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La natura rappresentazionale dello schema maladattivo interpersonale

Gli schemi interpersonali maladattivi fanno il loro gioco, fin quando non ne siamo consapevoli li subiamo e i risultati saranno gli stessi

Di Virginia Valentino

Pubblicato il 15 Nov. 2019

La natura rappresentazionale dello schema è il giro di boa per la differenziazione. È imparare a distinguere il passato che torna sottoforma di altre scene con nuovi attori, nuove voci, nuove azioni, nel presente.

 

Terzo anno di scuola di specializzazione. Portai un caso in supervisione. Un paziente, lo ricordo ancora oggi, I., impiegato in banca, simpatico, sempre molto composto, un drop-out preannunciato nella mia testa, non si smuoveva e restava ancorato, nonostante ormai lo conoscesse a fondo, al suo schema. Agiva guidato da esso. Mesi di terapia connotati dal “non posso” e “non è il momento”.

Il supervisore dell’epoca mi chiese io come mi sentivo in seduta con lui. Ricordo ancora che eravamo in cerchio, in classe, ed a quella domanda mi risistemai sulla sedia rossa alla ricerca di una posizione che potesse aiutarmi a identificare l’emozione ricorrente. Risposi con un secco “Beh, come vuole che mi senta!?…sono impotente…non posso fare niente…non so che fare” agitando le braccia in segno di protesta. Tutta roba complessa ma, immediatamente chiara, non appena mi rivolse un’altra domanda: “impotente, ok…impotente…come quando?” Lo guardai e provai vergogna perché non afferrai subito. Anche qui: “ti stai vergognando…come quando?” E poi ecco. Vedo me stessa a 13 anni che, invece di pensare a come trascorrere le vacanze di Natale con le amiche, mi affanno a gestire situazioni troppo più grandi di me senza che le azioni servissero davvero a qualcosa. Vedo le cose andare per conto loro nonostante il mio impegno. Vedo la non accettazione dello stallo e la repulsione dei giorni sempre uguali. Vedo l’impotenza in una sera d’inverno. E poi vedo me stessa, a 8 anni, umiliata aspramente davanti a tutti dalla maestra perché avevo commesso un errore. Un 9×7 che proprio non voleva fare 63.

Eccole spiegate le emozioni: l’impotenza nella terapia e la vergogna in classe.

Con un sorriso e la voce tremolante alzai gli occhi e gli dissi: “ok, ora ho capito…il mio schema e quello del paziente si incastrano”. A quel punto tornammo sul caso di I., incapace a progettare, creare, sentirsi libero. Sentiva solo la costrizione del dover fare quello che gli altri volevano. Una costrizione spesso reale, a volte sentita.

Rividi il mio paziente dopo due giorni da quella supervisione e, dopo un episodio con il solito esito della rinuncia, gli chiesi: “ok, non può farlo, si sente impossibilitato, inetto…ok…lo capisco….ma incapace….come quando?”.

Ed ecco il sipario che si apre. Le luci sono quelle anni 80 nelle discoteche in cui si ballava Gimme! Gimme! Gimme! degli Abba. Luci scintillanti proiettate ovunque dalla Mirrorball. Gli attori sono i suoi più cari amici ed il fratello. Pare facesse molto caldo quella sera di luglio e voleva tanto gettarsi in pista, farsi vedere da A. e magari portala a bere un drink. Tutto possibile fin quando la voce del fratello non spunta chiara sottolineando la sua incapacità, il suo essere sciocco e stupido. Una voce che lo ridicolizza. Un viso che esprime disappunto.

Dopo di questo, le memorie associate ci portano all’estate dei 12 anni in cui invece di un giro in bici con i compagni bisognava aiutare il padre nel ridipingere la staccionata, non senza umiliazioni continue, quando piuttosto che scegliere come gestire l’afa di agosto, bisognava adeguarsi ad un qualcosa di già scritto e deciso. Da altri, ovviamente, che non si risparmiavano dal notare quanto fosse incapace nel fare quello che avrebbe voluto fare. Sappiamo bene che tutto ciò è l’abbattimento dell’autonomia e dell’esplorazione.

Ecco cosa si intende per natura rappresentazionale degli schemi interpersonali. È il giro di boa per la differenziazione. È imparare a distinguere il passato che torna sottoforma di altre scene con nuovi attori, nuove voci, nuove azioni, nel presente. È l’amico che incarna un fratello sprezzante, il cameriere che sembra avere le movenze di una madre, il docente che sembra avere gli occhi austeri di un padre.

Una sezione sostanziosa dell’albero decisionale della TMI (Dimaggio et al., 2013; Dimaggio et al., 2019) si rivolge proprio a questo processo, per aiutare il paziente a riconoscere l’attivazione degli schemi interpersonali ed a sentirli collocati nel tempo oppure a vederli ripresentarsi nel qui e ora provando a conferirli un significato diverso.

Per poter fare questo, le tecniche immaginative, esperienziali, drammaturgiche sono molto utili per accedere ai ricordi prima e per poterli ridipingere, attraverso i rescripting, all’interno delle sedute. C’è infatti la possibilità di affrontare un padre, un fratello, un capo o di invitare una A. a bere una birra portando l’attenzione a come ci si sente mentre si immagina tutto questo. C’è la possibilità di ribaltare i piani di azione che sembrano già scritti in tutti gli aspetti automatici e procedurali dello schema maladattivo interpersonale (Dimaggio et al., 2019) Infatti, a tutto questo, segue la fase della promozione del cambiamento in cui, dopo aver rivisto, eventualmente, il contratto terapeutico, il paziente si impegna a scrivere un presente che sappia meno di passato.

Nel caso di I. si è trattato di provare a sentirsi inetti, ma anche efficaci. È stato provare a sentirsi schiacciare da un padre controllante e contemporaneamente a difendersene. È stato sentire che tutti gli altri incarnano quel determinato attore del passato ma ricordarsi che non è detto che sia così nel qui e ora.

Fin quando non ne siamo consapevoli lo subiamo. Lo schema, intendo. Fa il suo gioco. Con tutta la sua potente natura procedurale fatta di stati corporei e viscerali, emotivi, cognitivi che catapultano in determinati stati mentali e in pattern di azioni. E fin quando non le sfidiamo queste azioni correlate agli schemi interpersonali maladattivi, i risultati possono essere gli stessi.

Ci tengo sempre molto a sottolineare come un’abilità sia utile per il paziente ma anche per noi terapeuti. Ovviamente pure noi proviamo emozioni, stati fisiologici, assetti mentali interni legati ai nostri schemi personali. Questi vanni conosciuti, affinando le capacità di regolazione di essi, per evitare che possano condurci ad azioni anti-terapeutiche o all’innesco di cicli interpersonali problematici. Con I., infatti, avevo più volte pensato di dilazionare i nostri incontri, poi ho capito che ero io che, non riuscendo a tollerare la sua incapacità a cambiare effettivamente le sue azioni, e che questa era una roba tutta mia, facevo fatica a stare in seduta e oscillavo tra il disinvestimento e l’eccesso di sprono verso il nuovo, troppo precocemente, inducendo in lui emozioni negative e minando la relazione terapeutica.

Ecco perché, da quella supervisione, spesso mi chiedo “come quando?” ed ormai anche alcuni dei miei pazienti hanno imparato a farlo.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale. Raffaello Cortina Editore.
  • Dimaggio, G., Ottavi, P., Popolo, R., Salvatore, G. (2019). Corpo, immaginazione e cambiamento. Raffaello Cortina Editore.
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