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Dimensioni cognitive della resilienza

La resilienza dipende dagli schemi cognitivi che ci si è costruiti, dal modo personale in cui si vede il mondo e si attribuisce un senso alle cose

Di Arianna Grazzini

Pubblicato il 11 Giu. 2020

La resilienza non è una qualità innata che rimane stabile nel tempo bensì una disciplina che può essere modulata e rafforzata attraverso l’impegno e l’esercizio costante.

 

Diverse ricerche scientifiche condotte in ambito psichiatrico e in alcuni rami della psicologia quali la psicoanalisi e la psicologia clinica, si sono focalizzate sugli effetti negativi che eventi traumatici e avversi della vita quali lutti, perdite e crisi di varia natura possono ingenerare sull’integrità psichica di alcuni individui, determinando forti ripercussioni sul piano relazionale.

Il focus di tali ricerche verteva sugli aspetti psichici disfunzionali che erano considerati gli aspetti primari più urgenti da sottoporre ad esame.

Con il successivo sviluppo della psicologia della prevenzione e della salute si è diffuso un filone di ricerche scientifiche volto ad indagare non tanto gli aspetti disfunzionali ma piuttosto le capacità e le risorse proprie degli individui che reagiscono in modo efficace alle avversità mantenendo inalterata la propria integrità psichica. In tale contesto si è evidenziato il concetto di resilienza psicologica che indica la capacità dell’individuo di fronteggiare eventi traumatici e stressanti riuscendo a ristrutturare in modo positivo la propria esistenza senza alienare la propria identità.

Le persone resilienti, anziché lasciarsi sopraffare dalle difficoltà, trovano il modo di curare le proprie ferite, cambiare rotta, dare un nuovo slancio alla propria esistenza mantenendo il focus sui propri obiettivi, riuscendo ad emergere anche più forti di prima.

La resilienza psicologica è un costrutto multidimensionale complesso alla cui modulazione contribuiscono in modo integrato fattori biologici, psicologici e sociali:

  • I fattori biologici sottolineano il ruolo del patrimonio genetico;
  • I fattori psicologici evidenziano l’importanza delle relazioni che si sviluppano nell’età evolutiva tra cui l’attaccamento, i modelli di riferimento, la costruzione di relazioni positive con gli adulti e con il gruppo dei pari;
  • I fattori sociali comprendono tra gli altri l’influenza del gruppo, della cultura, delle tradizioni familiari, degli apprendimenti e dell’etica.

Possediamo un corredo genetico di resilienza che ci deriva dalla storia evolutiva della nostra specie sopravvissuta a malattie, guerre, carestie, calamità naturali e siamo programmati per affrontare in modo efficace difficoltà e condizioni avverse.

Tuttavia la resilienza non è una qualità innata che rimane stabile nel tempo bensì una disciplina che può essere modulata e rafforzata attraverso l’impegno e l’esercizio costante.

Gli individui non subiscono passivamente gli eventi stressanti ma reagiscono ad essi in base alla propria valutazione cognitiva, ossia la modalità personale con cui ciascuno filtra ed elabora i dati oggettivi propri della realtà esterna attribuendo loro un preciso significato.

La valutazione cognitiva a sua volta influenza in modo diretto i comportamenti e le strategie che l’individuo mette in atto per rispondere ad una data situazione. Vari studi scientifici, a partire da quelli di Edwin Blalock (1989), hanno dimostrato che le emozioni e i pensieri sono strettamente correlati all’aspetto funzionale corporeo. Un dato evento può assumere significati diversi in base al modo in cui viene soggettivamente valutato, determinando differenti reazioni sul piano emotivo, fisico e comportamentale.

Lo stretto legame mente-corpo è stato sottolineato dallo Psicologo Pietro Trabucchi nel suo libro Resisto dunque sono in cui analizza i meccanismi della resilienza in ambito sportivo: la struttura cognitiva, le credenze e le emozioni legate ai pensieri veicolano neurotrasmettitori (sostanze chimiche che trasmettono le informazioni fra i neuroni attraverso le sinapsi) che a loro volta producono delle modifiche a livello corporeo.

Se un atleta, in base ai propri schemi cognitivi, ritiene che un obiettivo sia impossibile da raggiungere, in linea con la sua convinzione di “non farcela” attiverà una serie di reazioni fisiologiche collegate allo stress e alla paura che condizioneranno la sua performance.

La valutazione cognitiva influenza la percezione di tutte le sensazioni corporee dando origine ad esiti comportamentali diversi; ad esempio qualificare la percezione di affaticamento fisico dicendo a se stessi “non ce la faccio più” è diverso rispetto al dirsi “ho ancora energia/posso farcela”.

La resilienza dipende sostanzialmente dagli schemi cognitivi che ci si è costruiti, dal modo personale in cui si vede il mondo e si attribuisce un senso alle cose. Alcuni schemi sono più efficaci e funzionali e sostengono l’individuo nell’affrontare prove, sfide e difficoltà, alimentando lo sviluppo della resilienza. Viceversa l’utilizzo di schemi disfunzionali e inefficaci determinerà risposte inadeguate sul piano fisiologico, emotivo e comportamentale.

Anche la maggiore o minore vulnerabilità allo stress è condizionata in larga parte dalla propria valutazione cognitiva e dalla percezione di sentirsi competenti o meno nel saper dominare e far fronte ad una data difficoltà/sfida in termini di autoefficacia percepita.

La resilienza non è una semplice reazione intesa come una risposta passiva ad eventi stressanti ma al contrario rappresenta un’azione, ossia una risposta attiva che viene costruita ed elaborata in modo consapevole dall’individuo.

In virtù del principio della neuroplasticità il cervello umano si modifica continuamente sia sul piano strutturale che funzionale in risposta agli stimoli cognitivi che riceve nel corso dell’esperienza di vita, creando nuovi neuroni e nuovi collegamenti. Quindi il cervello viene continuamente modulato e, attraverso gli schemi cognitivi, le abitudini e in generale lo stile di vita può essere ristrutturato in modo significativo. Modificando la valutazione cognitiva personale e la propria visione del mondo con l’adozione di schemi più utili e funzionali per fronteggiare condizioni sfidanti e difficoltà, si determineranno delle modifiche a livello neuronale che renderanno permanenti tali cambiamenti potenziando di conseguenza la propria capacità di resilienza.

Alcune dimensioni cognitive individuate come fattori di personalità comuni agli atleti degli sport di endurance risultano strettamente correlate con la resilienza (modello della “Personalità Resistente”, Trabucchi, 2000):

  • Locus of control: indica la percezione di controllo che gli individui ritengono di avere rispetto ad eventi e circostanze della propria vita. Il locus è interno quando l’individuo attribuisce gli eventi ai propri comportamenti e azioni mettendo in relazione i risultati che ottiene con il suo livello di impegno. Viceversa il locus è esterno quando l’individuo attribuisce le cause degli eventi a fattori casuali e indipendenti dalle proprie azioni e dal proprio livello di impegno. Le persone che utilizzano un locus interno sono più resilienti poiché, assumendosi la responsabilità dei risultati che ottengono, si impegnano maggiormente nell’affrontare le difficoltà e nel perseguire gli obiettivi.
  • Tolleranza alla frustrazione: se presenti in una certa misura, le frustrazioni sono funzionali ad attivare l’individuo per risolvere problemi, affrontare difficoltà e modificare le situazioni. Tuttavia quando il carico di frustrazioni è eccessivo e persiste nel tempo si può sviluppare l’impotenza appresa che si ha quando la persona percepisce di non avere il controllo su quello che accade nella propria vita e rinuncia a lottare assumendo un atteggiamento passivo. La capacità di gestire le frustrazioni è strettamente interrelata con la dimensione socio-culturale di appartenenza che spesso propone dei modelli artificiali irrealistici, favorendo negli individui la costruzione di sistemi di aspettative troppo elevate che possono ingenerare frustrazione. Può essere funzionale una rielaborazione del proprio sistema di aspettative orientandolo sulla base di criteri più concreti e realistici.
  • Capacità di ristrutturazione cognitiva: rappresenta la capacità di maturare un nuovo punto di vista per considerare eventi avversi o traumatici, trovando degli elementi positivi e valutando le cose in una nuova prospettiva. Ad esempio riuscire a trasformare un’esperienza negativa in un’opportunità di crescita, una lezione che ci ha insegnato qualcosa, un errore che non si ripeterà di nuovo, riuscendo a rialzarsi più forti di prima.
  • Attitudine alla speranza: le persone che coltivano la fede nella speranza hanno uno stile cognitivo fondato su una visione positiva e ottimistica delle cose che è una caratteristica degli individui resilienti. Gli ottimisti tendono a reagire in modo adeguato alle avversità poichè circoscrivono l’evento negativo ad un ambito specifico senza pregiudicare gli altri aspetti della propria vita, agendo per ripristinare un equilibrio. I pessimisti al contrario tendono a generalizzare attribuendo un dato evento negativo ad ogni aspetto della propria vita, considerandolo permanente e ritenendo di non poter fare nulla per cambiare lo stato delle cose. Lo stile cognitivo improntato all’ottimismo o al pessimismo, così come è stato appreso dall’individuo con l’esperienza personale e con i modelli di riferimento, allo stesso modo può essere modificato. E’ dunque possibile imparare a diventare ottimisti sostenendo lo sviluppo della resilienza.

 

Cambia il modo di guardare le cose e le cose che guardi cambieranno. (Wayne Dyer)

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Trabucchi, P., (2007). Resisto dunque sono. Corbaccio S.r.l.: Milano.
  • Di Lauro, D., (2012). La resilienza. La capacità di superare i momenti critici e le avversità della vita. Xenia Edizioni e Servizi S.r.l.: Milano.
  • Oliverio Ferraris, A., (2004). Resilienza individuale e collettiva. Rivista Trimestrale di Scienza e Storia. Anno 2, n.87. Ricavato il 10 Aprile 2020 da qui.
  • Wu, G., Feder, A., Cohen, H., Kim, J., Calderon, S., Charney, D. (2013). Understanding resilience. Frontiers in Behavioral Neuroscience, vol.7. Consultato il 15 Aprile 2020 qui.
  • Blalock, J., E., (1984). Il Sistema Immunitario come Organo Sensoriale. The Journal of Immunology, Vol.132, n.3. Consultato il 20 Aprile 2020 qui.
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