrico Russolillo, medico cardiologo dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli, partito come volontario per la Protezione Civile per dare il suo supporto al reparto di Medicina Covid dell’Ospedale di Rivoli, in Piemonte.

Intervistatrice (I): Dottor Russolillo, cosa l’ha spinto a proporsi come medico volontario per tre settimane durante l’emergenza Covid?

Dottor Enrico Russolillo (ER): L’idea, ribadita dal bando, di essere utile in un momento difficile, e la voglia di essere “dove le cose accadono veramente”.

I: Molte persone considerano voi medici alle prese con questa emergenza come degli eroi. Lei si rappresenta in questo modo, in termini di coraggio e forza?

ER: Non esagererei, non parlerei di “eroe”, posso però dire che essere considerato una sicurezza per gli altri, una persona su cui si può fare affidamento, mi inorgoglisce molto.

I: Una volta iniziato il suo operato di medico nell’Ospedale di Rivoli, ha riscontrato delle differenze tra le sue aspettative e la realtà che si è trovato ad affrontare?

ER: Giunto a Rivoli, pensavo di essere assegnato al Pronto Soccorso, invece mi hanno affidato una Medicina Covid. Mi aspettavo quindi di fare diagnosi ma mi sono ritrovato a dover gestire (curare è una parola grossa) i pazienti ricoverati, con diagnosi già fatta. Credevo anche di trovare molto meno personale medico, e in un primo momento ero stupito che avessero chiesto rinforzi: poi ho visto che molti colleghi non riposavano da quasi un mese, e che hanno iniziato a farlo dopo il nostro arrivo. Mi è dunque stato molto chiaro quanto ci fosse bisogno della nostra presenza. Inoltre stiamo parlando di un reparto messo su ad hoc per questa emergenza, quindi molti colleghi erano specializzati in settori diversi e si davano il cambio a rotazione.

I: Ci sono stati aspetti organizzativi del vostro team che hanno reso più difficile il lavoro?

ER: Come dicevo, il fatto che il team fosse raccogliticcio e incostante è stato un problema per i primi giorni. Una volta però imparate le procedure dell’ospedale, noi volontari siamo stati fondamentali per la gestione del reparto. Questo ovviamente ha creato anche qualche difficoltà con alcuni colleghi del posto, con i quali è stato meno facile la collaborazione.

I: Come è stato lavorare con colleghi con cui non aveva mai collaborato prima?

ER: Non particolarmente difficile. Avevamo tutti lo stesso scopo, e parlavamo una lingua comune; è anche vero che, come dicevo sopra, alcuni colleghi (per fortuna molto pochi), non li ho trovati molto cooperativi. Nonostante questi aspetti di gruppo siamo riusciti nella gestione ottimale del reparto.

I: Quali sono state le rinunce più pesanti che ha dovuto fare in questo periodo di volontariato?

ER: Io vivo solo con i miei gatti, non lasciavo la famiglia né rischiavo di infettarla, quindi non è stato terribile. Mi è sicuramente pesato lasciare il reparto dove lavoro a Napoli, che però non era coinvolto in un lavoro di emergenza Covid. Sapevo che sarei stato più utile per le strutture sanitarie più colpite (e mi è stato anche fatto un po’ pesare da parte di alcuni colleghi).

I: Come descriverebbe il rapporto con i pazienti che ha assistito?

ER: Come sempre, se si vuole si riesce a trasmettere fiducia e calore ai pazienti ricoverati. Con maschere, tute ed occhialoni bisogna volerlo tanto, perché è una condizione di lavoro che rischia di aumentare le distanze tra medico e paziente. Nonostante la maggiore formalità nei rapporti che ho percepito con le persone che vivono al nord, lo sforzo comunicativo mio e dei miei colleghi è stato utile in questa situazione, soprattutto se si pensa al fatto che sono pazienti soli e che non possono ricevere visite dai familiari: alcuni pazienti si sono decisamente affezionati.

I: Ci sono stati momenti in cui ha dubitato di quello che stava facendo?

ER: Ancora dubito delle terapie che abbiamo utilizzato, che mi sono apparse inadeguate sul momento dato il numero elevato di morti, e che per la maggior parte si sono dimostrate inefficaci dopo studi rigorosi. Dopo qualche giorno di permanenza, con tanti pazienti che perdevamo nonostante i nostri sforzi, ho vissuto momenti di profonda impotenza e di sconforto, questo credo sia valso anche per i miei colleghi.

I: Ha avuto paura?

ER: Ho avuto momenti in cui sono stato preso dalla paura di infettarmi, sensazione aggravata dal pensiero che “me l’ero andata a cercare”.

I: Che impatto hanno avuto le morti a cui ha dovuto assistere, e a quali risorse ha dovuto attingere per gestire il carico emotivo che ne è derivato?

ER:  Mi sentivo un monatto, non un medico, è stato terribile, le terapie funzionavano nella metà dei casi (o i pazienti guarivano da soli, più probabilmente). Il fatto di dividere l’alloggio con uno dei colleghi volontari mi ha permesso di parlarne insieme, e di farci forza a vicenda, anche nella rassegnazione derivante dalla percezione dei nostri limiti. Inoltre, le telefonate serali con mio figlio hanno contribuito molto al mio equilibrio…non a caso è uno psicologo

I: Ci sono stati dei ricordi del suo passato, professionale e non, che le sono stati di aiuto nel suo lavoro?

ER: Sì, quando per la prima volta dovetti rianimare un paziente che stava morendo, e invece di scoppiare in lacrime ed abbandonarmi mi feci forza e divenni oggettivo, razionale, ed efficace. Da allora (avevo 22 anni appena) questo meccanismo scatta sempre nelle situazioni difficili.

I: In queste settimane ha mai sentito il bisogno di essere lei stesso aiutato?

ER: Sì, più di una volta. Come dicevo c’era mio figlio Luigi Alessandro ad aiutarmi. Non sono abituato a chiedere aiuto, e in quei giorni mi facevo forza da solo, poi Luigi Alessandro ha capito che ero in difficoltà ed è stato più presente. Mi ha fatto molto bene parlare con lui.

I: Che importanza ha ricoperto il supporto sociale, come ad esempio quello di amici e parenti, nei momenti di difficoltà?

ER: E’ importante, molto, sentire esplicitamente che chi ami, o chi condivide le tue stesse competenze, ti è vicino. Purtroppo alcuni colleghi li ho sentiti emotivamente distanti, e questo mi ha ferito molto, ma la famiglia, molti pazienti, e il personale non medico dell’ospedale mi sono stati molto vicini, ho ricevuto manifestazioni di stima ed apprezzamento anche da persone sconosciute. Molte pazienti anziane si preoccupavano della mia incolumità: credo di essere stato incluso in rosari, preghiere e novene!

I: È da poco terminato il suo mandato e ha fatto ritorno a casa, che emozioni ha provato e quali pensieri ha fatto al suo rientro?

ER: È stato molto strano, la città era vuota ma io mi sentivo ancora in guerra, soprattutto i primi giorni dal mio rientro. Volevo tornare a lavorare nel mio ospedale, spinto soprattutto dal desiderio di continuare a dare il mio contributo e dal pensiero di aver lasciato soli i miei colleghi. Purtroppo mi sono stati imposti 14 giorni di quarantena e sono stato costretto a rientrare in ospedale solo successivamente. Questa pausa “imposta”, però, mi ha fatto bene in realtà: ho avuto modo di ripensare con calma a questa esperienza ed ho smesso, piano piano, di pensare alle persone morte come una ferita personale.

I: Un episodio per lei molto positivo di queste tre settimane trascorse in ospedale?

ER: Quando le pazienti A. e D., vedendomi, mostravano molta contentezza. Quando sono risultate guarite ci siamo fatti svariati selfie.

I: Qual è la cosa che le ha dato più soddisfazione?

ER: In Covid c’è poca soddisfazione medica, ma dimettere il piccolo C. (83 anni per 1,55 m di altezza), sulla cui guarigione non avrei scommesso un euro, è stata una gioia, ma non mi sono sentito artefice della sua ripresa. Ho però imparato tecniche e terapie nuove, e sono riuscito ad intrecciare nuovi rapporti con colleghi sconosciuti in un ambiente nuovo.

I: Cosa vorrebbe consigliare ad un medico o ad un infermiere che sta per entrare in un reparto d’urgenza?

ER: In un reparto di malattie infettive, a non sentirsi mai abbastanza protetto, ed essere maniacale nell’indossare le protezioni e nel rispettare le regole di sicurezza. Fatto ciò, bisogna smettere di aver timore e cercare di pensare positivamente, cioè credere che il proprio intervento sia utile: l’ho spesso ripetuto anche a me stesso.

I: C’è qualcosa che sente che questa esperienza le ha insegnato?

ER: Per prima cosa, non pensare che tutti i sentimenti patriottici, così come quelli ippocratici, siano automaticamente condivisi. Ho poi avuto modo di toccare con mano quanto sia fondamentale difendere e aiutare la sanità pubblica e, infine, ho capito che è necessario per noi operatori sanitari restare aperti emotivamente: durante questa mia esperienza nel reparto Covid ho offerto ancor prima che la medicina, moltissima empatia.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • PLATONE. Il simposio (Ed. 1979); Adelphi.
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