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Not just right experience – Un racconto di fantapsicologia

Il vissuto della difettualità nascosta ma insanabile si diffondeva fino a coinvolgere lei stessa, la relazione col marito, tutta la famiglia

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 19 Apr. 2019

Aggiornato il 09 Apr. 2021 14:46

La signora Lina ha appena terminato il caffè che avvia la giornata. Squilla inaspettato il campanello della porta…

 

La tenda a grandi fiori gialli della finestra di sala è gonfiata dalla corrente d’aria con la porta di casa aperta per accogliere la raccomandata RR dal postino, che invece di consegnare rapido la missiva dallo spiraglio e dileguarsi verso altre minacciose consegne di multe, chiede di firmare i numerosi indispensabili moduli che autodichiarano che si è proprio se stessi, che l’esistenza in vita è momentaneamente garantita e che oggi è proprio oggi sul calendario gregoriano e siamo esattamente sulla soglia della abitazione che ci appartiene per successione dal povero babbo, come risulta dai documenti di provenienza custoditi dal notaio Bollettini; sventola come una bandiera durante l’intrepido assalto all’arma bianca di un drappello suicida di fanti e sembra avvolgere volontariamente e voluttuosamente il vaso sull’architrave del cammino contenente le ceneri di zia Alfonsina e con decisione ribaltarlo sul pavimento.

La signora Lina con nelle orecchie il colpo secco dell’infrangersi del vaso soffoca una antica bestemmia di origine parentale (è figlia di due toscani) e richiude bruscamente la porta alle spalle dell’incolpevole, fin quando la pignoleria non sarà una colpa, postino. Ha sempre odiato quel macabro ricordo dell’odiosa e tirchissima zia Alfonsina alla cui assistenza Artemio, orfano e da lei cresciuto, aveva dedicato i primi anni del loro matrimonio trascorsi tra la scelta e la gestione di transitorie badanti di tutto il terzo mondo, pannoloni pisciati e minestrina da imboccare nei loro giorni di riposo.

Artemio avrebbe sicuramente colto l’occasione del crash urnare per rimproverarla della sua disattenzione, trascuratezza per la casa ed in particolare per il menefreghismo (peraltro vero, consapevole ed esibito) verso le cose cui lui teneva.

Insomma il piccolo incidente domestico sarebbe diventato un casus belli di cui non si sentiva alcun bisogno in quel burrascoso e forse preterminale periodo della loro vita di coppia.

Il tappeto Kilim e il sottostante parquet di mogano del Niger avevano attutito il colpo e l’urna si era divisa in soli tre grandi frammenti dai margini piuttosto netti. Un tempo non avrebbe voluto che segreti si frapponessero tra lei e Artemio, ma questo quando lui era “il suo Artemio” e lei “la sua Lina”. Ormai il territorio del “non detto” era sconfinato e popolato di segreti più o meno grandi e persino di vere e proprie menzogne con l’attenuante di essere a fin di bene, per quieto vivere, perché l’altro non potrebbe capire e la spiegazione troppo faticosa e inutile.

Un vaso rotto si poteva aggiungere tranquillamente a questa moltitudine, accomodandosi tra la troppo prolungata stretta di mano del preside e l’assegno a suo fratello minacciato dagli usurai. L’operazione avvenne sul tavolo della cucina che poteva essere più facilmente ripulito. La colla “Artiglio” dopo aver tenuto pressate l’un l’altra le superfici precedentemente ripulite dalla polvere o meglio dalla cenere per il tempo indicato sul tubetto giallo tigre e anche un tantinello di più per eccesso di scrupolo, restituì un vaso perfetto soprattutto dopo che Lina approfittò dell’occasione per pulirlo a fondo con un panno leggermente inumidito che usava per gli schermi dei video di casa. Se per un motivo lo si sarebbe notato non sarebbe stato certo per le due sottilissime crepe come capelli che lo percorrevano longitudinalmente ma semmai per lo splendore, da tempo perduto, dei mesti colori. Se il funebre vaso faceva parte dello skyline casalingo e l’occhio poteva talvolta soffermarcisi, certamente mai nessuno dal momento della sua chiusura si era mai interessato al contenuto e dunque??? Nonostante ciò Lina aveva pensato, superando il disgusto di raccogliere le ceneri utilizzando delicatamente il suo pennello per la cipria e di rimetterle nell’urna, se ne sarebbero perse tra le fughe del parquet non più del 10%, l’equivalente di un braccio di zia Alfonsina, ma il grosso sarebbe tornato compatto ad aspettare il momento della resurrezione trionfale della carne. Solo allora la mancanza del braccio sarebbe stata notata, ma tutti sarebbero stati in quel frangente occupati a rifarsi il trucco e la cosa sarebbe passata inosservata. Ci si poteva stare. La caduta sul tappeto rendeva però il progetto impraticabile. Il folletto aspirò la vecchia zia in un attimo e dopo un breve trasporto senza troppe cerimonie del sacchetto in bagno lo sciacquone diede l’ultimo saluto alla taccagna. Pensò anche di lasciar cadere sull’acqua del fondo un petalo di rosa ma il senso del ridicolo ebbe il sopravvento.

Nei giorni seguenti Lina non staccava gli occhi di dosso al vaso per esaminare dalle varie prospettive possibili se fosse visibile ciò che solo lei sapeva esserci: una insanabile frattura che lo rendeva nella sostanza irrimediabilmente diverso da ciò che era stato. Provando un brivido che forse era il motivo per cui lo faceva, chiedeva ad Artemio, Livia e Andrea se vedessero qualcosa di strano. Né il marito, né i figli adolescenti notavano alcunché e si interrogavano tra loro sentendosi colpevoli su quale fosse il cambiamento in mamma che avrebbero dovuto cogliere. Passarono in rassegna l’abbigliamento, il taglio e il colore di capelli nonché lo smalto delle unghie, tutti i particolari su cui in genere davano prova di colpevole disattenzione verso di lei. I due maschi si raccomandavano soprattutto a Livia che normalmente segnalava a tutti i particolari per cui mostrare di default sorpresa e, alcune volte (per non esagerare perdendo di credibilità) entusiasmo. Il fatto che nessuno si accorgesse di nulla rassicurava moltissimo Lina che tuttavia serbava dentro di sé l’idea che il vaso all’apparenza perfetto fosse difettato in modo irrecuperabile.

Il vissuto della difettualità nascosta ma insanabile si diffondeva fino a coinvolgere lei stessa, la relazione col marito, tutta la famiglia. La mattina quando si rigirava nel letto in attesa di alzarsi le sembrava che il danno coinvolgesse l’universo intero, che tutto fosse semplicemente reincollato e celasse una frattura definitiva, orribile, irrecuperabile. Qualunque ulteriore intervento di restauro anche professionale cui aveva pensato non poteva riportare indietro il tempo: l’era del vaso rotto era iniziata lasciando per sempre alle spalle quella dell’integrità.

Nella sua ricerca di rassicurazioni e contemporaneamente di quel brivido eccitante che provava all’idea di essere scoperta si spingeva sempre oltre chiedendo a Ileana, la donna di servizio ex badante di Alfonsina, di lucidare energicamente l’urna sperando e temendo contemporaneamente e con la stessa intensità che le si sgretolasse tra le mani davanti alla famiglia riunita. Si sarebbe liberata del suo segreto e certamente la fantasia di Artemio detto “l’omnisciente” perchè non accettando di non sapere qualcosa, trovava spiegazioni pseudoscientifiche per ogni evento, avrebbe sicuramente spiegato l’assenza al suo interno delle ceneri della stronza vegliarda. L’idea di questa imperfezione profonda e irrimediabile, avrebbe detto poi il suo inutile psicoanalista, le ricordava l’irreversibilità del tempo che passa e dunque la sua perduta, forse sprecata gioventù.

Andrea, il più sensibile ai cambiamenti di umore della mamma, la sentiva così distante e assorta nel suo mondo interiore che iniziò a pensare che avesse un amante e nonostante gli sembrasse impensabile e disgustoso si mise a frugare nel suo cellulare e nella cronologia del suo computer. Se amante c’era doveva trattarsi di un restauratore o di un antiquario o di un qualche conduttore televisivo di trasmissioni per bambini tipo “Art attack” per i numerosi tutorial sul “bricolage di riparazione e manutenzione degli oggetti casalinghi e sulla resistenza dei materiali che aveva trovato.

Il trenta gennaio, giorno del loro anniversario di matrimonio che per come le cose stavano precipitando lasciava sospettare fosse l’ultimo da celebrare sotto lo stesso tetto, lo skyline di casa al risveglio appariva nettamente cambiato: sul camino al posto dell’urna c’era un meraviglioso centenario olivo bonsai ritorto e avvinghiato ad un masso intrappolato tra le sue radici. Artemio annunciò che aveva voluto trasformare quel promemoria di morte in un segno di vita acquistando un olivo bonsai della stessa età della zia e mischiando le sue ceneri alla terra del vaso. Ora la zia avrebbe avuto nuova vita e si sarebbe reincarnata nelle minuscole foglioline. Indugiando troppo a lungo con lo sguardo su Lina come a comunicargli un segreto disse che l’operazione per non sporcare l’aveva compiuta in garage ma il vaso era così sigillato e duro che aveva dovuto romperlo a martellate per recuperare le ceneri. Disse che sembrava di acciaio, aggiungendo un “incredibilmente” di troppo che Lina immaginò rivolto a lei. I cocci li aveva ammassati sotto il tagliaerba rotto e arrugginito che andava anch’esso buttato. Lina però sapeva che quei cocci erano difettati e avrebbero contaminato per colpa sua l’intera discarica di Malagrotta, tutta l’AMA e la stessa città eterna.

Il parroco Padre Isidoro, rispettoso delle regole, si rifiutò di celebrare in chiesa il funerale di una donna che tutti sapevano suicida e fu proprio L’AMA, il servizio comunale dei rifiuti ad occuparsi della cremazione e dello smaltimento delle ceneri considerato che nessuno le aveva richieste. Già il 30 gennaio dell’anno successivo entrarono in casa i nuovi inquilini che ritenendo il bonsai una violenza sulla natura spostarono la piantina in garage esattamente accanto al tagliaerba, l’avrebbero fatta buttare insieme a quei cocci dall’AMA appena possibile.

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