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La complessità del ruolo genitoriale

Una riflessione sulle difficoltà legate al ruolo di genitori, facendo riferimento ai personaggi di dieci romanzi e agli inevitabili sbagli commessi

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 18 Feb. 2020

Immaginate la freccia del tempo al centro di una ruota della fortuna. Alle ore 6 indica passato, alle ore 12 indica futuro. Ruotatela, trattenete il respiro, aspettate che si fermi. Che ora indica? Ripetete il tentativo fino a che la freccia si ferma sulla meridiana: ore 12, futuro. Ecco, in quel momento siete diventati genitori.

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera Domenica 29 Dicembre 2019

 

Un impegno tremendo, un’ombra calerà su di voi a ogni alba, per un paio di decenni a essere clementi. Che significa? Diventare genitori è un’investitura: ci tocca raccogliere la testimonianza degli antenati, distillare quello che consideriamo il meglio, trasmetterlo ai figli. Incoraggiandoli però a modificare la storia, con piccoli gesti che non avevamo previsto. Ci affanniamo per dargli energia, convinzione, strumenti e risorse e tutto perché inventino e ci tradiscano. Così li rendiamo liberi. Se non ci riusciamo, almeno proviamo a offrire loro la degna ripetizione di un passato tollerabile.

Diventare genitori implica un atto di perdono di sé, perché quel gioco della freccia non ci riesce mai completamente. Facciamo quello che possiamo guidati però da una missione ben definita. Tirare su i ragazzi in un’impalcatura di sicurezza in sé, speranza e creatività. Fosse facile.

I romanzi selezionati in queste pagine spiegano la necessità, diventati genitori, di apprendere l’autoindulgenza. Perché sbagliamo sempre. Per quante ripetizioni tentiamo, la freccia tende verso un quadrante che non era quello sperabile. I genitori di quei 10 romanzi hanno preso la mira male. Li divido in due categorie: i primi ancorano i figli a un compito malefico, preoccuparsi di loro. Interrogarsi su di loro. Guarda me, il futuro non ti interessi. Loro fermano la freccia alle 6: passato. I secondi invece la indirizzerebbero alle 12, dicono ai figli: segui questo percorso, ti conduce in un luogo sicuro. Poi gli mettono in mano la mappa. E i figli si fidano, la usano. Ma scoprono che è fallata, sbattono il muso in muri di mattoni che non erano segnalati. Bonk.

Al passato ti ancorano i genitori sofferenti, distanti o tirannici. Il padre del protagonista di Nel segno dell’anguilla è, senza colpa, malato. Il figlio lo osserva preoccupato, ipnotizzato, l’attenzione non è più al mistero di quel pesce. Albert, il protagonista di Quasi tutto velocissimo è stato abbandonato dal padre biologico e il padre adottivo è un Forrest Gump: buono, ma ha dei limiti. Albert allo stesso tempo se ne sente amato e se ne occupa e così, inseguendo un padre e accudendone un altro, il futuro non lo vede. Il genitore autoritario de La regola del padre obbliga i figli a servirlo da sano, a curarlo da infermo. Vincola i figli a una sottomissione arcaica. Malata è anche la madre della protagonista senza nome di Sight. Anzi: lontana prima, malata poi, inaccessibile alla figlia sempre. Vedete la freccia del tempo? Punta dal figlio verso il genitore. Come quell’altro padre che ripete al figlio studioso: lasciami stare. Sembra indifferente, ma è peggio. Il sottotesto è: guarda me, sono stanco – ancora sofferenza – la vita mi è pesante. Un padre così, allo stesso tempo, ignora la passione del figlio e lo allarma.

Anche Nurit ricerca un assente. Morto il padre che l’ha cresciuta, vuole sapere del padre biologico, che donando lo sperma regalò una figlia a un amico. Incontra invece una moglie, paranoica, gelosa del proprio stesso figlio Giovanni. Lo controlla, lo perquisisce se frequenta Nurit, sorella agli effetti del DNA, la sua è una follia che paralizza come la testa della Gorgone. Nurit e Giovanni si trovano a tenersi per mano, camminando col passo del gambero.

La seconda categoria: vai verso il futuro, ecco la mappa, fidati è precisissima. L’effetto è: bonk. Come fanno questi genitori a tenere i figli in un eterno sconclusionato, frustrante presente? Devo introdurre un concetto. Ricordate il detto: ‘Ascolta quello che dice il prete, non vedere quello che fa?’. Ecco, la realtà dell’apprendimento è il contrario. I bambini ascoltano quello che i genitori dicono, ma soprattutto imparano da quello che vedono. Il messaggio genitoriale passa per traspirazione. Noi ci mettiamo sul pulpito, ma tessiamo l’essenza dei nostri figli in sagrestia.

Un esempio di fulgida ingenuità e presunzione è La madre americana. Impegnata curatrice di orfani, esce presto la mattina, lascia figli lì a chiedersi chi quel giorno lei nutrirà e soccorrerà. Vi sembra una donna generosa? Il messaggio che manda ai figli è: l’amore si moltiplica. Vi sembra una donna saggia? Non lasciatevi ingannare. L’amore magari si moltiplica, ma l’attenzione si divide. E ai figli l’attenzione serve come l’aria. Quella donna, l’attenzione, non la donava ai suoi, la divideva per cento, guidata da qualcosa che con la devozione genitoriale vera non ha nulla a che fare. Ai propri figli ha dato la propria assenza, il tema che ritorna, ma in più li ha privati del diritto alla protesta. Ma come, non capite che mamma vi ama? Vallo a spiegare a quei ragazzi che degli altri orfani avrebbero fatto bene a fregarsene e reclamare la mamma per loro. Invece di credere alle giustificazioni morali che dava al suo comportamento compulsivo.

Denominatore comune dei venditori di mappe taroccate: la sacrificalità. La donna di Non è vero che non siamo stati felici, fissata sul bene degli altri, imprime una legge nella mente della figlia: se desideri per te, sentiti in colpa. Emanazione dello stesso archetipo è la casalinga di L’amore altrove, riparatrice seriale di giocattoli inutili; sottomessa al marito violento, lo cura quando soffre. La figlia impara: non ho diritto, il maschio lo sporca e io lo pulisco. L’ultima madre ai figli adottivi non dà limiti, li vizia e così facendo gli insegna: chi ama è divorabile.

Il genitore che vogliamo diventare è il pescatore di anguille, prima che si ammali. ‘Qui va bene’, insegna al figlio. ‘Papà spostava l’erba con una mano e scendeva lentamente in diagonale, poi si girava e allungava la mano verso di me. Io la prendevo e lo seguivo con la stessa studiata prudenza’.

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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