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Mindfulness orientata alla relazione – Report dalla giornata di formazione

Report dalla giornata di formazione sulla Mindfulness orientata alla Relazione, un'occasione per mettersi in gioco, non solo come terapeuti..

Di Virginia Valentino

Pubblicato il 17 Ott. 2019

Come ci sentiamo quando siamo in relazione con un’altra persona? Cosa si prova ad essere un sé-con-l’altro? Siamo poco abituati a chiedercelo, vero. Eppure, se ci pensiamo un attimo, oltre ad essere fondamentale osservarlo nel nostro lavoro di terapeuti, basato proprio sulla relazione, lo è in riferimento alla nostra natura di esseri umani sociali.

 

Siamo impegnati quasi tutto il tempo in relazioni con gli altri ma il pilota automatico ci fa dimenticare di esserlo e, quando siamo soli, siamo coinvolti in relazioni immaginate, ricordate, temute, desiderate ma anche questo sembra essere un processo dimenticato.

Nella giornata di formazione sulla mindfulness orientata alla relazione il pilota automatico l’abbiamo cercato di contrastare e ci siamo impegnati più e più volte a rispondere a quella domanda iniziale. Che si prova a stare di fronte a qualcuno? Cosa si smuove dentro di noi quando parliamo e ci guardiamo negli occhi a vicenda? Quando ascoltiamo le storie di vita degli altri? Cosa si prova quando siamo vicini ma, senza neppure parlare né toccarsi, sentiamo che l’altro c’è?

Durante una breve meditazione, il docente del corso, Paolo Ottavi, ci ha fatto stare del tempo, non saprei quantificarlo, uno di fronte all’altro e ricordo che, quando ci ha chiesto di sentire l’altro pur restando con gli occhi chiusi, ho sorriso. Credo di aver sentito immediatamente le spalle rilassarsi, le mani morbide e ho ascoltato il respiro. Il mio, certamente, ma anche quello della persona che mi era difronte. Per quanto potesse disperdersi tra tutti gli altri respiri, lo riuscivo ad identificare. Non c’era bisogno di parole o di gesti, eravamo interconnesse! Finita la meditazione interpersonale io sono tornata ad essere io, estranea a tutto ciò che mi stava intorno, ma ne ero consapevole.

Dopo ogni meditazione, la condivisione o inquiry rappresenta un momento importante almeno tanto quanto quello della pratica, perché consente di identificare con chiarezza quello che accade durante la meditazione in termini di pensieri ed emozioni e la reazione mentale collegata ad essi. Ed è, ogni volta, una sorpresa perché affiorano contenuti soggettivi e personali. Mai per nulla scontati. Mai banali. Io, ad esempio, ho rivisto la mia tristezza accolta dall’altro. Accettata e tollerata. L’ho vista presentificarsi in tutto il suo inevitabile spazio mentale. L’ho vista grazie all’altro connesso con me. Un altro con il suo sguardo ed il suo respiro, evidente dal petto che si alzava e abbassava ritmicamente. Ho accolto, vicendevolmente, l’ansia e la preoccupazione senza dover passare all’azione. Quest’ultimo aspetto non è ovvio perché spesso tendiamo al fare, ad agire mente la mindfulness, invece, ci ricorda costantemente la modalità dell’essere, uno stato mentale fatto di consapevolezza, accettazione, non giudizio.

All’interno delle relazioni sembra essere particolarmente difficile da coltivare perché bombardati dai nostri pensieri personali assieme a quelli che coinvolgono l’altro e, in presenza di un disturbo di personalità la complessità cresce in modo esponenziale.

Le relazioni sono degli incontri di storie, di vite, di emozioni. Spesso le rappresentiamo come danze complesse. In termini tecnici sappiamo che sono permeate da cicli interpersonali. Noi psicoterapeuti lo vediamo bene nelle sedute coi pazienti. Narcisisti, evitanti, borderline sono un territorio ricchissimo per osservare come facilmente si possa scivolare in cicli ostili o rabbiosi.

Ognuno di noi ha i propri modi di funzionare nel mondo, dei sistemi motivazionali più attivi rispetto ad altri e alcuni hanno dei veri e propri schemi interpersonali maladattivi. Quando questi si agganciano ad altri schemi, altri funzionamenti, ad altrettanti pensieri, emozioni, credenze e strategie di coping, lì le cose possono complicarsi. Il meccanismo è semplice: gli schemi provocano l’emergere di stati mentali dolorosi ricorrenti, abbastanza specifici per ogni disturbo di personalità. Gli stati mentali dolorosi, a loro volta, spingono a mettere in atto strategie di coping per ridurne l’intensità. Ma spesso e volentieri il rimedio è peggiore del male: da un’emozione negativa si giunge ad un sintomo e all’innesco di cicli interpersonali disfunzionali. Così il dolore aumenta. E le relazioni si deteriorano, provocando altra sofferenza. Alla base di tutto, diversi livelli di funzionamento metacognitivo: se sono consapevole della mia reattività a certe situazioni relazionali, posso evitare di farmi condizionare dagli schemi. E non innescare ricorsivamente cicli interpersonali disfunzionali.

A cosa può servire la mindfulness, allora? Uno degli scopi principali è quello di gestire lo stato mentale problematico che precede la messa in atto di coping disfunzionali i quali possono generare o amplificare la sintomatologia e rendere particolarmente complesse le relazioni. Sono soprattutto le strategie cognitive perseverative che preparano il terreno all’azione: ruminazione, worry, pensiero desiderante ci illudono di lenire il dolore correlato allo schema ma, a lungo andare, amplificano l’emotività negativa (Valentino, 2019). Nel testo Corpo, immaginazione e cambiamento (Dimaggio et al., 2019) questo è spiegato molto bene. Gli autori illustrano come nei disturbi di personalità, soprattutto, il contenuto di questi coping sia di tipo relazionale. Ruminazioni sul capo umiliante, sulla ex fidanzata fredda, sul padre ostile.

Oltre alle strategie di coping perseverative, che incrementano le emozioni, vi può essere la distrazione o la dissociazione, strategie basate sull’evitamento cognitivo che producono il temporaneo spegnimento dell’attivazione emotiva.

La mindfulness aiuta, nello stesso tempo, a non evitare il dolore e a non focalizzarsi su di esso con le ruminazioni. Insegna, attraverso l’aggancio ai sensi, a stare con quello che c’è, anche se doloroso e problematico e poi a lasciarlo andare, spostando volontariamente l’attenzione. Il risultato sarà uno sganciamento dalla tendenza ad azioni nocive, una maggiore tollerabilità del dolore o degli stati mentali problematici, ed una riduzione di coping cognitivi e comportamentali. Praticamente maggiore agency e mastery più fini. Ultimo ma non ultimo, anche una riduzione dei sintomi: se rumino di meno non cado in depressione; se rimugino e monitoro di meno, abbasserò i livelli d’ansia.

La mindfulness orientata alla relazione aiuta a fare tutto questo online, nel vivo dell’incontro con l’altro. Sentire cosa c’è nel corpo e nella mente, osservarlo senza agirlo, è il risultato auspicabile. Effettivamente è una vera e propria pratica da coltivare: chi di noi è, infatti, capace di sentire sempre quali sensazioni ci sono nel corpo, proprio a livello enterocettivo, quando l’amica non risponde al telefono oppure quando un tipo ci taglia la strada?

Paolo Ottavi e i colleghi del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale hanno messo a punto un programma mindfulness based, il MIMBT (Metacognitive Interpersonal Mindfulness-Based Training) che è un intervento mirato a ridurre i coping cognitivi attivanti e a migliorare il funzionamento metacognitivo (Ottavi et al., 2019). Non è una terapia a sé stante, ma un modulo da applicare all’interno di una terapia individuale. Esso si svolge in gruppo, in 9 incontri più uno individuale e unisce un lavoro sulle strategie di coping cognitive interpersonali, un lavoro sugli schemi interpersonali ed uno sullo stare in relazione con consapevolezza. Questo è possibile attraverso meditazione sugli schemi, meditazioni interpersonali formali e informali e, infine, unisce le tecniche attentive per l’autoregolazione emotiva nel vivo della relazione. Essendo sempre in un territorio targato TMI, tutto questo non può che essere strettamente collegato alla formulazione condivisa del funzionamento.

Il vero nucleo del programma sono le pratiche interpersonali e le meditazioni sullo schema interpersonale. Le prime si svolgono a coppia. Si cerca di portare un’attenzione costante e curiosa al proprio stato interno durante la relazione: un momento di vicinanza fisica, lo scambio di narrazioni neutre oppure cariche emotivamente, osservare lo sguardo dell’altro. Come si fa ad essere meta-consapevoli durante l’interazione? Come nelle meditazioni di consapevolezza ordinarie, ci serve il corpo. Mentre stiamo di fronte all’altro, mentre lo ascoltiamo, finanche mentre gli parliamo, una piccola quota di attenzione rimane ancorata alle sensazioni fisiche. Quelle che provengono dai piedi o dalle mani, dalla postura o dal respirare. È tutto qui il senso delle pratiche interpersonali nel MIMBT: rimanere centrata su di me anche quando, davanti all’altro, vengo inghiottita nella danza relazionale. L’incontro con l’altro chiama in causa il “noi”, dove le individualità necessariamente si eclissano. Ma è sempre un bene perdere il senso di sé in uno scambio interpersonale? Talvolta no, e allora giova reimpossessarsi del proprio centro, cioè il corpo. Provateci: parlate con un vostro collega e, contemporaneamente, o a intervalli frequenti, portate una quota di attenzione consapevole ai vostri piedi. Il tutto senza perdere le informazioni della comunicazione. E poi notate l’effetto che fa.

Le meditazioni sullo Schema Interpersonale sono differenti; si tratta di esplorare in maniera mindful i propri e altrui stati mentali presenti in una scena dolorosa ricordata. Si prende un fotogramma, quello a più alta intensità emotiva, di un episodio schema-correlato. Si scende in profondità nell’immagine, il passato diventa l’oggi e ci si chiede: cosa sto provando? Quali pensieri mi passano per la mente? Come mi sento nel corpo? Cosa vorrei fare? Cosa vorrei che l’altro facesse? E poi ci si trasferisce per un po’ nella mente dell’altro: cosa starà provando l’altro? Cosa starà pensando? Quali sono i suoi desideri? Infine si esce dall’immagine e la si guarda da lontano. Poi la si lascia andare e si assapora ciò che resta, positivo o negativo che sia. Se ci sono giudizi, li si osserva e li si lascia andare. Suonano i cimbali e finisce la meditazione, ma nella condivisione emergono mille esperienze diverse e tutte interessanti.

Tutto questo è tanto importante per il paziente in terapia ma anche per il terapeuta stesso. È, infatti, un assetto mentale che dovrebbe essere una costante per noi terapeuti impegnati nella seduta, per favorire anche maggiore sintonizzazione con il paziente. Inoltre, familiarizzare con la mindfulness permette al terapeuta di accedere a un mondo di preziosissime tecniche attentive, in cui l’aggancio ai sensi favorisce l’autoregolazione emotiva. Potete trovarle nel manuale (Dimaggio et al., 2019) oppure attendere il prossimo post dedicato espressamente ad esse.

In quanto corso mindfulness, questa è stata la giornata della consapevolezza. Della scoperta. Del non giudizio. Certe cose hanno bisogno solo di essere osservate. E, di fatto, torno a casa in un viaggio in macchina in cui il mio respiro, i miei piedi e le mie mani mi hanno ricordato che c’ero, nel momento presente, aiutandomi a sguazzare dentro di me, esplorando pensieri, emozioni, sensazioni corporee, accettazione e compassione. Poi lascio andare…o, quanto meno, ci provo!

 

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