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Realtà Virtuale in psicoterapia: l’importanza di un utilizzo guidato e personalizzato

L'usabilità, la scelta tra le risorse disponibili e la specificità del paziente sono alcuni elementi da tenere presenti usando la realtà virtuale in terapia

Di Luca Morganti

Pubblicato il 17 Apr. 2020

Sembra forse banale ripeterlo, ma non sarà mai sufficientemente ribadito, che non è l’esperienza della realtà virtuale a curare, ma il suo inserimento all’interno della relazione di cura e del percorso di intervento condiviso col paziente.

 

L’articolo di Marina Morgese introduce molto bene riflessioni inerenti l’uso della realtà virtuale in un contesto terapeutico, aprendo al tempo stesso l’opportunità di spingerci oltre, alla luce della sempre crescente disponibilità di strumentazioni di realtà virtuale e dell’ormai decennale letteratura scientifica a supporto.

Non mi soffermerei sulla specificità dell’intervento sulle fobie, in particolare quella dell’aereo, su cui ci sono ripetute prove di evidenza scientifica e previsioni di intervento che integrano anche i futuri sviluppi tecnologici (Botella et al., 2017). Focalizzo invece la mia riflessione su tutti i nuovi possibili utilizzi della realtà virtuale, come appunto quello avveniristico (ma non troppo) di cui si è parlato nell’articolo sopra citato. Non sappiamo quali possano essere gli sviluppi della realtà virtuale da qui a cinque anni: se ci guardiamo indietro, solo cinque anni fa non c’era la possibilità di utilizzare visori di realtà virtuale senza un computer a supporto, quindi con la richiesta di una capacità tecnica da parte di un terapeuta di gestire questo grado di complessità. Per quanto riguarda invece i contenuti a disposizione si trovavano perlopiù ambienti per le fobie e di rilassamento, generalmente prodotti da istituti di ricerca, quindi con i pregi e le limitazioni del contesto stesso: un forte ancoraggio teorico, ma una usabilità in molti casi migliorabile.

Un primo elemento da definire quando parliamo di realtà virtuale è proprio l’usabilità, perché non si tratta di un aspetto accessorio: se il paziente ha difficoltà ad interagire con l’ambiente, ad esempio se quest’ultimo si muove a scatti o ha momenti in cui per problemi di sviluppo i movimenti degli oggetti non seguono le leggi della fisica del mondo reale, vivrà un senso di presenza molto meno forte. Il senso di presenza è l’elemento centrale dell’efficacia della realtà virtuale (Riva et al., 2007), pertanto problemi di usabilità diminuiscono l’efficacia dell’intervento con una proporzionalità praticamente diretta.

Per quanto riguarda i contenuti, invece, la diffusione della realtà virtuale permette di avere a disposizione dello psicoterapeuta un portfolio di soluzioni molto più ampio, grazie principalmente a due bacini di riferimento: contenuti free creati da altri utenti (in alcuni casi, psicoterapeuti a loro volta) e contenuti creati da aziende che stanno investendo nel settore psicologico. Entrambe le soluzioni aumentano contestualmente anche il target di professionisti in grado di poter integrare facilmente la realtà virtuale all’interno del proprio agire terapeutico senza stravolgerlo: uscendo dal contesto specifico delle fobie, storicamente legato all’approccio cognitivo-comportamentale, aumenta infatti una possibile integrazione con altri approcci.

Il secondo elemento da mettere in evidenza è come saper scegliere all’interno della molteplicità di risorse disponibili: l’aspetto chiave in questa direzione per me è rappresentato dal fatto di aver provato e riprovato personalmente l’ambiente in realtà virtuale. Questa indicazione crea sicuramente un filtro pratico, perché richiede al terapeuta interessato all’utilizzo professionale della realtà virtuale in ambito psicologico di essere almeno in parte un “piccolo nerd”, in quanto è necessario dedicare del tempo alla scoperta e alla fruizione dell’ambiente virtuale. Solo in questo modo è possibile poi potersi confrontare col paziente al termine dell’esperienza virtuale, avendo la possibilità di cogliere tutti gli aspetti che possono averlo colpito sapendo esattamente di cosa sta parlando. La realtà virtuale è una esperienza immersiva, per cui molti dettagli possono colpire emotivamente il paziente in modo maggiore rispetto ad altre tecniche classiche. Sembra forse banale ripeterlo, ma non sarà mai sufficientemente ribadito, che non è l’esperienza virtuale a curare, ma il suo inserimento all’interno della relazione di cura e del percorso di intervento condiviso col paziente. Solo con una chiara spiegazione del razionale per cui si sceglie questa tecnica e uno spazio successivo di confronto e rielaborazione è possibile inserirla in una formulazione condivisa del caso, che è poi uno degli elementi prognostici più favorevoli sia per l’esito sia per la costruzione della relazione stessa.

Il terzo elemento su cui basare l’intervento terapeutico utilizzando la realtà virtuale come tecnica per favorire il cambiamento è la capacità di prevedere, o quanto meno ipotizzare, quali sono gli aspetti del quadro clinico del paziente su cui l’esperienza immersiva nell’ambiente virtuale potrà intervenire. Un paragone che può essere utile per guidare la riflessione secondo me è l’utilizzo della scala DES nel protocollo EMDR base, per escludere pazienti ad alto rischio di dissociazione. Allo stesso modo è opportuno valutare, anche senza test ma con una valutazione clinica approfondita, quali possono essere i rischi e i benefici dell’esperienza virtuale. Torniamo un attimo all’esperienza avveniristica di I met you, ipotizzando che fra 5 anni possa essere disponibile in ogni nostro studio o ambulatorio come possibilità per far gestire il lutto ai pazienti: con quali dei nostri casi clinici possiamo pensare di utilizzarlo? Con quelli che sono alle fasi iniziali di elaborazione del lutto (Kubler Ross, 1973) o con quelli che riferiscono un lutto in sospeso da anni? Con i pazienti più emotivi o con quelli che hanno meccanismi di difesa più strutturati?

Come prevedibile, inoltrarsi nella riflessione pratica non permette di avere tutte le risposte perché il fascino dell’intervento clinico resta sempre la necessità di personalizzare il proprio agire all’interno del proprio orizzonte teorico di riferimento e alla luce del paziente che abbiamo davanti. Si tratta di una convinzione di base che i miei ormai dieci anni lavoro con la realtà virtuale in psicologia non hanno scalfito, anzi che è stata rafforzata di continuo nella mia crescita come psicoterapeuta, nonostante i miei ripetuti flirt con questa tecnica spesso definita come “fredda”. Al tempo stesso, la necessità di personalizzazione ci ricorda di spostare sempre l’attenzione dal cosiddetto effetto wow della realtà virtuale a quello che invece può darci dal punto di vista terapeutico: non importa tanto quanto avveniristica sia l’esperienza, perché lo stupore di rado ha un potere curativo. Bisogna essere in grado di differenziare anche dentro di noi terapeuti quali ambienti virtuali ci stupiscono e ci entusiasmano e quali invece possono essere utili per emozionare: questo confine non sembra così sottile, eppure è un campanello d’allarme importante per non lasciarci coinvolgere da realtà virtuali cool, ma lasciarci convincere da realtà virtuali potenzialmente terapeutiche (e, possibilmente, evidence-based). L’essenziale non è solo comprendere bene cosa può fare la realtà virtuale, ma puntare alla formazione di terapeuti verso un utilizzo professionale della stessa, che permette di evitare usi impropri dei mezzi che la tecnologia ci offre, riflettendo invece sulle potenzialità che un utilizzo guidato di questi nuovi strumenti potrà sicuramente avere nel nostro campo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Botella, C., Fernández-Álvarez, J., Guillén, V., García-Palacios, A., & Baños, R. (2017). Recent progress in virtual reality exposure therapy for phobias: a systematic review. Current psychiatry reports, 19(7), 42.
  • Kübler-Ross, E. (1973). On death and dying. Routledge.
  • Riva, G., Mantovani, F., Capideville, C. S., Preziosa, A., Morganti, F., Villani, D., ... & Alcañiz, M. (2007). Affective interactions using virtual reality: the link between presence and emotions. CyberPsychology & Behavior, 10(1), 45-56.
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