Ogni cosa che impariamo a riconoscere, che sia essa un oggetto con determinati forme e colori, che sia animato o inanimato o che sia un volto, in qualche modo va a modificare il nostro cervello.
In particolare sembrerebbe che un’ampia gamma di stimoli visivi possieda di diritto il suo “posto” e la sua elaborazione all’interno del cosiddetto “flusso visivo centrale”, cioè all’interno di un processamento gerarchico che si estende dalla corteccia visiva primaria alla corteccia temporale ventrale (VTC), in cui è presente una localizzazione cerebrale corrispettiva per ciascun stimolo visivo (Janini, & Konkle, 2019).
Come il nostro cervello apprende a vedere
Già negli anni ’80 lo studio di Ungerleider (1982) aveva mostrato come le risposte di VTC fossero necessarie affinché si concretizzasse l’abilità di riconoscimento visivo resa possibile grazie ai suoi pattern di risposta distribuiti che contengono informazioni circa oggetti e categorie e che ne rendono quindi possibile la loro percezione dal momento che le risposte delle sue specifiche zone sono corrispondenti alle categorie stesse (Parvizi, Jacques, Foster et al., 2012).
Grazie alle attuali tecniche di neuroimaging funzionale siamo in grado di misurare come il cervello nel corso del tempo, grazie all’esperienza, abbia imparato ad organizzare tutti gli stimoli visivi che vede e che provengono dall’esterno e a modificarsi plasticamente sulla base di essi con il fine di realizzare le abilità di riconoscimento visivo.
Le origini di queste abilità infatti sembrano essere particolarmente legate alle esperienze e a ciò a cui il bambino è esposto durante l’infanzia, anche se permangono ancor’oggi numerosi dubbi riguardo la natura specifica delle esperienze infantili che di fatto consentirebbero l’organizzazione funzionale gerarchica della topografia spaziale di VTC. Da un punto di vista neuro scientifico, non sappiamo se ad essere determinante sia il modo in cui vengono visualizzati gli stimoli quali volti o luoghi o se invece siano gli attributi visivi, l’immagine stessa degli stimoli (Janini & Konkle, 2019).
Diversi tentativi teorici sono stati elaborati per cercare di individuare i principi che descrivessero lo sviluppo dell’organizzazione topografica spaziale nelle aree visive; tuttavia quello che sembra rimanere inerente a tutti questi è l’idea che le dimensioni fisiche o percepite dello stimolo esterno vengano mappate su una dimensione fisica specifica lungo la superficie corticale associata all’elaborazione visiva (Gomez, Barnett, & Grill-Spector, 2019).
Esperienze visive precoci: lo studio fatto su persone che seguivano il cartone Pokèmon
Un’altra questione rimasta irrisolta riguarda quale caratteristica dell’informazione visiva “costringa” lo sviluppo e la topografia dell’organizzazione cerebrale della corteccia visiva.
Al fine di dare una risposta a tutte queste questioni rimaste senza risposta poc’anzi descritte, Jesse Gomez, Barnett e Grill-Spector, appartenenti al dipartimento di Psicologia dell’Università della Pennsylvania e collaboratori al programma di neuroscienze della Stanford University School of Medicine, in uno studio recentemente pubblicato su Nature Human Behaviour, hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale su un gruppo di soggetti adulti che da bambini hanno avuto un’esperienza visiva prolungata nel tempo con il videogioco dei Pokemon.
La scelta di utilizzare le immagini dei Pokémon è stata legittimata dal fatto che questi rappresentano una categoria unica di stimoli in quanto, contrariamente ad oggetti, luoghi o volti, non possiedono un corrispettivo nel mondo esterno e pertanto i loro attributi e caratteristiche, come ad esempio le loro dimensioni in un ambiente reale, possono soltanto essere inferiti, nonostante in qualche modo assomiglino ad animali presenti nel mondo reale e siano anche’essi animati (Janini & Konkle, 2019).
Ciò li ha resi degli stimoli particolarmente adatti per comprendere se una prolungata esperienza individuale ad essi durante i giochi d’infanzia risultasse poi in una nuova rappresentazione in VTC presente nel cervello adulto e se la localizzazione di questa risposta potesse essere predetta da una specifica dimensione visiva dell’immagine del Pokémon (Gomez, Barnett, & Grill-Spector, 2019).
Lo ricerca ha confrontato le evidenze di fMRI ottenute su due gruppi di partecipanti adulti, il primo maggiormente esperto nel gioco, che tra i 5 e gli 8 anni è stato esposto in modo prolungato e costante ad esso, e l’altro “non esperto” composto dallo stesso numero di adulti con la medesima età ma che non hanno mai avuto modo di giocare con i Pokémon da bambini.
Tutti i soggetti dei due gruppi sono stati sottoposti ad un compito di valutazione visiva tramite l’osservazione di 8 immagini per ciascuna categoria quale volti, corpi, pseudo parole, cartoni animati, Pokemon, auto e corridoi, all’interno dello scanner.
Le immagini funzionali ottenute hanno mostrato come la precoce e prolungata esperienza visiva al gioco dei Pokemon abbia determinato nelle regioni del solco occipitotemporale (OTS) del cervello adulto dei cambiamenti su larga scala: nel gruppo degli esperti, durante il riconoscimento visivo dei Pokemon, OTS ha infatti manifestato maggiormente risposte selettive a tale categoria rispetto al gruppo “non esperto”.
Ciò ha potuto far concludere che una prolungata esperienza durante l’infanzia potrebbe aver innescato l’emergere di una nuova rappresentazione in VTC per una nuova categoria di oggetti (i Pokemon) supportata da una consistente topografia funzionale (Gomez, Barnett, & Grill-Spector, 2019).
I risultati dello studio
In secondo luogo, per quanto riguarda il diverso peso del contributo di specifici attributi dell’oggetto nel determinare lo sviluppo e l’organizzazione su larga scala della corteccia visiva, le evidenze ottenute hanno messo in luce come la visione di un Pokemon di ridotte dimensioni sia stato l’unica fattore in grado di predire la localizzazione in modo preferenziale di tale categoria in un’area specifica della corteccia rispetto ad altri attributi dei pokémon quali la loro curvatura, forma o animazione (Gomez, Barnett, & Grill-Spector, 2019).
In conclusione dello studio e sulla base dei suoi risultati, è possibile desumere in due punti fondamentali le ragioni dell’esistenza di un’area cerebrale (OTS) selettiva per il riconoscimento selettivo dei Pokèmon e di una determinata funzionale organizzazione topografica spaziale.
Innanzitutto, a parere degli autori, ciò che noi osserviamo potrebbe essere intrinsecamente associato ad un bias retinico di eccentricità per il quale ad esempio giocare a pokèmon su uno schermo piccolo da bambini determinerebbe anche la comparsa di quest’ultimi in dimensioni ridotte a livello cerebrale perché precedentemente comparsi su una piccola porzione della nostra vista.
Ne consegue che oggetti di differenti dimensioni hanno differenti bias di eccentricità sulla base dei vincoli fisici attraverso i quali noi interagiamo con loro.
In seconda battuta, sarebbero i bias di eccentricità a determinare lo sviluppo di una localizzazione preferenziale delle aree associate a specifiche categorie.
Vista e sistema visivo: l’importanza delle prime esperienze
Infatti dai primi stadi del processamento visivo, alcune regioni cerebrali elaborano le informazioni che si sono posizionate al centro dello sguardo e altre quelle più periferiche; successivamente queste “distorsioni” retiniche passerebbero anche nella corteccia visiva in cui si realizza la rappresentazione dell’oggetto.
Lo studio di Gomez e colleghi ha infatti sottolineato come lo sviluppo dell’area cerebrale selettiva per i Pokèmon sia avvenuto nella corteccia precisamente nella zona in cui provengono le informazioni retiniche cadute nel centro dello sguardo, non a caso accanto a quella selettiva per i volti, mentre quelle adibite per la rappresentazione di scene in corteccia sono localizzate più in periferia (Janini & Konkle, 2019).
I dati di questa ricerca illustrano come siano cruciali e potenti le esperienze visive precoci nel determinare l’organizzazione del nostro sistema visivo agendo sulla malleabilità e plasticità del sistema stesso e come la modalità con la quale vediamo ed interagiamo con uno stimolo esterno durante l’infanzia influenzi lo sviluppo e la localizzazione della rappresentazione dello stesso nel cervello.
Da queste conclusioni ne deriva la possibilità che la mancata condivisione di determinati stimoli tra soggetti durante l’infanzia a causa di una malattia, di una deprivazione o di differenze culturali, possa produrre da adulti un’atipica o unica rappresentazione di quegli stimoli, generando disabilità sociali o nell’apprendimento.