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Serial killer: l’attrazione dell’orrore

Com’è possibile che i serial killer, capaci di atti così violenti e sconvolgenti, attirino così tanto la nostra attenzione?

Di Marta Floridi, Ottavia Biisecchi

Pubblicato il 28 Gen. 2020

Il fascino che la figura del serial killer possiede è innegabile. Questo fenomeno è ancora oggi in espansione, come si evince dall’aumento esponenziale di serie tv e film sull’argomento, ma anche dal crescente impegno della comunità scientifica nel rendere valida empiricamente una tecnica forense che rischia di rimanere legata alla fantasia delle serie tv.

 

…l’uomo si differenzia dagli animali perché è assassino; è l’unico primate che uccida e torturi membri della propria specie senza motivo, né biologico né economico, traendone soddisfazione. È proprio questa aggressione «maligna», biologicamente non-adattiva e non programmata filogeneticamente, che costituisce il vero problema e il pericolo per l’esistenza dell’uomo come specie. (Erich Fromm)

Chi almeno una volta nella vita, spinto dalla curiosità, non si è trovato a leggere la storia di qualche famoso serial killer del passato? Molto probabilmente se qualcuno rispondesse di no starebbe mentendo. Il fascino che la figura del serial killer possiede è innegabile e lo è ancor di più ai giorni nostri. Ma cosa ci affascina dei serial killer? Il fatto che siano la personificazione di quanto ancora d’irrazionale, felino e primordiale esiste nella nostra vita apparentemente ordinaria, oppure una curiosità mossa dal bisogno di trovare una spiegazione logica a dei comportamenti apparentemente irrazionali? Basta aprire la homepage di Netflix per essere inondati da serie tv, film e documentari su questi perversi, ma allo stesso tempo affascinanti, personaggi. Ne è un esempio Mindhunter, una serie tv prodotta da Netflix uscita il 13 ottobre 2017 e basata sul libro Mindhunter: La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano (Mind Hunter: Inside FBI’s Elite Serial Crime Unit) scritto da Mark Olshaker e John E. Douglas.

In questa serie, ambientata a fine anni ’70, Netflix racconta la storia di Holden Ford, un negoziatore frustrato dell’FBI che assieme a Bill Tench inizia a studiare una nuova tipologia di assassino: il Serial killer definito dall’FBI come colui che commette tre o più omicidi in tre o più località distinte intervallate da un periodo di “cooling off” che indica la premeditazione dell’omicidio (Miller, 2014). Lo stesso Douglas, nell’introduzione del suo libro, motiva il suo studio dicendo:

C’è un solo modo per riuscire a dare la caccia ai serial killer in attività: comprendere come pensano, capirne i ragionamenti, per quanto contorti, perversi e letali possano essere, e anticiparne così le mosse. Ma c’è un solo modo per entrare nella mente di un serial killer: parlare con i suoi «colleghi» e predecessori. (Douglas & Olshaker, 1995)

Nel corso delle puntate lo spettatore entra a far parte egli stesso del lavoro dei due detective, partecipa come osservatore alle interviste di serial killer come Ed Kemper, Charles Manson e David Berkowitz aka Son of Sam, diventati nel corso del tempo delle vere e proprie celebrità e inevitabilmente cresce in lui la stessa curiosità che spinge Holden e Bill a perseverare nel loro lavoro.

Ed è proprio questo che non riusciamo a spiegarci, com’è possibile che persone capaci di atti così violenti e sconvolgenti diventino dei veri e propri personaggi famosi e, in ultimo, attirino così tanto la nostra attenzione? Di seguito cercheremo di trovare una risposta a questa domanda.

Per spiegare l’enorme diffusione della figura del serial killer nei film e nelle serie tv, Dietrich e Hall (2010) fanno riferimento al “presupposto edonistico”, secondo cui nella maggior parte dei casi gli animali si avvicinano a ciò che è buono ed evitano ciò che è cattivo. Naturalmente, tutti gli animali curiosi violano questa ipotesi in una certa misura, così come gli esseri umani. Questo è spiegato dal fatto che sembrerebbe che gli esseri umani siano in grado di provare nello stesso momento sentimenti positivi e negativi quando esposti a stimoli avversi. Questo meccanismo viene chiamato co-attivazione e spiega come quando siamo spaventati in realtà potremmo essere anche divertiti. Questo processo fornisce una correlazione positiva tra emozioni opposte, come ad esempio la paura e il piacere. Ad esempio, la co-attivazione permette di spiegare perché andiamo al cinema a vedere film horror (perché guardiamo serie tv e documentari sui serial killer): l’idea è che i sentimenti di piacere ed eccitamento si verificano a stretto contatto con l’essere spaventati, questo porta a pensare che la paura è una diretta conseguenza dei primi (Dietrich e Hall, 2010). Occorre tener presente però che lo spettatore non è solito provare emozioni positive e negative contemporaneamente a meno che non ci sia uno specifico mind-set dove il pericolo viene visto come non reale, fortemente minimizzato o si sente in grado di poterlo gestire. Nel caso delle serie tv lo schermo si frappone tra noi e il serial killer, consentendoci di sentirci perfettamente al sicuro e liberi di essere spaventati.

Un altro fattore che spiega il motivo per cui siamo attratti dalla figura disturbante del serial killer è connesso al bisogno dell’essere umano di ricercare spiegazioni e motivazioni per qualsiasi cosa, in quanto forniscono controllo, permettono di prevedere le azioni future e dal punto di vista emotivo riducono la paura. In aggiunta, dare spiegazioni a ciò che succede nel mondo è importante, specialmente se questo ha ripercussioni negative sulla nostra vita. Nel cercare spiegazioni di eventi fatali, come omicidi perpetrati da serial killer, l’essere umano è spinto da un certo grado di curiosità (Dietrich & Hall, 2010). Questa presenta sempre una componente emotiva positiva e fornisce una sensazione di benessere all’individuo nel momento in cui viene soddisfatta. Quindi ciò che ci attrae dei serial killer è il nostro bisogno di trovare spiegazione al loro comportamento, al fine di evitarli o prevenire i loro crimini. La nostra attrazione è innata ed è sostenuta dalla curiosità; questo spiega parte del fascino dei serial killer.

Così come la co-attivazione, la curiosità e il bisogno di trovare spiegazioni ad oggi spingono gli spettatori a guardare le serie tv e i film sui serial killer, in passato questi stesi fattori hanno spinto gli agenti a mettere a punto una tecnica chiamata criminal profiling.

Il criminal profiling consiste nell’identificazione delle principali caratteristiche di personalità e dei comportamenti di un individuo, con lo scopo di guidare le indagini e identificare dei possibili sospettati (Volpini, 2012). Nonostante sia una tecnica utilizzata da molto tempo come supporto nelle indagini e sia molto popolare rispetto ad altre tecniche forensi mostra uno scarso supporto empirico. Infatti sono pochi gli studi che hanno confrontato a posteriori il profilo utilizzato in fase di indagine con le caratteristiche riscontrabili nell’autore del reato (Oleson, 1996; Wilson & Soothill, 1996). In effetti, la maggior parte del materiale citato a sostegno della validità e dell’accuratezza del criminal profiling non rispetta le linee guida della comunità scientifica.

Quindi come spieghiamo la crescita del criminal profilig nonostante la mancanza di prove empiriche a supporto della sua validità? Kocsis (2003) identifica tre fattori che potrebbero spiegare questo fenomeno: il primo fattore è indubbiamente il Glamour mediatico che circonda questa tecnica; il secondo fattore è dato dal fatto che diversamente dalle altre tecniche psicologiche, il profiling è stato sviluppato dalle agenzie di polizia. Ciò ha comportato che quest’ultime non si sentissero in dovere di convalidare i loro metodi secondo lo standard utilizzato dalla comunità scientifica. Inoltre il profiling essendo impiegato come tecnica investigativa e non come prova legale è sfuggito a tutti i controlli a cui sono soggette le altre tecniche forensi che producono prove legali. Il terzo fattore è una logica a volte esposta quando i profiler si trovano a dover fornire giustificazioni per le loro pratiche. Al centro di questa argomentazione circostanziale c’è l’affermazione che l’accuratezza e quindi la validità dei profili siano indirettamente dimostrati e spiegati attraverso il loro uso e la continua domanda da parte delle agenzie di polizia. Suggerendo che, se i profili non venissero percepiti come precisi la polizia e gli investigatori non avrebbero interesse a richiedere i profili a supporto delle indagini.

Data la forte diffusione del criminal profiling e del suo utilizzo, negli ultimi anni la comunità scientifica si è adoperata nella ricerca di nuovi disegni sperimentali che potessero testare secondo il paradigma scientifico la validità e l’attendibilità di questa tecnica. L’attenzione si è spostata quindi sulla correlazione tra le caratteristiche dei profiler e l’accuratezza del profilo. Infatti è emerso che i profiler professionisti producono profili più accurati rispetto ad altre figure professionali come investigatori e polizia (Kocsis, 2003).

In conclusione, come possiamo evincere dalla lettura di questo articolo, la figura del serial killer desta tanto più fascino ed interesse quanto più è feroce nel dare espressione della propria personalità.

Come abbiamo visto sono numerose le teorie che hanno cercato di spiegare questo fenomeno ancora oggi in espansione. Ciò è dimostrato non solo dall’aumento esponenziale di serie e film ma anche dal crescente impegno della comunità scientifica nel rendere valida empiricamente una tecnica forense che rischia di rimanere legata alla fantasia delle serie tv.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Dietrich, E., & Hall, T. F. (2010). The allure of the serial killer.
  • Douglas, J., & Olshaker, M. (1995). Mind Hunter: Inside the FBI's Elite Serial Killer Crime Unit. A Lisa Drew Book, Scribner.
  • Fromm, E., & Stefani, S. (1975). Anatomia della distruttività umana. Mondadori.
  • Kocsis, R. N. (2003). Criminal psychological profiling: Validities and abilities. International Journal of Offender Therapy and Comparative Criminology, 47(2), 126-144.
  • Miller, L. (2014). Serial killers: I. Subtypes, patterns, and motives. Aggression and Violent Behavior, 19(1), 1-11.
  • Netflix (2017). Mindhunter.
  • Oleson, J. C. (1996). Psychological profiling: Does it really work? Forensic Update, 46, 11-14.
  • Volpini, L. (2012). Dal “criminal profiling” all’autopsia psicologica della vittima. Linguæ &-Rivista di lingue e culture moderne, 11(1-2), 157-169.
  • Wilson, P. R., & Soothill, K. (1996). Psychological profiling: Red, green or amber? The Police Journal, 1, 12-20.
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