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Il fascino (non troppo) discreto delle fake

Reagire e difendersi dalle fake è possibile, ma la risposta non va cercata negli algoritmi, bensì nella mente delle persone e nell’onestà dell’informazione.

Di Mariateresa Fiocca

Pubblicato il 22 Gen. 2020

Malgrado i meccanismi di fake-detector volti a bonificare l’offerta informativa, si sta assistendo a una crescente difficoltà di distinguere il falso dal vero. Le fake possiedono un fascino (non troppo) discreto. Ma qual è il segreto di tanto fascino?

 

Quante donne andate sul rogo perché la leggenda popolare riteneva fossero streghe possedute dal maligno: più fake di così… si muore!

E, ancora, l’Inquisizione, che ha mietuto vittime sulla base di fondamenti che potrebbero paragonarsi ai peggiori regimi autoritari!

La diceria degli untori…la dice lunga! Ciò che distingue l’attuale dal passato sono la velocità e la diffusione della diceria degli untori.

Per andare ai fatti più recenti, durante la guerra in Iraq (1993-2011), molto nota è l’artata fake di un povero cormorano – divenuto l’icona di quella guerra – il cui piumaggio era intriso di petrolio. Ma c’era un piccolo particolare non sfuggito agli ornitologi: a quel tempo nella zona non erano presenti cormorani di tale specie. Altro che icona; una vera bufala!

Corsi e ricorsi delle fake. Non è la sostanza che cambia, ma la loro tecnologia, poiché la componente umana rimane immutata al fondo di tutto ciò e così pure le motivazioni: manipolare, dirigere l’opinione pubblica, fare propaganda, spostare l’elettorato, destabilizzare, esaltare, denigrare, mettere al bando, ridicolizzare, stupire. Le fake sono alla base della teoria della cospirazione; vengono ideate per nascondere la realtà dei fatti (hoax); hanno lo scopo di sponsorizzare (clickbait); infine, consistono in puro divertissement o in mero errore.

Molte sono le piaghe delle fake:

  • Rappresentano causa ed effetto dell’analfabetismo funzionale.
  • Data la loro velocità nella viralizzazione, minano le capacità cognitive dei soggetti, in quanto pregiudicano il momento della riflessione e l’esigenza di approfondire le fonti e i contenuti delle informazioni (fact-checking).
  • Inficiano, di conseguenza, il processo decisionale in quanto fondato – almeno parzialmente – su informazioni distorte.
  • Sono all’origine di pregiudizi, astio verso l’alterità, divisioni, faziosità, fratture sociali, opinioni eterodirètte.
  • Possono spostare le percezioni di massa attraverso la demagogia e l’“effetto gregge”.
  • La saturazione informativa induce tramite un sistema di “risparmio cognitivo” – secondo la terminologia dei “massmediologi” – a sposare acriticamente argomenti sostenuti da nessun fondamento scientifico – o di altra natura – se non quello di una “autorevole” assertività.
  • E poi, entra in gioco l’emotività che corrobora le fake con il prevalere del soggettivo sull’oggettivo, mediante la diffusione di pezzi costruiti non tanto sui fatti bensì su architetture evocative con forte valore simbolico: è la transizione dal resoconto dei fatti al racconto/storytelling. Questo è il caso della post-verità (post-truth), che nel 2016 l’Oxford Dictionary ha eletto parola dell’anno: la verità dei contenuti è subordinata all’apparenza e a ciò che essa suscita nella sfera emotiva. Il fatto viene così percepito come veridico sulla base di emozioni e sensazioni che tali notizie suscitano sul loro “consumato-re”, senza che quest’ultimo si preoccupi di effettuare alcuna analisi concreta circa la veridicità dei fatti. Sostanzialmente, alla base della post-verità vi è il bias di conferma: i soggetti tendono a enucleare dai fatti esclusivamente gli aspetti e i pezzi che confermano le proprie convinzioni e credenze pre-esistenti. Ciò fa sì che l’individuo resti confinato nel suo ristretto ecosistema informativo (c.d. bolle di filtraggio). Nel 2017, il termine “post-verità” tornò in auge come conseguenza della polemica sull’uso dell’espressione “fatti alternativi” (“alternative facts”) a cui ricorse – “arrampicandosi sugli specchi” – la portavoce presidenziale degli Stati Uniti, Kellyanne Conway, riguardo alla nota vicenda del giorno dell’inaugurazione della Presidenza di Donald Trump.
  • Dal punto di vista tecnologico, la mistificazione informativa si sta rapidamente evolvendo e assumendo strutture poliformiche. È in atto una sorta di trasformismo sempre più sofisticato: dal semplice acquisto di like e dagli account falsi, l’escalation ha portato alle deep-fake – traducibili in “falsi realistici” -, alle fake-face, alla fake-people e così via.

Corollario è la progressiva difficoltà di distinguere il falso dal vero. E ciò malgrado i meccanismi di fake-detector volti a bonificare l’offerta informativa.

Insomma, il fascino (non troppo) discreto delle fake…

Ma qual è il segreto di tanto fascino?

In premessa, si può considerare la peggiore forma di disinformazione quella che avviene mediante le fake-true (o fake truth), cioè tramite false verità, che hanno il vantaggio di non destare scetticismo nell’utente di media cultura.

Nel lavoro ci soffermiamo in particolare sul loro “fascino segreto”, analizzando le possibili motivazioni per cui facciano tanta presa. Specificatamente, ci serviremo dell’economia comportamentale in un contesto di incertezza.

Le fake-true sono notizie vere riproposte con incalzante successione. Tale artato meccanismo provoca nell’utente una sorta di “capogiro” che, facendogli perdere lucidità e piena presenza, deforma nella sua mente la realtà ingigantendola. Quindi, si tratta di fatti rigorosamente autentici ma accostati in modo – potremmo affermare ossessivo – da ottenere un risultato distorto.

È possibile che, nel caso di cattive notizie, tale deformazione renda la realtà apparentemente più grave e/o spaventevole. L’individuo, non più pienamente presente a se stesso all’interno del vortice in cui viene frullato, si ritrova in una situazione affatto confusiva. Non è più in grado di orientarsi ed è ipotizzabile, dunque, che sperimenti una situazione in condizioni di incertezza (soggettiva).

Soffermiamoci, in particolare, su una deformazione di natura negativa. La nostra scelta è giustificata dal fatto che le cattive notizie corrono più veloci e rimangono più impresse nella memoria di quelle buone. A parole tutti desiderano le buone notizie, nei fatti (quasi) tutti vanno a caccia di quelle brutte: terrorismo, cronaca nera, ingiustizie, tradimenti, disgrazie, cataclismi.

Lo psicologo sociale Baumeister (2001) afferma che, nelle reazioni umane, “il male è più forte del bene” (“bad is stronger than good”): le spiacevoli emozioni, i genitori duri e autoritari, le sgradevoli risposte hanno un impatto maggiore della corrispondente realtà controfattuale; le informazioni negative penetrano più a fondo di quelle positive e tendono a persistere nei ricordi.

Il passo successivo nella presente analisi consiste nell’assumere che per l’individuo la cattiva notizia viene percepita come una perdita subìta. In tal caso, possiamo giustificare che le cattive notizie rimangono più impresse nella memoria di quelle buone sulla base della Prospect Theory (Teoria dei Prospetti), una teoria delle decisioni formulata dagli psicologi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky (1979). Essa spiega come opera tale perdita sulle emozioni del soggetto attraverso l’attitudine psicologica dell’“avversione alle perdite”.

La teoria – validata anche dall’economia sperimentale – afferma che le perdite producono sull’individuo un impatto maggiore rispetto ai guadagni, anche quando essi siano uguali in valore assoluto. Di conseguenza, le persone preferiscono evitare una perdita piuttosto che realizzare un guadagno, sebbene di pari entità.

Il meccanismo per cui quando perdiamo qualcosa l’emozione (negativa) è molto più forte e persistente di quando guadagniamo qualcosa trova fondamento anche nella teoria della “spinta gentile” di Thaler e Sunstein (2009).

Sia la formulazione teorica sia la validazione empirica offrono dunque possibili spiegazioni perché le fake-true attecchiscano e si viralizzino con particolare facilità.

Chapeau!

Ma essendo così robuste e resilienti, per combatterle non sono sufficienti gli algoritmi destinati a scovarle. Il mondo è più complesso e intossicato da interessi colossali: sono quindi necessari la libertà, il pluralismo mediatico e lo spirito critico.

Sta di fatto che la reazione alle fake truth è possibile, ma non riposa negli algoritmi bensì nel cervello delle persone e nell’onestà dell’informazione.

Probabilmente un cambio epocale, dove l’intelligenza artificiale assolve uno scarso ruolo in quanto vanno a prevalere le reti neurali biologiche su quelle artificiali.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Baumeister, R. F. et al. (2001). Bad Is Stronger Than Good, Review of General Psychology.
  • Kahneman, D. e Tversky, A. (1979). Prospect Theory: An Analysis of Decision Under Risk, Econometrica.
  • Thaler, R. e Sunstein, C. (2009). Nudge: la spinta gentile, Giacomo Feltrinelli Editore, Milano.
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