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Disturbo d’Ansia Sociale: un caso clinico concettualizzato secondo il modello LIBET

Viene presentato un caso di disturbo di ansia sociale ragionando poi in termini di temi dolorosi e piani semi-adattivi seguendo il modello LIBET

Di Giulia Anna Aldi

Pubblicato il 23 Lug. 2020

Da un punto di vista nosografico Andrea soffre di Ansia Sociale; adesso che si trova da solo in una città nuova questa ‘eccessiva timidezza’, come lui stesso la descrive, sta diventando un problema per lui e ha deciso di intraprendere un percorso di terapia.

 

Andrea (nome di fantasia) ha 20 anni, ha sempre vissuto in campagna, ma si è appena trasferito in città per iscriversi all’università. Contrariamente alle aspettative, la sua classe è composta ‘solo’ da una ventina di studenti. ‘Ed è quello il problema!‘ Sospira. ‘Io mi immaginavo che all’università saremmo stati in tanti, in tantissimi, e che avrei potuto studiare tranquillamente per conto mio, senza tanti problemi. Invece è tutto diverso! Siamo pochi, tutti parlano tra loro…Ci sono continuamente quei lavori di gruppo in cui bisogna per forza parlare, chiedere, dire la propria opinione…e io non so che dire, sto zitto, oppure balbetto…! E’ un incubo, ho ansia continuamente!’

Andrea si descrive come un ragazzo molto timido. Non è preoccupato per la sua preparazione, è un ragazzo studioso, vuole fare bene e se si impegna di solito riesce ad ottenere degli ottimi risultati. Il dramma arriva quando è costretto a prendere la parola di fronte agli altri. In quei momenti Andrea si sente malissimo: arrossisce, suda, le sue mani tremano e sente la bocca secca. Tempo fa è toccato a lui fare una presentazione davanti a tutti ed è stato terribile. Aveva studiato tantissimo ed era molto preparato, ma quando si è alzato in piedi per parlare …’Avevo la testa vuota, non capivo nulla. Ho letto gli appunti, per fortuna, ma parlavo a bassa voce e qualcuno mi ha detto di alzare il tono…che vergogna! Mi tremava la voce e mi sono impappinato…Ho fatto la figura dell’idiota totale, quando sono tornato a casa ero veramente triste, schifato da me stesso, sono stato triste per una settimana‘.

Andrea è in ansia anche nei momenti informali, quando le persone chiacchierano tra di loro. ‘Vorrei fare amicizia, ma sono troppo in ansia, loro si conoscono già tutti e io ho paura di sembrare stupido e imbranato‘. Quando è costretto a interagire con qualche compagno, per evitare di impappinarsi spesso cerca di decidere prima che cosa dire e se lo ripete nella mente ‘per essere preparato‘, ma finisce che perde tantissimo tempo a pensare cosa dire, rischia di distrarsi e non riesce mai a sentirsi tranquillo. Quando qualcuno a lezione gli rivolge la parola, si sente molto a disagio, perché non sa che dire e teme ‘di dire stupidaggini‘. Per evitare che accada, cerca di non incrociare lo sguardo con nessuno e rimane sempre in disparte. Il problema è che poi si sente molto solo. In città non ha amici. ‘Non parlo mai con nessuno durante la settimana…è dura‘. Mentre ne parla, sembra molto triste.

Anche da bambino si è sempre sentito impacciato e nervoso nelle situazioni di gruppo, quando c’erano persone che non conosceva bene. Aveva avuto qualche problema di inserimento scolastico alle elementari, ma grazie ad una maestra molto dolce era riuscito ad ambientarsi nella classe, in cui comunque c’era anche suo cugino, con cui era cresciuto insieme. Non ha molti amici al suo paese, ma quei pochi con cui ha stretto un legame sono davvero buoni amici e con loro Andrea riesce ad essere se stesso. Inoltre è molto legato ai suoi cugini e a suo fratello minore, e ‘prima questo bastava! Non mi interessava giocare con gli altri, avevo sempre loro a disposizione!‘.

Adesso che si trova da solo in una città nuova, però, questa ‘eccessiva timidezza’, come lui stesso la descrive, sta davvero diventando un problema. Quando sa di avere una presentazione o un lavoro di gruppo, Andrea inizia a stare male una settimana prima. Non riesce a fare a meno di pensare che farà una figuraccia terribile come l’ultima volta; sente lo stomaco chiuso e la sera non riesce ad addormentarsi. E se il professore gli facesse qualche domanda davanti a tutti e lui non sapesse cosa rispondere? Andrea cerca di essere sempre perfettamente preparato, studiando fino a tardi e prendendo pagine di appunti. Il problema è che a volte non riesce a concentrarsi con tutti questi pensieri…anzi, ultimamente fa molta fatica a studiare, solo guardare i libri gli mette ansia. E se non riesce a studiare bene il pomeriggio, come può andare a lezione rischiando di essere interrogato? Gli altri sembrano sempre così preparati e sicuri di sé… L’ultima volta non ce l’ha fatta, non si è presentato il giorno del laboratorio di gruppo, fingendo di essere malato..

Da quel momento è andata sempre peggio. Ha cominciato ad evitare tutti i luoghi dove potrebbe incontrare i compagni dell’università o i professori. Andare a mensa, ad esempio, è molto difficile, soprattutto perché bisogna passare davanti ad un sacco di persone per andare a sedersi. Finisce per stare tutto il tempo chiuso in camera a studiare, ma si sente molto solo e triste, teme di non riuscire a finire l’università, di dover tornare in campagna con questo fallimento marchiato a fuoco sulla fronte.

Da un punto di vista nosogafico, Andrea soffre di Disturbo d’Ansia Sociale, conosciuto anche come Fobia Sociale, riportato nel DSM 5 (APA, 2013) nel capitolo dei Disturbi d’Ansia. I sintomi chiave per cui è possibile fare diagnosi sono i seguenti:

  • A. Paura o ansia marcata nei confronti di una o più situazioni sociali, in cui la persona è esposta al possibile giudizio degli altri. L’individuo teme che agirà in un modo imbarazzante e umiliante o che i suoi sintomi d’ansia verranno giudicati negativamente
  • B. L’esposizione alla situazione temuta provoca quasi sempre ansia o paura
  • C. La paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto alla minaccia reale data dalla situazione sociale e relativamente al contesto socio-culturale
  • D. Le situazioni temute vengono evitate oppure vengono sopportate con intensa ansia e paura
  • E. La paura, l’ansia o l’evitamento causano un distress clinicamente significativo o una riduzione del funzionamento nell’area sociale, occupazionale o in altre aree importanti di funzionamento
  • F. La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti e in genere durano 6 o più mesi.
  • G. La paura, l’ansia o l’evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (ad es. droghe, farmaci) o a una condizione medica generale o ad un altro disturbo mentale.

Alla SCID II (First, Williams, Karg, & Spitzer, 2017) l’intervista sui disturbi di personalità secondo il DSM 5, Andrea sembra avere dei tratti evitanti, ma non un vero e proprio disturbo. Infatti tende a sentirsi inadeguato e a temere il rifiuto da parte degli altri, però è stato in grado, nel corso della vita, di stringere legami profondi in cui non si sente escluso, ma appartenente.

Seguendo il modello LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment), sviluppato dal gruppo di ricerca di Studi Cognitivi (Sassaroli, Caselli, Ruggero, 2016), è possibile ragionare sul caso clinico in termini di temi dolorosi e piani semi-adattivi.

Il tema doloroso rappresenta la vulnerabilità emotiva di ciascun individuo, formatasi nel corso della vita e data dalla focalizzazione attentiva su alcuni stati mentali negativi associati a esperienze evolutive percepite come dolorose e intollerabili. Più lo stato mentale associato al tema doloroso viene considerato come intollerabile, più l’individuo cerca di stare lontano da esso tramite strategie semi-adattive, dette piani, che comprendono l’evitamento, il controllo e l’iper-compensazione o modifica forzata del proprio stato mentale.

Il tema doloroso si può indagare partendo da un episodio recente che la persona riporta come significativo. L’episodio scelto è il momento in cui Andrea si è bloccato di fronte alla classe durante la sua esposizione. L’abbiamo indagato più o meno come segue:

A. Avevo la testa vuota, non capivo nulla. Ho letto gli appunti, per fortuna, ma parlavo a bassa voce e qualcuno mi ha detto di alzare la voce..
T. Che emozione hai provato in quel momento?
A. Una grandissima vergogna
T. Cosa hai pensato di te?
A. Che stavo facendo la figura dell’idiota totale, dell’incapace sfigato
T. Com’è un incapace sfigato?
A. Uno scemo, un debole…uno che non sa stare al mondo
T. E se gli altri pensano questo, che succede di negativo?
A. Che nessuno mi considererà alla pari, mi scanseranno tutti. Nessuno vuole avere a che fare con uno sfigato così, nemmeno io vorrei
T. Qual è per te la cosa peggiore dell’essere sfigato?
A. Che non sarò mai alla pari degli altri, verrò sempre scansato dai professori..dai compagni…verrò sempre considerato inferiore
T. Come ti senti se pensi queste cose?
A. Molto triste e mi vergogno

Abbiamo ragionato a lungo se si trattasse di un tema di indegnità piuttosto che di inadegutezza/disamore. Nel primo caso si tratta di una sensazione profonda di inferiorità e disprezzo verso il sé, nel secondo caso la persona si sente rifiutabile, potenzialmente non amata e non riconosciuta nonostante i propri sforzi, priva di valore. L’emozione più spesso associata al tema dell’indegnità è la vergogna, mentre l’inadeguatezza/disamore può avere più a che fare con la tristezza. Inoltre il tema inadeguatezza/disamore, secondo il modello LIBET, può derivare da una storia evolutiva caratterizzata da genitori freddi e distanzianti, che non sono stati in grado di esprimere affetto e apprezzamento, oppure essi stessi insicuri e iperprotettivi, che non hanno permesso un’adeguata esplorazione del mondo e delle proprie capacità. Invece il tema dell’indegnità è in genere associato a genitori apertamente critici e sprezzanti, normativi e invalidanti.

E’ possibile esplorare la storia evolutiva del paziente partendo dall’episodio emotivamente saliente sopra riportato e andare indietro nel tempo, aiutando il paziente a ricordare se ci siano stati momenti in cui si è sentito in quel modo o ha pensato le stesse cose di sè nella sua adolescenza e infanzia.

T. Ti ricordi se ti sei già sentito in questo modo prima? Ad esempio, quando eri un adolescente?
A. Alle medie ci fu un episodio molto brutto. Dovevamo andare in gita, ma il mio migliore amico si era rotto un braccio e non poteva venire..Panico! Io con chi sarei stato in camera? O seduto accanto nel bus? Nessun altro mi avrebbe voluto con sé, si erano già organizzati tutti. Mi sentii proprio triste e umiliato. Non sarei voluto andare, ma mio padre mi obbligò. Anche se poi il professore decise con chi sarei stato, fu molto brutto, perchè sapevo che i miei compagni avrebbero preferito che io non fossi in camera con loro. Oppure anche nell’ora di ginnastica, ad esempio, che eravamo più classi insieme…io non la volevo mai fare e spesso mi facevo fare la giustificazione da mia madre. Il fatto è che ero scelto sempre per ultimo, perché negli sport sono imbranato. Mi sentivo l’ultimo degli ultimi.

Andando ancora indietro nel tempo, ci soffermiamo sui ricordi delle elementari.

A. I primi giorni sono stati un disastro, me lo ricordo ancora. Ero terrorizzato all’idea della scuola, degli altri bambini. Io giocavo solo coi miei cugini e mio fratello, non ero abituato. Stavamo in campagna, non avevo mai visto tutti quei bambini sconosciuti tutti insieme. Mia madre era molto preoccupata per me. Anche lei è molto timida, ha sempre vissuto in campagna, sta sempre con le stesse persone e non le piace quando deve parlare con estranei. Il primo giorno di scuola era molto spaventata, temeva di non trovare la strada, di arrivare tardi, si vergognava perchè le altre mamme erano cittadine, noi invece eravamo contadini, venivamo da un paesino di campagna…Continuava a dire che era difficile guidare per quella strada, di comportarmi bene, di parlare con la maestra e fare bella figura…

Dai racconti emerge dunque la figura di una madre a sua volta molto ansiosa e preoccupata, impacciata ed inibita nei rapporti sociali, non in grado di gestire le emozioni del figlio.

Il padre invece viene descritto come un uomo autoritario, di poche parole, molto dedito al lavoro in campagna e poco presente a casa, spesso apertamente svalutante nei confronti del figlio.

A. Era stato lui a decidere di mandarmi alla scuola in città. Diceva che dovevo diventare bravo per avere un buon lavoro. Non mi ha mai fatto un complimento, quando riportavo i voti buoni annuiva, una volta che ho preso un’insufficienza, alle superiori, mi disse scuotendo la testa che era molto deluso e che forse era stato un errore farmi fare il liceo, che era una scuola troppo difficile per me. Sentivo che aveva molte aspettative su di me, lui avrebbe tanto voluto studiare ma non aveva potuto, avevo sempre paura di deluderlo. Anche con le ragazze. Ogni tanto mi chiedeva perchè non avessi una fidanzata. – Alla tua età è normale avere una fidanzata, tutti ce l’hanno – si vedeva che era proprio preoccupato per me… deluso, proprio deluso sembrava. Sembrava triste per me. Una volta che non volevo andare ad una festa, lo sentii dire a mia madre: -Tuo figlio è un codardo -, aveva proprio una voce triste.
T. E tu come si sei sentito?
A. Mi sono vergonato, ho pensato che avesse proprio ragione.

Abbiamo deciso di condividere con il paziente la descrizione del tema dell’indegnità, che ci sembrava calzante a causa di un forte senso di inferiorità quasi senza scampo (se non forse essere ‘bravo’ all’università) e di quella profonda vergogna che non permette nemmeno di intravedere la speranza di un giudizio più benevolo da parte degli altri. Il paziente ha accolto questa ipotesi con sorpresa e diffidenza iniziale, poi con sollievo e commozione, come talvolta accade quando si scopre che un nostro dolore non è solo nostro, ma condivisibile e universale.

Secondo il modello LIBET, è utile ragionare anche in termini di piani, ovvero strategie abituali e egosintoniche che il paziente ha imparato ad usare nel corso della vita per stare lontano dal proprio tema doloroso. I piani sono più o meno rigidi, generalizzati e pervasivi, e sebbene durante il corso della vita abbiano avuto una funzionalità adattiva, ad un certo punto sono diventati disfunzionali proprio perchè utilizzati in maniera automatizzata e pervasiva anche in condizioni di bassa minaccia.

Nel corso dei colloqui, emerge che Andrea sembra utilizzare due piani: quello prudenziale, ovvero fondato sull’evitamento, e quello prescrittivo, ovvero fondato sul controllo.

Il piano più antico di Andrea sembra essere quello prudenziale, appreso dalla madre e portato avanti nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza senza, in fondo, troppi problemi. A scuola aveva suo cugino, a casa suo fratello e altri cugini e ‘questo bastava‘: ‘Non mi interessava giocare con gli altri, avevo sempre loro a disposizione‘.

Le prime rotture del piano prudenziale avvengono a causa di interventi esterni: l’obbligo da parte del padre ad andare in gita scolastica, ad esempio, o le volte in cui era costretto a partecipare all’ora di ginnastica. Poi arriva l’università, fonte di tante speranze, e qui c’è davvero la rottura del piano: non è più possibile evitare, come Andrea sperava! ‘Io mi immaginavo che all’università saremmo stati in tanti, in tantissimi, e che avrei potuto studiare tranquillamente per conto mio, senza tanti problemi. Invece…‘. Ma per Andrea è importante non fallire all’università. Che fare?

Quando non è possibile evitare, Andrea sembra perseguire il piano prescrittivo. Ad esempio, quando Andrea ci racconta che cerca di prepararsi ed imparare a memoria cosa dire durante un incontro o se interpellato, sta cercando di ‘controllare’ che l’evento temuto, ovvero l’umiliazione, la ‘figuraccia’ e la conseguente esclusione sociale non si verifichino. Lo fa nel modo che conosce: con l’impegno e la programmazione, proprio come fa quando studia per gli esami! Infatti Andrea è sempre stato un ottimo studente! In ambito scolastico la strategia prescrittiva ha sempre funzionato; nell’ambito sociale invece non sempre è una buona idea. Infatti Andrea non si tranquillizza, non riesce a ricordarsi bene cosa voleva dire e rimane costantemente preoccupato di essere ‘preso alla sprovvista’. E alla fine, nonostante la sua impeccabile e forsennata preparazione, la presentazione davanti alla classe va male.

Poiché in questo caso il piano prescrittivo non ha funzionato, Andrea torna, di nuovo, ad evitare: le situazioni, le persone, i luoghi, i lavori di gruppo. Evita la mensa, così come evitava le lezioni di ginnastica al liceo; evita gli sguardi, se ne rimane in disparte. Questa strategia, sebbene gli risparmi l’ansia e la vergogna, adesso lo rende triste, perché lo fa sentire escluso e inadeguato e rischia di mandare all’aria la sua carriera universitaria, su cui si fonda l’unica possibilità di ‘riscatto’ possibile: essere bravo, emergere, far felice il padre che non aveva potuto studiare. I costi del piano prudenziale sono diventati troppo elevati.

Data questa concettualizzazione, sarà possibile nel corso della terapia lavorare su temi e piani da un punto di vista non solo di contenuto, ma anche di processo. Dal punto di vista del tema, sarà possibile lavorare sulla polarizzazione attenzionale che rende il tema doloroso assolutamente condizionante e centrale nella vita dell’individuo, e sulla sua intollerabilità, ovvero su quanto il paziente valuti intollerabile il dolore associato al tema.

Dal punto di vista dei piani, invece, potremo lavorare in termini di necessità/utilità e di incontrollabilità, rendendo piano piano le strategie di Andrea più flessibili da un punto di vista metacognitivo e di conseguenza comportamentale.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Arlington, VA
  • First M.B., Williams J.B.W., Karg R.S., Spitzer R.L. (2017) SCID-5. Intervista Clinica Strutturata per i Disturbi del DSM-5. Ed. Italiana a cura di Andrea Fossati e Serena Borroni. Raffaello Cortina Editore. Milano.
  • Sassaroli, S., Caselli, G., Ruggiero, G.M. (2016). Un modello cognitivo clinico di accertamento e concettualizzazione del caso: Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment (LIBET). Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, 22(2), 183-197
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