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Il dono nella cultura cristiana

Se Dio dona se stesso i cristiani non possono che fare altrettanto e ciò significa dare quel che si ha ma anche ciò che si è facendo così legame con l’altro

Di Mariano Indelicato

Pubblicato il 10 Dic. 2019

Dal momento della nascita di Gesù il donare se stessi diventa uno dei punti principali dell’atto del donare. Se Dio dona se stesso, i cristiani non possono fare altro che seguire questa strada, questa via. 

 

La cultura cristiana non solo segue temporalmente quella ebrea, ma la porta a compimento. La venuta del Messia, tante volte annunciata e profetizzata, chiude il tempo dell’attesa rinsaldando il legame, messo in crisi dal peccato originale, tra Dio e gli uomini. Così come Abramo offre in olocausto il suo unico figlio Isacco, Dio dona suo figlio per la salvezza dell’umanità.

Donare la vita e donare se stessi sono i punti centrali dell’esperienza evangelica. Se all’inizio – nella genesi – Dio crea la vita e la dona come creazione, con la venuta di Gesù offre se stesso ovvero si fa uomo per la redenzione dell’umanità. Il salto sul piano logico e pratico non è da poco. Dio con Gesù non è più solo Colui che è, che guarda in maniera interessata lo svolgersi della vicenda umana, che manda mediatori come i profeti o i patriarchi, ma interviene in prima persona nella storia culturale dell’uomo. Dio il creatore si fa sostanza umana: la stessa sostanza che ha creato, di cui diventa partecipe e con la quale si identifica.

La nascita del Bambin Gesù porta con sé questa grande novità: Egli è dono e, nello stesso tempo, è l’essersi donato ovvero è dono di se stesso. Questa verità trascendentale sconvolge la logica categoriale poiché mette in crisi la relazione oggettuale, il rapporto tra l’io e l’oggetto, nel senso che il primo diventa, nello stesso tempo, oggetto e soggetto.

E’ oggetto in quanto dono di Dio agli uomini; è soggetto poiché è egli stesso che si dona. Mette in crisi, altresì, il rapporto tra l’io e l’altro che in Gesù si identificano all’interno di un rapporto ambivalente: Egli è figlio ma, nello stesso tempo, è padre. Eppure non sfugge in nessun momento di essere semplicemente figlio. L’altro è il padre e tutta l’umanità.

Questo sdoppiarsi sembra indicare il legame che lega Dio con gli uomini e questi tra di loro. I quattro evangelisti iniziano in maniera del tutto diversa i loro scritti:

  • Matteo lega Gesù al dono generazionale descrivendo la sua stirpe a partire da Abramo;
  • Marco allo stesso modo, lo inserisce all’interno della storia profetica d’Israele facendolo diventare il dono del Signore;
  • Giovanni descrive il dono simbolico facendo riferimento alla origine, alla sostanza di Gesù che in principio era il verbo, era la parola;
  • Luca lo inserisce all’interno della storia del suo tempo.

Gesù è il dono per antonomasia al di là e indipendentemente delle varie letture ed interpretazioni ivi compresi quelli degli evangelisti. Dio si dona facendosi trovare dentro una mangiatoia, diventato ultimo Lui che per definizione è il motore primo della storia umana.

Per i cristiani a Natale finisce il tempo dell’attesa dell’Antico Testamento: è il momento della realizzazione di tutte le profezie. Natale è, comunque, il momento dello scambio dei doni; di fronte al dono accorrono tutti, contraccambiando con quanto possono. La nascita dentro una mangiatoia, se da un lato dimostra che Dio si fa ultimo, dall’altro simboleggia la centralità del dono – Gesù che non ha bisogno di ulteriori sfarzi. Basta Lui a riempire la scena, non c’è bisogno d’altro. E’ dentro la mangiatoia che diventa il centro del mondo tant’è che i re magi partono da lontano per rendergli omaggio.

La suddetta concezione è emblaticamente rappresentata in tutti i quadri della sacra famiglia o in quelli in cui è presente il Bambin Gesù. La luce è emanata dal bambino ed irradia tutte le figure accanto. E’ così nella Natività di Federico Fiori, detto Barroccio, in cui la Madonna viene irradiata dalla luce proveniente dalla culla con il bambino; nella Santa Notte di Antonio Allegri, detto Correggio, nella quale l’adoratrice si mette la mano davanti agli occhi a mo’ di riparo per non essere abbagliata; nella Natività di Piero della Francesca; nell’Adorazione dei pastori di Gherardo Delle Notti, in cui i volti dei pastorelli vengono irradiati dalla luce proveniente dalla culla.

La luce esalta la figura rispetto allo sfondo mettendola in rilevo: è nel gioco delle luci e delle ombre che la materia pittorica prende forma e l’artista può esprimere il suo pensiero. Nella pittura sacra, l’artista esprime la luce divina che viene irradiata dalla stessa figura santa o divina.

San Bonaventura mette in relazione la luce con Dio affermando che Come la luce, Dio è la bellezza di tutte la cose. Se è la bellezza di tutte le cose, essa dona agli oggetti colore, brillantezza, rilievo, li mette al centro della scena. Il Bambin Gesù dona la luce al mondo, così come la sua morte a 33 anni di distanza lo riporta nelle tenebre, per farlo risplendere con la resurrezione. Durante la veglia pasquale si ripete più volte a lume di candela Cristo luce del mondo, mettendo in risalto il dono della luce del Signore.

Un’altra caratteristica della pittura sacra che rappresenta il dono – Gesù è la modalità con la quale la Madonna tiene o meglio non tiene il bambino. La presa è, quasi sempre, innaturale per una mamma: non lo tiene ma lo presenta, lo mette in mostra.

Esempi sono:

  • La Madonna di melagrana di S. Botticelli nella quale è possibile notare che la posizione del bambino è di equilibrio precario, potrebbe cadere in qualsiasi momento. E’ come se il bambino tendesse a scappare. L’indicazione potrebbe rappresentare la risposta di Gesù a Maria quando lo ritrovano nel tempio a discutere con i dottori della legge. Di fronte alle preoccupazioni dei genitori, Gesù risponde: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?
  • La Maestà di Ognisanti di Giotto ripropone la stessa modalità che troviamo in quasi tutte le pitture sacre rappresentanti la Madonna con il bambino.

Gli artisti rappresentano il valore di dono di Gesù che la mamma offre al mondo.

Nella storiografia, nei Vangeli e nelle pitture sacre sono i pastori coloro a cui è annunciata la nascita del Messia, dando, metaforicamente, senso al buon pastore donato per condurre il gregge, per condurre l’umanità verso la giusta via: io sono la via, la verità e la vita.

Dal momento della nascita di Gesù il donare se stessi diventa uno dei punti principali dell’atto del donare. Se Dio dona se stesso, i cristiani non possono fare altro che seguire questa strada, questa via. Donare se stessi vuol dire non solo dare ciò che si ha, ciò che si possiede, ma dare ciò che si è e, in questo modo, fare legame con l’altro.

E. Bianchi sostiene che donare se stessi richiede una convinzione profonda nei confronti dell’altro. U. Morelli afferma:

È nel rispecchiamento con gli altri che costruiamo la nostra identità, fin dalle origini più elementari del nostro essere e della nostra esperienza; […] siamo esseri sociali che fin dalla più elementare costruzione di sé devono ciò che sono alle relazioni che vivono e all’educazione […] Un accesso alla gratuità e al dono è una delle possibilità di favorire le relazioni rispetto all’individualismo e la reciprocità rispetto all’utilitarismo.

Talmente profonda è la convinzione di Gesù dell’altro che, prima della passione, morte e resurrezione, lascia ai suoi apostoli un nuovo comandamento: amatevi gli uni e gli altri come io ho amato voi. E’ la presenza dell’altro che giustifica il donare se stessi.

E’ la comunione, nel senso originario del termine, che lega gli uni agli altri, in un vincolo indissolubile perché fondato sulla sacralità. Gesù conclude la divisione del pane e del vino nell’ultima cena esclamando: fate questo in memoria di me rendendo vivo e perpetuo nel tempo il legame.

La memoria richiama, rende presente, una figura al di là della corporeità perché il legame resta vivo al di là della presenza fisica. La comunione, simbolicamente però, è presenza corporea: questo è il mio corpo mangiatene tutti; questo è il mio sangue bevetene tutti ….. fate questo in memoria di me. Gesù dona il suo corpo, se stesso per legarsi in un tempo infinito che, in quanto tale, è un tempo senza tempo che solo le generazioni e i legami generazionali possono scandire.

Dio vive nel tempo senza tempo, in un eterno presente poiché attraverso il donarsi garantisce il suo esserci. Emblematici per la presenza sono due passi evangelici: dove due si riuniscono nel mio nome, io sarò con loro; tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia chiesa.

L’Ekklesia è la comunità dei battezzati che fanno unico corpo con il loro Signore e fra loro.  La chiesa, nell’accezione di San Paolo, è un corpo vivo che rende visibile la presenza del Signore. Nella prima lettera ai Corinzi scrive:

Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito […] Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.

Tommaso d’Acquino nella Summa Theologica sostiene:

Col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo […] Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da lui veniamo, per mezzo suo viviamo, a lui siamo diretti […] In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti che, attraverso i sacramenti si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso.

La chiesa cattolica ha definito mistico il corpo della chiesa poiché esso è proiettato nel tempo senza tempo ovvero non finisce con la vita, ma continua a vivere nella vita ultraterrena e, quindi, nell’eternità. La comunione è il dono, l’elemento essenziale affinchè ci si senta parte viva del legame che, partendo dall’origine, oltrepassa tutte le generazioni unendole, attraverso la comunione dei santi, in un solo corpo.

E. Scabini e P. Donati sostengono:

E’ il corpo familiare a gestire il tempo. Il corpo familiare si struttura sullo scambio tra le generazioni, su quanto esse si sono fatte e si fanno di bene e di male. Lo scambio è il principio ed esso è governato tanto dall’ordine nel dare- ricevere, quanto dall’apertura amorevole verso l’altro, vale a dire dal dono ().

Cigoli, come vedremo in seguito, mette al centro della clinica del familiare e del sistema simbolico relazionale il corpo familiare.

Ancora San Paolo ci dice che bisogna donare con gioia. Ciò vuol dire che donare se stessi deve essere un atto di amore e non di egoismo e, solo un atto di gioia, può produrre legami profondi. Donare se stessi significa, ancora, una volta rinunciare ai propri interessi, all’utilità, al benessere sia fisico sia materiale, al proprio corpo.

Satana sul monte Gebel offre a Gesù, ricevendo un netto rifiuto, tutti i regni del mondo in cambio della sua ubbidienza. Satana è il portatore del dono avvelenato il quale si manifesta quasi sempre con grande magnificenza e bellezza. E’ così per la mela offerta ad Eva che era la più bella e splendente dell’albero della conoscenza; è così per i regni che vengono offerti a Gesù. Quest’ultimo, stando ai racconti evangelici, sapeva benissimo la sorte a cui sarebbe andato incontro, ma con un atto di profonda fiducia alla sua storia generazionale, rifiuta.

Donare se stessi vuol dire rinunciare. Un altro passo evangelico invita a scegliere: non si possono servire due padroni: Dio e il denaro. Il denaro, a mio modo di vedere, va inteso come simbolo della ricerca della propria utilità, del proprio benessere, della costruzione di una identità che guarda ai propri interessi pulsionali senza guardare all’altro. La ricerca del denaro, l’accumulo di ricchezza serve a dimostrare la propria potenza, a schiavizzare l’altro che diventa solo uno strumento per soddisfare i propri bisogni. La ricerca del denaro è, insomma, l’esatto contrario del donare se stessi come atto di rinuncia alle proprie istanze inconsce. Solo la rinuncia può portare alla formazione di legami.

D’altronde lo stesso Freud teorizza che per costruire i legami la pulsione deve essere inibita alla meta. La libido, liberandosi dalla ricerca del piacere sessuale, viene investita nell’altro inteso come sociale. E. Emmy dedica a questo tema una serie di quadri che hanno come tema conduttore Il ritorno di mammona, di cui mi pregio di aver scritto la presentazione della prima mostra tenuta a Catania presso la Catania Art Gallery. In queste opere l’artista ci porta, come ho scritto nella presentazione, all’interno di un mondo fortemente contrastato, che lei connota sapientemente in un miscuglio di tratti, idee, colori. Mammona porta con sé ricchezza ma non splende di luce. Quello di mammona è un mondo senza sole. In Mammona in volo il cielo rigato di nero crea un forte contrasto con la terra totalmente desolata, abbandonata e abitata da dinosauri. Gli occhi di mammona sono color oro: oro è il simbolo della ricchezza e ciò che attrae. La ricerca del denaro, della ricchezza, del piacere permettono la costruzione, al massimo, di relazioni ma non di legami duraturi, i quali sono possibili solo attraverso il dono. Mammona impersonifica il dono avvelenato che porta verso un mondo lugubre, rappresentato dal nero con il quale la Emmy dipinge sia la Fucina di mammona sia il mare in Mammona in arrivo.

Il dono avvelenato tenta come la mela dell’albero della conoscenza, ma non suscita emozioni come in Vieni, c’è una strada nel bosco in cui le monete fanno perdere colore alla vita per sprofondare nel buio, nel nero, o nella deprimente visione di Vaso con fiori dove i soldi sostituiscono lo splendore dei fiori. In un passo dei Vangeli Gesù ammonisce che è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli. Per entrare nel regno dei cieli si deve donare, e il dono principe è il donare se stessi.

Il dono di Gesù è totale: Egli dona il suo corpo e il suo spirito. Sulla croce dona il suo corpo ma, nello stesso tempo, anche il suo spirito: Padre nelle tue mani rimetto il mio spirito. Credo che non ci sia dono più grande di quello della vita. Donare la vita vuol dire dare la nascita e la morte. L’atto della vita non si esaurisce con la nascita, come comunemente si pensa. La vita, come detto in precedenza, definisce un tempo che è segnato da due momenti: l’inizio e la fine. Non può esistere un tempo senza una delimitazione; se così fosse vivremmo in un tempo senza tempo. Non voglio entrare, in un’analisi del concetto di tempo che ha impegnato e continua a impegnare una moltitudine di filosofi e fisici. Io faccio mia la tesi che il tempo è una esperienza interiore che è magnificamente sintetizzata da Sant’Agostino il quale scrive: Se qualcuno non mi chiede cosa sia il tempo, io so cosa è. Ma se qualcuno mi chiede cosa sia, non lo so più.

Se il tempo è un’esperienza interiore è evidente che inizia con la nascita e finisce con la morte. Dio, quindi, dona la nascita e nello stesso tempo la morte. Per i cristiani la vita è un riparare, un modo per riguadagnare la serenità e la gioia dell’Eden: la morte è solo un passaggio necessario per godere della visione e contemplazione permanente di Dio. La morte non è un momento di dolore, ma la riconquista della felicità perduta se si è vissuti secondo i dettami evangelici. Al contrario, il dono della morte diventa avvelenato ovvero si va alla perdizione eterna. In ambedue i casi non finiscono i legami, poiché finisce la vita ma non l’esistenza.

I legami non si dissolvono senza la presenza perché è possibile richiamare quest’ultima attraverso la memoria. Le generazioni esistono perché l’esistenza non finisce con la morte e quindi è possibile richiamarne la presenza attraverso la memoria.

Gesù, nel donare se stesso, dona il suo corpo e la sua morte. Il corpo è il luogo della sofferenza: durante la passione viene martoriato e martirizzato, ma non c’è un momento in cui lo spirito venga intaccato. Mantiene la necessaria lucidità sia durante il martirio che sopra la croce. Egli sa che è la strada che deve percorrere per ritornare dal padre. Sulla croce potrà finalmente esclamare, prima di spirare, tutto è compiuto, non prima di aver per –donato i suoi aguzzini. Perdona perché sa bene che loro gli hanno donato la morte, ovvero il ricongiungimento con il padre. Finalmente dopo la resurrezione potrà risedere al suo posto.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Agostino, (Sant), (2000). Le confessioni, Roma: Città Nuova.
  • Bianchi, E., (2012) Dono senza reciprocità, Lezione Magistrale Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo
  • Cigoli,  V.  (2006), L’albero della discendenza. Clinica dei corpi familiari. Milano: Franco Angeli
  • Morelli, U., La svolta simbolica e il valore del senso Noi, infanti simbolici, sulla soglia dell’immateriale. Available here.
  • Scabini,  E., Greco, O., (1999), Dono e obbligo nelle relazioni familiari, in Gasparini, G. (a cura di) Il Dono tra Etica e Scienze Sociali, Roma: Edizioni lavoro, 1999
  • Scabini, E., Rossi, G., (2000), Dono e Perdono nelle relazioni familiari e sociali. Milano: Vita e Pensiero
  • Scabini , E., Donati, P., (1988) La famiglia lunga del giovane adulto : verso nuovi compiti evolutivi  Milano : Vita e pensiero
  • Tommaso D’acquino (San), Summa Theologiae, Cinesello Balsamo: San Paolo Edizioni, 1999
  • Elsa Emmy, nasce a Linguaglossa (CT) il 1935 e dopo l’infanzia e l’adolescenza vissute nel suo paese natale si trasferisce a Catania intraprendendo la sua attività di giornalista, scrittrice, pittrice e saggista. La sua vita è contraddistinta dall’anticonformismo. Svolge la sua attività lavorativa, sociale e politica in difesa dei diritti delle donne e degli ultimi. Se si dovessero scegliere due termini per definirla sarebbero sicuramente: anticonformismo e coraggio. Anticonformista poiché fu una delle prime ragazze catanesi ad indossare i pantaloni e nel 1952 iniziò presso il giornale La Sicilia l’attività di giornalista e reporter, mestiere non proprio adatto in quei tempi ad una donna. Le sue battaglie politiche e sociali nella Catania di quei tempi sono tutte rivolte alla difesa degli ultimi e delle bellezze artistiche. Coraggio poiché non ha mai, neanche per un attimo, rinunciato alle sue battaglie e alle sue idee, dimostrando un rigore morale unico. E’ stata comunista nel momento in cui era difficile essere comunista. Si è convertita al cattolicesimo quando le chiese si stanno spopolando. Nell’uno e nell’altro caso non si è risparmiata nel combattere le sue battaglie. L’anticonformismo e il coraggio sono caratteristiche tipiche della sua famiglia di origine. Il papà fu il primo Sindaco del dopoguerra del comune di Linguaglossa. Per svolgere tale incarico rinunciò all’incarico di tecnico dello stesso comune e, quindi, alla fine del suo mandato fu costretto a svolgere l’attività libero professionale. Sicuramente una scelta non in linea con il pensiero dominate nel dopoguerra. Un suo zio Vescovo di Trapani, Carlo Maria Raiti, contraddistinse il suo ministero per una dura lotta alla massoneria nella diocesi di sua appartenenza. Inoltre, fu bollato come antipatriota per la sua lettera pastorale del 1915, Perché si abbia la pace, in cui si scagliava, unendosi all’appello di Benedetto XV, alla inutile carneficina della grande guerra. Siccome riceviamo dalle generazioni precedenti, attraverso il dono, i valori che contano, ecco dove trova linfa l’opera di Elsa Emmy. Questo essere anticonformista e ribelle si trova intatto nelle sue opere, tant’è che i critici hanno trovato difficoltà nel catalogarla all’interno di una corrente di pensiero. Qualche critico l’ha definita una post surrealista. Le sue opere a prima vista sembrano incomprensibili ed ermetiche. Ciò che risalta è il contrasto: i colori, i giochi di ombre vengono sapientemente utilizzati per creare e suscitare grandi contrasti. Spesso in primo piano ci sono colori abbaglianti, forti e pieni di luce su sfondi di colori scuri e senza luce. Sembra di trovarci all’interno dell’eterna lotta tra bene e male, tra tenebre e luce, tra paure e gioie, ma nello stesso tempo esprimono la speranza e la fiducia che il bene vince sul male, e la luce illuminerà le tenebre. L’anticonformismo e il coraggio trasmesso lungo i passaggi generazionali in fondo non fanno altro che alimentare la fiducia e la speranza di poterci liberare dal buio delle tenebre e che tutte le catene in fondo possono essere rotte.
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