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Il dono nella cultura ebraica: la fiducia e la speranza nell’attesa

Il legame tra Dio e l’uomo infonde fiducia e speranza e il vuoto dell’attesa si riempie con ciò che viene trasmesso dalle generazioni precedenti

Di Mariano Indelicato

Pubblicato il 03 Dic. 2019

L’ebraismo è un sistema di vita in cui tutti i momenti sono vissuti sul piano religioso. Non vi è, infatti, nessuna distinzione tra religione e cultura ebraica poiché quest’ultima più che essere una ortodossia è una ortoprassi ovvero un sistema di codici etici e sociali scritti nelle tavole della legge.

 

D’altronde, l’ebraismo nasce con l’esodo dall’Egitto nel momento in cui Dio dona le tavole della legge a Mosè. La Torà è composta da cinque libri (il pentateuco) frutto del dono profetico ricevuto da Mosè che in contatto mistico con Dio li compilò. Il primo libro tratta della genesi dell’universo e dell’uomo, i quali sono un dono di Dio. In effetti, il legame tra Dio e il mondo è contraddistinto dal dono gratuito senza nessun tipo di ricompensa.

Tale relazione contraddistingue la cultura ebraica da tutte le altre culture ovvero il donare non presuppone nessuna ricompensa o ricambio. Ciò che Dio si aspetta è l’assoluta ubbidienza soprattutto da parte dell’uomo che ha creato a sua immagine e somiglianza e lo mette subito alla prova nel giardino dell’eden ponendolo di fronte all’albero della conoscenza, del bene e del male. L’uomo sceglie il dono del male rappresentato dal serpente e ciò comporta la sua caduta dall’Eden.

Ecco il dono malefico, ingannevole, velenoso come frutto del male che, nella cultura ebraica, si contrappone al bene che risiede in Dio. Contrapposizione che non riguarda Dio poiché egli precede il male essendo il creatore di tutte le cose compreso il male personificato da Satana. D’altronde è il serpente creato da Dio che offre la mela ad Eva.

Il dono di Dio, quindi, è un dono buono mentre può essere velenoso quello che viene da Satana e dallo scambio tra gli uomini. Un’altra caratteristica del dono di Dio è che esso prevede la rinuncia. Eva dovrebbe rinunciare alla bella mela offerta dal serpente, Adamo dovrebbe rinunciare all’offerta di Eva così come Abramo deve rinunciare alla sua casa, alla sua terra, a suo figlio di fronte all’offerta di Dio. Se l’uomo saprà rinunciare così come ha fatto Abramo potrà entrare in stretto contatto con Dio, potrà fare legame con Dio. Abramo rinuncia alla sua casa, alla sua terra, a suo figlio per dare compimento al progetto di Dio e riceve in dono una nuova casa, una nuova terra, una nuova generazione che per la sua età non avrebbe potuto più avere.

Mosè, il grande condottiero, scelto per portare il popolo ebreo dall’Egitto nella terra promessa, deve rinunciare ed è costretto a guardare da lontano la terra d’Israele. Il popolo liberato nel deserto deve rinunciare al vitello d’oro per avere le tavole della legge. Chi non rinuncia, Caino, è costretto ad errare nel deserto, a vivere in assenza di legami anche se guadagna la vita. Ecco il segreto: si deve rinunciare per guadagnare. Gli uomini che non intendono rinunciare cadono dalla torre, costruiscono su pilastri precari poiché la vera forza sono i legami.

Nel Libro dei Numeri viene descritta la pena a cui sono sottoposti coloro che non hanno saputo rinunciare costruendo il vitello d’oro. Essi sono costretti a girovagare nel deserto per 40 anni e molti di loro non vedranno la terra promessa. Ida Magli sostiene che il rito della circoncisione comporta la perdita di una parte che assomiglia ad una parte femminile. Il rituale della circoncisione che serve a stabilire il patto con Dio, indipendentemente dal giudizio della Magli, comporta la rinuncia ad una parte del prepuzio e sul piano simbolico sembra richiamare la rinuncia necessaria per stabilire il legame con Dio. La circoncisione, inoltre, deve essere praticata inesorabilmente l’ottavo giorno dopo la nascita e il numero 8, secondo la tradizione ebraica, richiama simbolicamente ciò che va oltre il naturale. Il maschio attraverso la circoncisione va oltre il naturale avvicinandosi a Dio contribuendo a perfezionare la natura.

Dio, spesso, nell’Antico Testamento viene visto come iroso, vendicativo, irascibile, etc. Al contrario, nella Torà si hanno molteplici esempi del perdono di Dio. Perdona Adamo ed Eva, andandoci a parlare subito dopo la caduta, perdona Abramo restituendogli il figlio Isacco, perdona l’umanità durante il diluvio universale salvando Noè e tutte le specie animali e vegetali, perdona Mosè per aver rotto le tavole della legge facendogli vedere la terra promessa, e cosi via. Essendo l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, Giuseppe perdona i suoi fratelli che lo avevano venduto agli egiziani. Il termine perdono letteralmente significa donare completamente la vendetta e, quindi, è un dono rafforzato. Nella concezione ebraica è il dono di Dio per non rompere il legame con l’uomo e, di conseguenza, è il dono da offrire anche per fare legame tra gli uomini.

V. Pavoncello ipotizza che si ravvisa nella creazione stessa, nel suo continuo essere creata, un atto di grazia e un incessante perdonare e, quindi, si può immaginare un Dio perdonante nella sua essenza creatrice. Chiaramente se vi è il perdono, deve esserci un preesistente stato di colpa, che egli individua nei primi istanti della creazione nel momento in cui nelle cose create vi era una mancanza di essenza, ovvero di presenza di Dio che si librava solamente nelle acque. E’ per farsi perdonare questa mancata presenza che ritorna sulla Terra popolandola di tutte le specie animali e vegetali, e dividendo le acque dona l’asciutto.

Anche in questo caso il perdonare comporta la rinuncia ovvero rinunciare al senso di onnipotenza e scoprire le proprie imperfezioni. E’ quello che mette in atto Giuda, fratello di Giuseppe, che si offre al posto del fratello Beniamino come ostaggio sentendosi in colpa per il rapimento e la vendita. Pavoncello, nel cercare di confermare l’assenza dalla Terra, mette in risalto il valore dell’acqua, intrisa della presenza di Dio, nella cultura ebraica.

Il dono dell’acqua è l’essenza purificatrice: tutti i riti di purificazione avvengono attraverso l’acqua. I pozzi contenenti il dono prezioso dell’acqua sono i luoghi dell’incontro dove nascono anche nuovi amori, ma oltre a liberarci dall’arsura possono anche avvelenarci mettendo in rilevo che il dono ha un doppio effetto liberatorio o nefasto. Dio si serve dell’acqua per purificare ma anche per punire come nel diluvio universale.

Un’altra caratteristica del dono nella cultura ebraica è l’attesa di un evento che dovrà avvenire in un tempo non definito. L’attesa messianica, ovvero di un tempo in cui l’agnello potrà tranquillamente convivere con il lupo, può essere definita come la fiducia trascendentale che la speranza non sarà delusa.

Adorno sostiene che il pathos del dono stia tutto nell’attesa. La cultura ebraica ha riempito e continua a riempire questo vuoto con la fiducia e la speranza che saranno contraccambiati da Dio. A. Luzzato avverte che l’errare degli ebrei in cerca della terra promessa è legato, da un lato, alla colpa per aver tradito il giuramento ai piedi del monte Sinai e, dall’altro, alla fiducia e alla speranza che la dispersione finirà in un tempo di restaurazione che sarà contraddistinto da giustizia e pace. O. Di Grazia sostiene che la fiducia e la speranza legate all’attesa risiedano non tanto in quello che dovrà avvenire ma in ciò che è avvenuto. E’ il legame tra Dio e l’uomo, che troviamo sin dal primo rigo della Genesi, che infonde fiducia e speranza. Il vuoto dell’attesa, quindi, si riempie con ciò che viene trasmesso dalle generazioni precedenti che giustifica la speranza e la fiducia. Di Grazia nel suo articolo si chiede quando l’attesa finirà che cosa succederà, si esaurirà la speranza come forza redentrice? A questa domanda risponde no perché la speranza e la fiducia risiedono nel legame con l’altro ovvero nel rispetto dei dettami della Torà.

Fiducia e speranza sostengono la relazione, ed essendo quest’ultima predeterminata come sostiene Cigoli, sta alle generazioni passate trasmetterle. Il dono, l’atto del donare, trova la necessaria linfa nella fiducia e nella speranza che si esplica nei passaggi generazionali. Scabini e Cigoli ne Il famigliare sostengono che

il dono è inteso come espressione di un atto fiduciario; all’origine di un nuovo legame vi è un open gift, un’apertura di credito che, se ricambiata con un altro dono, che è in genere non equivalente, ma migliore, dà luogo a una relazione sociale – ed ancora – il dono ….. è una caratteristica del legame incondizionato: il legame familiare si alimenta di azioni che prestano fiducia all’altro ed ha alla sua origine un quid gratuito.

La famiglia, una comunità, vive nella misura in cui può sperimentare il tempo dell’attesa che si riempie delle azioni tipiche dell’atto del donare così come individuate da Mauss dare, ricevere, ricambiare. Il tempo dell’attesa è un tempo psicologico che se riempito dalla fiducia e dalla speranza porta benefici come la costituzione del legame sociale e relazionale; al contrario, la mancanza di fiducia e speranza comportano la morte della relazione e/o la patologia.

Un brillante esempio letterario c’è lo dà Elizabeth Jane Howard ne Il tempo dell’attesa nel momento in cui fa dire alle piccole Clary e Polly:

Il fatto è che se una madre perde un bambino può sempre averne un altro, ma di madre invece ognuno ne ha una soltanto.

Dalla biografia dell’autrice sappiamo che da piccola le era morta la mamma e che il padre era dedito alle belle donne e addirittura molestò la stessa figlia (dono avvelenato trasmesso dalle generazioni precedenti). La Howard si sposò giovanissima per scappare dal padre e ben presto lasciò sia il marito che la figlia nata dal matrimonio. Da quel momento ebbe molti uomini e mariti. Il dono avvelenato proveniente dalle generazioni precedenti non dà fiducia e speranza nelle relazioni sia di carattere coniugale che genitoriale. La vita apparentemente dissoluta della Howard trova spiegazione proprio nel dono avvelenato ricevuto.

S. Parise, a tal proposito, mette in risalto che per Freud il senso dell’attesa ovvero il tempo psicologico è legato alla fuga dal dispiacere:

… tanto piu frustrante è il momento che si vive, tanto più lunga e I’attesa della sua fine. Al contrario, il tempo sembra fermarsi nell’attimo in cui il desiderio trova il suo oggetto.

M. M. Khan sostiene:

Attendere fa parte della natura dell’uomo. Da tempo immemorabile l’uomo attende qualcuno, o con devozione attende a qualcuno: una divinità, un dio, una persona amata (…). Gli enigmi e i paradossi dell’attesa sono fra le creazioni più nobili della mente e dell’animo dell’uomo. Tutti coloro che hanno intrapreso grandi viaggi negoziano l’attesa (…). L’attesa è l’esperienza cruciale di chiunque cerchi di costruirsi i propri strumenti per sperimentare se stesso e gli altri. L’attesa, la lunga attesa, può essere salute e può essere malattia. Colui che attende trova. La non-attesa garantisce la non-scoperta….

Penelope nella sua lunga attesa non perse mai la fiducia e la speranza di ritrovare il suo amato marito Ulisse. Il senso dell’attesa, quindi, sono la fiducia e la speranza, che trova i suoi riscontri all’interno delle trasmissioni generazionali.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Adorno, T.  (1951), Minima Moralia. Meditazioni sulla Vita Offesa . Suhrkamp, Frankfurt am Main (trad. it. di Renato Solmi, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994)
  • Di Grazia, O., L’attesa Messianica. Available here.
  • Howard, E.  J., (1991) Il Tempo dell’ Attesa, Roma: Fazi editore.
  • Khan, M. M.,  (1992) Trasgressioni, Torino: Bollati Boringhieri.
  • Luzzato, A., (2003),  Il posto degli ebrei, Torino: Einaudi
  • Luzzato, A., (1999),  Leggere il Midrash, Brescia: Morcelliana
  • Parise, S., (1989), Il senso dell’attesa. Available here.
  • Pavoncello, V., (2006), In principio fu il perdono, in La Rassegna Mensile di Israel Vol. 72, No. 1 (GENNAIO - APRILE 2006), pp. 91-110
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