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Natale e solidarietà: nel periodo natalizio siamo tutti più buoni? – Intervista al Prof. Francesco Ambrogetti

Natale si avvicina, le piazze si popolano di banchetti che invitano a donare, abbiamo intervistato F. Ambrogetti per capire meglio il fenomeno fundraising

Di Diletta Bufo

Pubblicato il 23 Dic. 2019

Si avvicina il Natale, le piazze si popolano di banchetti della solidarietà che ci invitano a donare. E’ vero che in questo periodo dell’anno “siamo tutti più buoni” ed aderiamo con maggior facilità alle cause sociali? Che cosa succede nel nostro cervello quando facciamo un’offerta?

 

Abbiamo intervistato Francesco Ambrogetti, che da oltre vent’anni si occupa di raccolta fondi per organizzazioni come Unicef, WWF e Croce Rossa; docente dal 2011 all’Università di Forlì, è stato responsabile di finanza innovativa presso il Fondo di sviluppo del capitale delle Nazioni Unite (UNCDF) e ha lavorato in Sudafrica, promuovendo campagne di sensibilizzazione in tema di AIDS, in Asia a sostegno della salute riproduttiva femminile.

Intervistatrice (I): Quanto c’è di autentico e, al contempo, di indotto nel gesto di donare o di aderire ad un’organizzazione umanitaria in questo particolare periodo dell’anno?


Francesco Ambrogetti (F.A.): Senza dubbio, i dati mostrano che in Italia, così come in altri Paesi, dicembre è il mese in cui si registra il più alto livello di donazioni; addirittura, per alcune organizzazioni, fino al 50-60% dell’intero ammontare raccolto in tutto l’anno. La donazione, infatti, viene attivata in risposta ad un complesso di emozioni – dunque a livello subconscio ed istintivo – e di valori nei quali crediamo e siamo stati educati. Per chi festeggia o è immerso nell’atmosfera del Natale, soprattutto in un Paese tradizionalmente cattolico come l’Italia, il dono può diventare una parte essenziale del proprio essere. Siamo, per così dire, predisposti emozionalmente ed educati valorialmente. Il problema sta nel fatto che esistano moltissime organizzazioni no-profit.
A Natale, allora, tendiamo a donare alle organizzazioni a cui abbiamo sempre donato, piuttosto che aderire a nuove cause sociali, a meno che queste ultime non abbiano notevole visibilità e producano un effetto chiaramente più forte dal punto di vista emozionale. E’ il caso dello tsunami in Asia del 26 dicembre 2004.

I: Cosa succede nel nostro cervello quando decidiamo di sostenere un’organizzazione? Donare aumenta la nostra autostima? Ci fa sentire più accettati socialmente?

F.A.: Il nostro cervello è complicatissimo e le neuroscienze hanno appena iniziato a capire cosa succede quando proviamo determinate emozioni o quando prendiamo decisioni, incluso il donare. Per chi è interessato ad approfondire l’argomento, rimando al mio libro Emotionraising. Neuroscienze applicate al fundraising (Maggioli Editori, 2013). Come detto, le donazioni sono attivate da un articolato meccanismo neurobiologico, in cui vengono coinvolte alcune aree del cervello che rilasciano neurotrasmettitori ed ormoni. In più, il processo psicologico ci “forza” ad agire e, una volta effettuata la donazione, ci sentiamo meglio, grazie al rilascio della dopamina, neurotrasmettitore che controlla i meccanismi del piacere, della ricompensa, dell’attenzione. Ci sono alcune teorie ed esperimenti sul cosiddetto “warm glow”, ossia sull’idea che donare migliori la nostra autostima e quella degli altri, come mettersi un paio di guanti quando fa freddo. Tuttavia, il vero driver sono, appunto, le emozioni e i valori: essi sono evolutivamente e culturalmente parte del nostro modo di essere (e del nostro cervello). Cosa succede dopo il dono e come noi ci giustifichiamo per averlo fatto, così come a seguito di un acquisto, interessa, invece, la parte razionale del nostro cervello – inclusa l’autostima – ma non rappresentano il motivo o la forza che ci fa agire.

I: Ci sono parole, immagini, colori, suoni che, secondo la Sua esperienza, funzionano meglio in una campagna sociale?

F. A.: La maggior parte del nostro cervello processa immagini, perciò, senz’altro, foto e video risultano molto più efficaci rispetto alle sole parole. Tuttavia – questo è un elemento importante – immagini, suoni e colori hanno un’efficacia solo e soltanto all’interno di una storia che raccontiamo, o di un caso che presentiamo. Sono le storie, attraverso le immagini, i suoni e i colori che catturano l’attenzione e, quando presentano un bisogno chiaro a cui rispondere e una call to action semplice ed evidente, motivano la gente ad agire.

I: La strategia comunicativa per una raccolta fondi cambia in base al destinatario? E’ più difficile emozionare un anglosassone rispetto ad un italiano? Ha riscontrato delle differenze tra uomini e donne?

F. A.: Secondo me, non è una questione di cultura. Ho lavorato e raccolto fondi in tante parti del mondo e, fondamentalmente, non cambia essere anglosassone o tailandese. Quello che cambia, però, è l’audience a cui ci rivolgiamo. Troppo spesso le organizzazioni pensano che un messaggio vada bene per chiunque. Non è così. Le emozioni ed il messaggio funzionano per audience specifiche, sia dal punto di vista della composizione socio-demografica, sia dal punto di vista dei valori. Sulla differenza tra uomini e donne è difficile generalizzare, ma in linea di principio i dati dimostrano che le donne siano più generose, più attive e più sensibili nel supportare una causa o un’organizzazione.

I: Ci sono emozioni o messaggi sui quali non dobbiamo fare leva quando si tratta di fundraising?

F. A.: Difficile anche qui generalizzare. Dipende, come detto, dall’audiuence, dalla causa e dalla campagna. I dati dimostrano, però, che le emozioni negative, come paura, rabbia, tristezza siano, per ragioni evolutive, molto più potenti nel catturare l’attenzione e nello stimolare comportamenti corretti. Naturalmente, non sono sufficienti se non vengono accostate in modo esplicito ad un obiettivo: la donazione che cosa contribuirà a risolvere? Ciò genera un’emozione positiva nel donatore.

I: I giovani sono più sensibili rispetto agli adulti su determinate tematiche? Pensiamo al fenomeno Greta Thunberg, che è stata in grado di mobilitare studenti di tutto il mondo. Qual è il segreto? Forse, ancora una volta, l’emozione?

F. A.: Non credo sia corretto utilizzare categorie come giovani (fino a che età?) o millennials (tutti coloro sotto i quarant’anni). C’è una grande differenza tra un quindicenne, un ventenne o un trentenne. E’ vero, però, che le nuove generazioni siano culturalmente molto più coinvolte da tematiche globali come il problema del cambiamento climatico. Detto ciò, i ragazzi sono anche più esigenti: vogliono capire quale possa essere, in concreto, il loro impatto, non si fidano delle organizzazioni e non hanno la disponibilità economica delle generazioni precedenti. Non credo ci sia un modello, ma la semplice richiesta di donazione non funziona con target più giovani.

I: Come è cambiato nell’ultimo decennio il Suo lavoro? E’ mutato il modo di fare comunicazione nel sociale?

F. A.: E’ cambiato tutto direi. Prima il fundraising era un lavoro a 360 gradi, che spaziava dalle sponsorizzazioni aziendali alle cartoline. Oggi è diventato super specializzato (se sei un digital fundraising non sei un major donor specialist) e più strategico.
La chiave non è più semplicemente la beneficienza, ma come fare innamorare dell’organizzazione e della missione i tuoi sostenitori. Un po’ come fanno le grandi marche e aziende che non vendono più soltanto un prodotto. Attualmente lavoro in UNICEF internazionale, dove mi occupo di supporter engagement. In precedenza, presso l’UNCDF (United Nations Capital Development Fund), ho creato e lanciato il primo prodotto di investimento (SDGA) nella Borsa di New York (NYSE, New York Stock Exchange), allineato con gli obiettivi del Millennio, “Sustainable development Goals”. In sostanza, un paniere di azioni di imprese che rispettano criteri di sostenibilità nei Paesi più poveri.

 

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