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Non ho capito: la cannabis fa male oppure no?

Molti i dibattiti aperti e le questioni irrisolte riguardanti l’uso della cannabis. Un recente articolo, apparso su Nature, ne presenta una breve rassegna

Di Enrica Gaetano

Pubblicato il 11 Set. 2019

Nonostante vi siano evidenze sempre più frequenti sui benefici della cannabis, soprattutto nella pratica medica-terapeutica per la riduzione del dolore cronico, permangono ancora molti dibattiti aperti e questioni irrisolte riguardo l’utilizzo della sostanza..

 

Nonostante una sempre più crescente mole di ricerche evidenzi i benefici della cannabis, utilizzata prevalentemente a scopo ricreativo, nella pratica medica-terapeutica per la riduzione ad esempio del dolore cronico, sono ancora molti i dibattiti aperti e le questioni irrisolte riguardo l’utilizzo di questa sostanza: qual è il limite massimo per il suo uso e quali sono i componenti specifici dei cannabinoidi che interagendo esacerbano i suoi effetti dannosi sulla salute psicofisica dei suoi consumatori? Un recente Outlook di Emily Sohn, apparso recentemente su Nature, ne presenta una breve rassegna.

Cannaibis: un male o una cura?

La cannabis non rappresenta né il male oscuro per eccellenza né la cura ottimale per qualsivoglia malattia o problema: detto questo, a parere di Andrew Monte, medico tossicologo dell’università del Colorado, è necessario che sia i governi e che gli individui o pazienti che ne fanno uso siano il più possibile consapevoli dei suoi benefici ma anche dei rischi che si corrono, i primi nel legalizzarla e renderla così disponibile a tutti, i secondi nell’assumerla (Shon, 2019).

Un occhio più attento agli studi epidemiologici che hanno indagato nello specifico gli effetti nocivi della cannabis ha mostrato come, a seguito della legalizzazione della cannabis da parte del governo del Colorado, tra il 2012 e il 2014, la percentuale di ricoveri ospedalieri per dolori addominali, problematiche cardiovascolari e gastrointestinali e per diagnosi di disturbi psichiatrici sia notevolmente aumentata tra gli individui che aveva assunto cannabinoidi rispetto a quelli che si erano astenuti dal farlo (Monte, Zane et al., 2015).

In aggiunta all’analisi di Monte e colleghi (2015), Wang, Lait e colleghi (2016), in uno studio pubblicato su JAMA pediatrics, hanno riscontrato un’ulteriore allarmante problematica associata al consumo di cannabinoidi, cioè un incremento dei ricoveri per episodi di avvelenamento accidentale tra la popolazione pediatrica, al di sotto dei due anni di età, che ha avuto accesso ai reparti ospedalieri di competenza nella regione di Aurora, Colorado.

La popolazione che appare più a rischio medico a seguito dell’assunzione di THC (tetraidrocannabinolo), il principio attivo della cannabis,  è quella dei giovani adulti senza patologie pregresse; sembra infatti che questa sia particolarmente vulnerabile allo sviluppo di malattie sia fisiche che psichiatriche nel lungo periodo, in quanto il THC presente nella cannabis, una volta inalato o ingerito, si legherebbe ai recettori cerebrali dei cannabinoidi alterando l’umore, la memoria, l’appetito e la percezione del dolore, alterazione che tende a persistere anche a seguito dell’interruzione della sostanza (Sohn, 2019).

Cannabis: quale differenza tra consumo frequente e saltuario?

Generalmente gli studi che si occupano della presenza di tali conseguenze nocive sul lungo periodo prendono in considerazione i cosiddetti consumatori “pesanti” di questa sostanza, cioè coloro che ne fanno un uso regolare – almeno tre volte a settimana –  e massiccio in termini di quantità.

Questa modalità e frequenza d’uso è stata altresì associata ad una riduzione dei punteggi nei test cognitivi per la valutazione di alcune funzioni menestiche, attentive, di pianificazione e di decision making.

A tal proposito, una review di Broyd, van Hell, Solowij e colleghi (2016) ha evidenziato un peggioramento delle prestazioni in compiti di memoria e apprendimento verbale in un gruppo di giovani “sani” che aveva interrotto il consumo di cannabis da diversi mesi.

In aggiunta alla riduzione di alcune specifiche capacità cognitive che potrebbero compromettere di conseguenza alcune attività quotidiane come ad esempio la guida di automobili, uno fra i maggiori rischi presenti tra i consumatori di cannabis è la “slatentizzazione” precoce di sintomi psicotici e schizofrenici, soprattutto in quei giovani adulti che presentano una predisposizione genetica a tali patologie e che fanno un uso frequente di cannabis ad alto dosaggio di THC.

A supporto di tale associazione, un recente studio di Di Forti, Freeman e colleghi (2019), pubblicato su The Lancet Psychiatry, confermerebbe l’ipotesi di un ruolo causale, non meramente associativo, tra l’uso di cannabis e lo sviluppo di sintomi psicotici in una popolazione di 900 individui che ha avuto accesso ai reparti psichiatrici di ospedali in varie regioni europee per il trattamento di un esordio psicotico.

Il rischio si andava ad amplificare di cinque volte a seguito di un utilizzo giornaliero di cannabis ad alto dosaggio di THC.

Un ulteriore dato a favore delle modifiche a lungo termine associate all’utilizzo di cannabis proviene dallo studio di neuroimaging di Filbey e colleghi (2016), i quali hanno mostrato una riduzione della risposta dei recettori per i cannabinoidi ad alcuni stimoli di ricompensa in un gruppo di giovani che sono stati cronici consumatori di cannabis, suggerendo come un utilizzo prolungato della sostanza possa favorire un decremento della motivazione alla ricerca di altri stimoli di ricompensa, nel caso dello studio rappresentati dalle interazioni sociali, e possa determinare un effetto di tolleranza alla sostanza stessa tale per cui gli individui sentono il bisogno di una maggior quantità di cannabis per tenere alti i loro livelli appetitivi e di ricompensa.

Quest’ultimo punto risulterebbe centrale per l’eziologia di un disturbo da uso di sostanze in cui sono presenti comportamenti compulsivi di ricerca della sostanza, un anedonia indotta per quelle attività prima piacevoli oltre che una compromissione del funzionamento sociale (APA, 2013).

Legalizzazione della cannabis: uno sguardo alla ricerca

A detta dei maggiori esperti del campo, una maggiore disponibilità e accessibilità alla sostanza a seguito della sua legalizzazione, aumenterebbe non solo il rischio di un suo consumo prolungato che potrebbe favorire lo sviluppo di una dipendenza, ma aumenterebbe soprattutto il rischio di un consumo precoce nelle popolazioni adolescenziali, al di sotto dei 16 anni. Gli asolescenti, ancora in fase di sviluppo cerebrale, vedrebbero compromesse alcune loro funzioni cognitive legate in special modo all’inibizione degli impulsi e alla rievocazione mnestica. (Sohn, 2019).

Cannabis ad uso teraputico e dosaggio di THC

Non è attualmente disponibile un dosaggio di THC che assicuri l’evitamento totale dei rischi sopra citati e che possa di conseguenza essere usato a scopo terapeutico.

La sua concentrazione nel dosaggio sembra infatti essere il fattore centrale da tenere in considerazione quando si parla di “cannabis ad uso terapeutico”: in un trial randomizzato controllato, Solowiy e colleghi (2019) hanno evidenziato come una bassa concentrazione di CBD (cannabidiniolo) fosse in grado parimenti di aumentare gli effetti tossici di THC soprattutto per un gruppo di soggetti che non sono mai stati consumatori di cannabis. 

Al contempo nell’analisi di Solowij (2019) vi sono evidenze circa la riduzione degli effetti psicoattivi del THC a seguito di un’alta somministrazione di CBD ad un gruppo di individui consumatori, come se il CBD avesse degli effetti protettivi sul loro sistema nervoso.

Ma quindi la cannabis è dannosa oppure no?

A fronte di questi dati, sorgerebbe spontaneo domandarsi se effettivamente la cannabis sia dannosa o sia, in alcune circostanze, terapeutica.

Nonostante alcune compagnie che si occupano della distribuzione della cannabis si facciano porta voci di un effetto palliativo della sostanza promettendo con speranzosi aneddoti una riduzione del doloro cronico, degli stati di stress e una facilitazione del sonno per coloro che soffrono di varie tipologie di insonnia, le evidenze che si possiedono attualmente non consentono di rispondere a questa domanda in modo chiaro e preciso

A parere degli esperti tossicologi in materia, i dati a disposizione non supportano l’uso terapeutico della cannabis per il trattamento delle malattie fisiche eccetto alcune forme di epilessia infantile e disturbi muscolari caratterizzati da frequenti spasmi.

A onor del vero, sarebbe al contempo sbagliato demonizzare la cannabis: come non ci sono prove scientifiche atte a dimostrare i suoi effetti benefici per alcune tipologie di malattie, non esistono prove volte a dimostrare la sua causalità per alcuni tipologie di infiammazioni o varietà di tumori (Sohn, 2019).

Earl Miller, neuroscienziato al Picower Institute for Learning and Memory del MIT di Boston, sarebbe convinto che un suo uso moderato possa essere la soluzione migliore a questo spinoso dibattito, così come si tende a fare per il consumo di alcol.

Ciò che realmente è rilevante all’interno di questo ambito è tentare di capire genuinamente quali siano i pattern di attivazione cerebrale, le alterazioni cognitive e comportamentali che si ravvedono nei consumatori, accumulando quanti più dati possibili e accedendo a tutti i prodotti contenenti cannabis attualmente disponibili per i consumatori.

Per concludere, si sa che una specifica modalità d’uso della cannabis risulta potenzialmente rischiosa e arreca danni rilevanti ma si è ancora lontani dal capire con esattezza quali siano i suoi meccanismi che determinano le compromissioni a livello delle funzioni esecutive.

 

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