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La carezza come unità di riconoscimento umano: meglio mal accompagnati che soli?

Con il termine carezze si indica ogni azione che implica il riconoscimento dell’altro; ognuno ne individua tipi preferiti che accetterà respingendone altri

Di Maria Cristina Forte

Pubblicato il 22 Mag. 2020

Berne ha definito come unità di riconoscimento umano la carezza, indicando qualsiasi tipo di azione che implica appunto il riconoscimento dell’altro. Le carezze si possono classificare in base a modalità di espressione, direzione o qualità, intento, valenza, l’esito in chi le riceve e infine in base alla fonte.

 

Gli studi sulla motivazione si sono da sempre interrogati su quale fossero i fattori alla base del comportamento di ciascuno, il bisogno relazionale sembra essere una delle risposte.

…l’amor che move il sole e le altre stelle (Dante Alighieri).

Il termine motivazione definisce l’insieme di bisogni, desideri, intenzioni alla base del comportamento di ciascuno (Liotti, 2000).

Per spiegare la motivazione alla base del comportamento umano, Sigmund Freud propose il cosiddetto “modello idraulico”. Secondo Freud, la spinta motivazionale è rintracciabile in una mera scarica pulsionale; anche la relazione infante – caregiver ha come scopo ultimo il soddisfacimento di bisogni fisiologici e un ristabilire un’omeostasi interna (Freud, 1914).

Studi successivi hanno, invece, sottolineato il bisogno di attaccamento come bisogno primario.

Harry Harlow (1958), psicologo statunitense, attraverso un esperimento che coinvolgeva le scimmie Rhesus dimostrò come questi primati preferissero un surrogato materno che dava calore, piuttosto che nutrimento.

Anche alla luce delle più recenti ricerche neuroscientifiche, il modello idraulico freudiano non sembra avere riscontri, la struttura del cervello umano suggerisce l’esistenza di tre diversi livelli motivazionali (Liotti, 2010).

McLean vede il cervello umano strutturato in tre strati differenti, risultato dell’evoluzione. Lo strato più profondo è il cervello rettiliano (tronco encefalico, nuclei della base), non sociale, orientato al soddisfacimento di bisogni fisiologici, protezione, esplorazione dell’ambiente e controllo di funzioni vitali, come ad esempio il ritmo cardiaco e la respirazione; lo strato intermedio è il cervello dei mammiferi (amigdala e giro del cingolo), orientato all’interazione sociale e di cui fa parte anche il sistema di attaccamento e accudimento; l’ultimo è il cervello neo-corticale (la neocorteccia), esclusiva dei primati, che si occupa di tutte le funzioni cognitive e razionali (McLean, 1984). Dunque, il modello del cervello tripartito di McLean affianca ai bisogni fisiologici primari, il bisogno di attaccamento; calore e protezione fondamentali per la sopravvivenza della specie.

Edelman suggerisce di distinguere il sé biologico dal non sé: il sé biologico afferisce alle attività delle strutture più arcaiche della formazione del cervello (tronco encefalico e sistema limbico) e legate alla nutrizione, riproduzione sessuale, ma anche alla formazione dei legami sociali; il non sé è riconducibile, invece, all’attività di talamo e neocorteccia, strutture evolutivamente più recenti e coinvolte nella conoscenza e nella comunicazione (Liotti, 2010).

Date queste premesse, il modello idraulico freudiano sarebbe valido se l’uomo avesse solo il cervello rettiliano individuato da McLean, orientato appunto al ristabilire l’omeostasi interna; ma già il sistema limbico lascia presupporre un’intersoggettività come fondamento della motivazione umana (Liotti, 2010).

Le carezze

Eric Berne (1964) ha spiegato la spinta dell’uomo alla relazionalità introducendo il concetto di fame di stimolo (Stewart e Joines, 1987). L’infante ha fin da subito bisogno della vicinanza dell’altro, un bisogno che può essere paragonato al bisogno di cibo, fondamentale per la sopravvivenza.

Dice Berne, “Se una persona non è accarezzata da qualche suo simile, la sua mente si corrompe e la sua umanità s’inaridisce” (Berne, 1970, 191); le neuroscienze, inoltre, ci forniscono una base solida poiché i bambini stimolati sviluppano un cervello più grande e con connessioni tra le cellule cerebrali più forti rispetto ai bambini deprivati (Carissa et al.; 2019; Wiggins, 2000; Kandel, 2005).

Parallelamente allo sviluppo dell’infante si verifica anche uno spostamento da una fame di stimolo a un’altra fame che Berne definisce “fame di riconoscimento”, una sorta di compromesso tra il bisogno di riproporre il contatto fisico con la madre e forze sociali che vi si oppongono. La fame di riconoscimento corrisponde al bisogno di ciascuno di essere visti (Stewart e Joines, 1987).

Berne ha definito l’unità di riconoscimento umano la “carezza”, indicando qualsiasi tipo di azione che implica appunto il riconoscimento dell’altro.

Le carezze si possono classificare in base alla modalità di espressione (verbali, fisiche); direzione o qualità (condizionate, riconoscimenti legati al fare; incondizionate, riconoscimenti riferiti all’essere); intento, valenza (positive e negative); l’esito in chi le riceve (costruttive, improduttive, e distruttive); e infine in base alla fonte (interna o esterna) (Wollams e Brown, 1978).

In ogni caso, una carezza negativa è sempre meglio che non riceverne affatto, ciascuno preferisce dei riconoscimenti negativi alla deprivazione totale; meglio mal accompagnati che soli.

Nel corso degli anni, ciascuno svilupperà un proprio quoziente di carezze preferite (Capers e Glen, 1971), di conseguenza accetterà alcuni tipi di carezze e ne respingerà altre, McKenna (1974) parla a tal proposito di “filtro” delle carezze.

Un altro filtro nel dare e ricevere carezze è posto culturalmente, infatti Steiner (1971) ha individuato una sorta di “economia delle carezze”, regole non scritte tramandate di generazione in generazione, quali:

  • “Non dare carezze quando ne hai da dare”, la tendenza a rimarcare le manchevolezze dell’altro, senza apprezzare quanto di buono c’è nella relazione;
  • “Non chiedere carezze quando ne hai bisogno”, anche quando si ha la necessità di una carezza non va chiesta, il valore di una carezza richiesta non è lo stesso di una data spontaneamente;
  • “Non accettare carezze se le vuoi”, le lodi vanno respinte poiché volte ad ottenere secondi fini;
  • “Non rifiutare carezze quando non le vuoi”, accettare anche le carezze negative;
  • “Non dare carezze a te stesso”, si è educati all’autocritica ma non anche all’autocelebrazione.

Nello scambio di carezze risulta fondamentale il riconoscimento della responsabilità di ognuno, non solo di chi la invia ma anche di chi la riceve: chi la invia si assume la responsabilità del messaggio, chi la riceve di accoglierla o respingerla e degli stati d’animo che ne conseguono.

Risulta utile dunque un abbandono delle decisioni infantili conseguenti all’educazione genitoriale, e più in generale culturale, riconoscendo che le carezze richieste hanno lo stesso valore di quelle date con spontaneità, o che si possono dare carezze a sé stessi e sviluppare la capacità di autocelebrarsi oltre l’autocritica, e ancora che si possono rifiutare apertamente carezze che non piacciono (Stewart e Joines, 1987).

Rispetto alla responsabilità di ognuno, esemplificativo è uno stralcio di un libro L’ora o il mai più di Oscar Travino (2016).

Travino dice:

Fino a quando attribuirai fuori da te la causa delle tue lamentele, poco e niente potrà cambiare. […] se sarai disposto a guardarti dentro, allora capirai che molto del tuo dolore lo stai scegliendo. Magari con una non scelta. Così come scegli, sempre, le tue emozioni. Non dire – mi fai arrabbiare -, ma -scelgo di arrabbiarmi-. La riappropriazione dell’origine e della responsabilità delle tue emozioni ti permette di riscoprire un potere a volte volutamente dimenticato: la possibilità di decidere, sempre. E allora, oggi cosa scegli?

Fondamentale, dunque, una riappropriazione di responsabilità all’interno dei vari scambi relazionali.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Berne, E. (1961). Transactional analysis in psychotherapy. New York: Grove Press (tr. It.: Analisi transazionale e psicoterapia. Roma: Astrolabio, 1971).
  • Berne, E. (1964). Games people play. New York: Grove Press (Tr. It: A che gioco giochiamo. Milano: Bompiani, 1967)
  • Berne, E. (1966). Principles of Group Treatment. New York: Grove Press (Tr. It: Principi di terapia di gruppo. Roma: Astrolabio, 1986).
  • Berne, E. (1970). Sex in human loving. New York: Simon and Schuster (tr. It.: Fare l’amore. Milano: Bompiani, 1986).
  • Berne, E. (1972). What do you say after you say hello?. New York: Grove Press (tr It.: “Ciao!” … e poi?. Milano: Bompiani, 1979).
  • Capers, H.,  Glen, H. (1971). Stroke survival quotient. TAJ, I, 3
  • Carissa J., Moore, D., McGlone, F. (2019). Social touch and human development. Developmental cognitive neuroscience, 2018.
  • Freud, S. (1914). Introduzione al narcisismo. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Harlow, H.F. (1958). The nature of love. American Psychologist, 13, 673–685.
  • Kandel, E. (2005). Psychiatry, psychoanalysis, and the new biology of mind. Arlington, VA: American Psychiatric Publishing, Inc.
  • Liotti, G. (2010). Motivazione. Universo del corpo, www.treccani.it
  • McKenna, J. (1974). Stroking profile: Application to script analysis. TAJ, 4, 4, 20-24 (tr. it.: Il profilo delle carezze: applicazione all’analisi di copione. At, III, 5, 58-62, 1983).
  • McLean, P.D. (1984). Evoluzione del cervello e comportamento umano. Studi sul cervello trino. Torino: Einaudi.
  • Steiner, C. (1971). The stroke economy. Transactional Analysis Journal, I (3) 9 - 15
  • Stewart, I., Joines, V. (1987). TA Today (tr.: It: L’analisi transazionale. Milano: Garzanti, 1990).
  • Travino, O. (2016). L’ora o il mai più. Pensieri liberi di uno psicoterapeuta. Ilmiolibro self publishing.
  • Wiggins, P. (2000). Infant Brain Development. Texas Child Care, 2.
  • Woollams, S., Brown, M. (1978). Transactional Analysis. Dexter: Huron Valley Institute Press (tr. It. : Analisi transazionale. Assisi: La cittadella, 1985).
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