Crittenden e colleghi (2020) hanno di recente pubblicato i risultati di una ricerca longitudinale ottenuta monitorando 209 pazienti in decorso operatorio dopo una mastoplastica riduttiva, valutando la qualità della vita in relazione alla salute (componente fisica e componente mentale) prima di sottoporsi all’intervento, a tre mesi dall’operazione, dopo sei mesi e infine dopo un anno.
Ogni corpo è differente, ogni corpo è unico, ogni individuo odia certe parti del proprio corpo e ne apprezza altre, per questo motivo la moderna medicina ha sviluppato sofisticate tecniche correttive per modellare il fisico, divenuto tela per l’esperto artista del bisturi, pronto a donare ad ognuno il corpo che ha sempre sognato.
Per quanto alcuni esortino all’accettazione tollerante verso la propria immagine e le proprie eventuali imperfezioni fisiche (reali o percepite), è doveroso riconoscere come in alcuni casi un difetto estetico evidente possa costituire motivo di profonda vergogna, generare vissuti personali negativi, in taluni casi addirittura isolamento sociale e ritiro dall’intimità con gli altri. Per questo motivo, in alcuni paesi è data la possibilità di accedere ad interventi di chirurgia estetica godendo della copertura assicurativa o, come nel nostro caso, che se ne faccia carico il Sistema Sanitario Nazionale, previo l’accertamento di una compromissione della funzionalità o di forte disagio psicologico dovuti al difetto fisico che si intende correggere.
Le statistiche ci dicono che vi è una notevole disparità di genere nella richiesta di interventi estetici, tanto che secondo un recente report dell’ASAPS (America Society Aesthetic Plastic Surgery), nel 2018 negli Stati Uniti sono stati effettuati 1,533,639 trattamenti estetici chirurgici dei quali il 92,9% erano richiesti da donne e, di questi, circa il 40% era costituito da donne tra i 35 e i 50 anni (n.b: escluse quindi da questo conteggio pratiche come iniezioni di acido ialuronico, filler o il peeling chimico, che rientrano negli interventi non chirurgici).
Sembra che la parte del corpo che crei più disagio alle donne in maniera consistente nelle diverse fasce d’età siano i seni, sui quali vengono praticati aumenti di volume, lifting, rimodellamenti, sbiancamenti areolari, tutto per ottenere forme e dimensioni perfette. Accanto a queste procedure che mirano ad un miglioramento dell’estetica, ma generalmente non vengono riconosciute come interventi di miglioramento funzionale, altri, come ad esempio le ricostruzioni dopo interventi di rimozione delle ghiandole mammarie o la diminuzione del volume del seno possono rispondere a delle esigenze che vanno oltre la preferenza estetica.
Tuttavia, mentre la ricostruzione del seno a seguito dell’asportazione è garantita dal nostro Sistema Sanitario Nazionale, i criteri di eligibilità per l’intervento di riduzione del seno o Mastoplastica Riduttiva, sono spesso basati su valori come il BMI (Body Mass Index) o il peso minimo di resezione mammaria durante la chirurgia (ovvero la quantità di tessuto minima che si potrà recidere), indici medicali che non tengono conto del vissuto dell’individuo e dalla menomazione risultante dai sintomi dolorosi connessi con l’ipertrofia del seno: come risultato a molte donne viene negato l’accesso ad una misura considerata come ‘di minore impatto’ e in definitiva ritenuta poco necessaria (Frey et al., 2014), quando al contrario esiste un solido corpo di studi a sostegno dei benefici ottenuti ricorrendo alla riduzione del seno (Blomqvist et al., 2000; Freire et al., 2007; Mello et al, 2010).
Crittenden e colleghi (2020) hanno di recente pubblicato i risultati di una ricerca longitudinale ottenuta monitorando 209 pazienti in decorso operatorio dopo una mastoplastica riduttiva, valutando la qualità della vita in relazione alla salute (componente fisica e componente mentale) prima di sottoporsi all’intervento, a tre mesi dall’operazione, dopo sei mesi e infine dopo un anno. Per valutare l’effettivo impatto benefico costituito dall’intervento, il gruppo sperimentale è stato confrontato con un gruppo di controllo che rispondesse agli stessi criteri di eligibilità ma che non si fosse ancora sottoposto all’operazione e ad un secondo gruppo, costituito da donne il cui seno non fosse ipertrofico e la cui qualità della vita non risentisse dunque di questa problematica. Il 97,6% delle partecipanti ha dichiarato nel questionario post-operatorio che avrebbero rifatto l’intervento, 4 pazienti risultavano indecise e una soltanto non avrebbe ripetuto l’esperienza. A seguito dell’operazione inoltre le pazienti spendevano meno denaro per l’acquisto di medicinali o trattamenti (5.73$ al mese contro i 36,4$ dichiarati nel pre-operatorio) e richiedevano meno giorni di assenza dal lavoro (0,1 giorni nell’arco di sei mesi contro 4,5 giorni). A 3 mesi dall’intervento i punteggi al questionario usato per valutare la qualità della vita in relazione alla salute (SF-36) hanno mostrato un miglioramento significativo su tutte le 8 scale considerate, tali da essere equiparabili ai punteggi appartenenti al gruppo delle donne con seni di dimensioni regolari, rimanendo poi stabile a 6 e 12 mesi successivi all’operazione; il gruppo di controllo, non sottoposto ad intervento, riportava inizialmente una media inferiore di quella della popolazione normativa per poi rimanere prevedibilmente costante nei successivi assessment; nel confronto con le pazienti post-operatorie, il gruppo di controllo riferiva una condizione di salute peggiore, confermando l’effettiva efficacia dell’operazione nel migliorare la salute psicofisica delle donne.
I risultati ottenuti da Crittenden e colleghi (2020) riflettono un miglioramento sulla qualità della vita che eccede quelli ottenuti mediante l’innesto di un bypass coronarico o di riparazione di un’ernia, ed è equiparabile a quello ottenuto con l’impianto di una protesi totale del ginocchio, avvallando il ruolo dell’intervento di riduzione del seno nel migliorare in maniera clinicamente rilevante la qualità della vita delle donne che vi fanno ricorso.