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La mia vita per l’inconscio (2007) di Aldo Carotenuto – Recensione del libro

La mia vita per l'inconscio di Aldo Carotenuto ripercorre la vita, il pensiero e la carriera di un grande psicoanalista italiano.

Di Alessandro Raggi

Pubblicato il 18 Feb. 2019

La mia vita per l’inconscio di Aldo Carotenuto è un testo del 1996, alla sua prima ristampa nel 2007: risulta quanto mai opportuna questa riedizione della vita di uno dei più grandi psicoanalisti italiani di sempre..

 

Per Aldo Carotenuto la vita di uno psicoterapeuta, i suoi tormenti, le passioni, i ricordi, le scelte culturali, non possono essere una variabile tra le tante: ma rappresentano – assieme al relativo potere della tecnica – quella sostanza difficilmente riproducibile in serie che conferisce spessore al lavoro psicologico. La disponibilità costante a trasformarsi nell’incontro con l’altra sostanza, portata dal paziente, è per l’autore la vera e unica possibilità di cambiamento e guarigione, che deve essere sempre reciproca, come rammenta Jung con il suo “mysterium coniunctionis”.

La mia vita per l’inconscio: protagonista del suo mondo

La casa di Aldo Carotenuto, nei pressi di Piazza Bologna a Roma, era una fucina di produzione culturale e intellettuale in costante produzione: sempre affollata di persone, intellettuali, letterati, medici, giovani tirocinanti intenti a sistemare l’indefinita vastità dei libri che ne riempivano ogni angolo, in lungo e in largo. Un mare di sapere, una dimora-biblioteca nella quale Carotenuto, con la maestria di un consumato navigatore a vela dell’era pre-web, aveva la capacità di rintracciare il testo esatto a vista e recuperare in esso il capoverso al quale riferirsi o ispirarsi a seconda del tema che si stava trattando in quel momento.

Quel districarsi agile tra volumi, manoscritti, opere e autori, contribuiva a renderlo ai nostri occhi di allievi, ancor più meritevole dell’attenzione che già sapeva catturare con quella fiducia nelle risorse di ciascuno che non mancava mai di esprimere: sempre delegante, stimolante, curioso, mai puntiglioso, costantemente disponibile nel valutare con interesse le proposte che gli venivano portate. Irriverente, poco incline ai rituali e alle formalità accademiche, prediligeva il coinvolgimento alla deferenza, la condivisione all’ossequio. Negli anni ’90 era già un mito vivente, dopo le ricerche e le pubblicazioni degli inediti carteggi tra Freud, Jung e Sabina Spielrein che costrinsero a una rivisitazione pressoché totale della storia delle origini della psicoanalisi e dunque della psicoterapia. Carotenuto guardava sempre l’interlocutore negli occhi, e il suo non era uno sguardo di circostanza: bensì una tangibile ricerca dell’altro. Molte di queste sue caratteristiche, così come la notorietà internazionale, l’incredibile partecipazione alle sue lezioni, le aule gremite di gente, non gli resero sempre facile la convivenza nelle istituzioni collegiali e tra i suoi stessi colleghi.

La mia vita per l’inconscio: la clinica può venire solo dall’esperienza soggettiva

La mia vita per l’inconscio, testo del 1996, è un condensato nel quale, in poche scorrevoli pagine, Carotenuto si «denuda» (pag.7) senza particolari reticenze. L’autore decide di farci entrare nella sua dimensione interiore, rivelando assieme a molti dettagli della sua vita, soprattutto le motivazioni profonde delle proprie scelte. Il registro linguistico utilizzato è confidenziale, semplice, schietto, più asciutto del Carotenuto che si mostra in altri saggi, rimanendo pur sempre vivo e stimolante nel proprio inconfondibile modo di scrivere e raccontare. Questa lettura può spiazzare, persino tutt’oggi, per l’incisiva franchezza con cui l’autore racconta del suo distinguere tra «pubblico e pubblico» (pag. 12): quello degli studenti e dei lettori, il suo «vero pubblico» – e l’altro, quello di chi si adopera per fare della «conoscenza un sapere dogmatico che nega altri saperi» e ha come fine il mero mantenimento di una posizione di potere. Chi proclama una presunta superiorità, nascondendo unicamente le proprie brame autoritarie basandosi su assunzioni assiomatiche, viene affrontato dall’autore con sfrontatezza e senza troppi giri di parole.

Aldo Carotenuto si è speso sempre, come è evidente in questa autobiografia, perché le istituzioni che detengono il sapere come forma di autorità si ponessero in un atteggiamento di autocritica: di ricerca curiosa «sempre soddisfatta e mai sazia al tempo stesso» di quella verità in costante trasformazione che egli stesso, in altri lavori, preferiva definire “itinerante”. D’altronde il suo pensiero si è formato attraverso l’incontro con personaggi (per lui le letture erano “reali” incontri con gli autori) altrettanto irriverenti e al tempo stesso consapevoli delle umane ombre, quali Dostoevskij, Kafka, Pasolini, Marx, Freud, Jung. Lo sforzo autobiografico, che privo di falsa retorica egli stesso non esita a collocare in un bisogno narcisistico, nasce dunque con l’intento di mostrare – ancora una volta – quanto sia l’esperienza soggettiva a dar vita alle teorie psicologiche e quindi alla clinica che ne deriva e quanto sia poco concreta e lontana dai fabbisogni dell’individuo quella psicologia che si fonda, invece, sulla clinica derivante dalla sperimentazione in laboratorio, o dalla pura teoria.

La mia vita per l’inconscio: curarsi del proprio e altrui disagio

La tematica che scelgo di sviluppare, di anno in anno, nei mei seminari universitari, nasce sempre dall’esigenza di sondare aree perturbanti e sconosciute del mio stesso mondo interno, e credo sia questo a decretare la peculiarità delle lezioni e la fervida adesione del mio uditorio…(pag. 10).

Leggere l’autobiografia di Aldo Carotenuto, tra riferimenti artistici, letterari, storici, è cosa ben diversa dallo studiare la vita di uno scienziato – che potrebbe essere del tutto irrilevante al fine della comprensione del lavoro di quest’ultimo – in questo caso, invece, la biografia coincide con il contenuto del compito stesso dello psicoterapeuta. Per Carotenuto, sulla scia di Jung, è impensabile occuparsi del disagio psicologico senza che il terapeuta stesso si interroghi

sul senso e sul valore dell’esistenza – d’altronde – ciò significa che il disagio, o quanto meno l’inquietudine, è una condizione fondamentale del nostro lavoro. Se venisse a mancare, cadrebbe non tanto la motivazione a portarlo avanti, quanto la disponibilità̀ di energie da spendere in esso. (pag.23).

Non mancano le memorie del disagio di essere nati poco prima della seconda guerra mondiale, le rievocazioni delle paure e delle indecisioni, della malattia che lo segnò fin da molto giovane, dell’amore, del travaglio lavorativo, della propria introversione, di quanto in definitiva

la ferita, (…) può determinare un risveglio psicologico che ci induce a sperimentare livelli più profondi di consapevolezza. (…) avvenimenti particolarmente gravosi, che le analisi che ho successivamente intrapreso mi hanno aiutato a comprendere e a superare (pag.24).

Ecco che alcuni dei concetti chiave dell’opera di Carotenuto, il “tradimento”, la “trasgressione”, assumono una prospettiva differente se osservate alla luce della sua vita:

se “trasgredire” significa essere fedeli a sé stessi e non ai manuali o alle “istruzioni per l’uso”, confesso di aver molto trasgredito (pag.28).

La mia vita per l’inconscio: non si può stabilire la tecnica migliore

Un altro motivo caro all’autore, quello dell’indimostrabilità della superiorità di una tecnica rispetto all’altra, si inscrive esattamente in questa visione dell’uomo e della psicoterapia. Il lavoro terapeutico opera un processo di trasformazione – e di guarigione – non attraverso l’asettica applicazione di un metodo, ma grazie alla persona dell’analista, che ha compiuto a sua volta un analogo e altrettanto sofferto cammino per il cambiamento. Per questo Carotenuto, così come Jung soleva ricordare di non volere seguaci “junghiani”, si definiva «“un analista”, senza una particolare connotazione di scuola.» (pag. 28); dato che

non si tratta di aderire e conoscere questo o quel modello teorico, che nella maggioranza dei casi non ha alcuna validità, ma è l’atmosfera che si riesce a creare tra due persone (paziente e analista) che diventa il vero fattore trasformativo.

Tali posizioni erano, e sono ancora, particolarmente avverse agli addetti ai lavori, che spesso si trincerano dietro i dogmatismi delle proprie ortodossie “scientifiche” «per impedire che si riconosca la loro nullità». (ibidem).

Il mancato appiattirsi sulla moda della ricerca sperimentale, della prova di efficacia da fornire in laboratorio – che egli riteneva irrealizzabile – esponeva Carotenuto a critiche feroci e non di rado distruttive. Anche perché, sosteneva (e tollerava) l’idea che anche il terapeuta potesse essere portatore di una ferita – l’importante era che avesse speso tempo e impegno nel tentativo di sanarla – e come rammentava parlando di sé stesso: «non mi sono mai preoccupato di nascondere la “psicopatologia” dell’analista».

È nel richiamo costante alla “tensione creativa”, che Carotenuto incentra il suo discorso sulla possibilità, per sé stesso, come per il paziente, di «trasformare la realtà̀ e di reimmaginare il mondo» (pag. 76) ed è in questo accostamento tra creatività e psicoterapia, che egli situa, senza possibilità di fraintendimenti, il lavoro terapeutico: più vicino al mondo artistico che a quello scientifico. Nondimeno

l’espressione della propria dimensione creativa nasce sempre da un atto trasgressivo, da un tradimento. Se non siamo né angeli né demoni, ma semplicemente uomini, lo dobbiamo all’atto trasgressivo dei nostri mitici progenitori (pag. 89).

Lo sguardo della psicoterapia per Carotenuto, come da questo volume emerge con chiarezza, si deve spostare dalla dimensione intrapsichica, familiare, infantile, a quella sociale e persino economica, andando ben oltre quel “campo analitico” pur oggi così attuale; dislocando il proprio punto di attenzione sino a comprendere il livello «individuo-mondo» (pag. 94), uscendo persino da quelle che per lui erano le già inattuali (nel 1996) «secche del passato» (ibidem) in cui sembrava incagliata una certa psicoanalisi “ortodossa”.

Il tradimento dell’ortodossia della tecnica, «non significa legittimare gli incolti e i selvaggi», bensì giungere a un’interpretazione soggettiva e unica del proprio operato come analista e come psicoterapeuta. Un modo di porsi di fronte al soggetto rispettandone totalmente l’unicità e la singolarità irripetibile.

Solo riconoscendo questo reciproco coinvolgimento riusciamo a comprendere come mai l’alchimia analitica riesca a trasformare non solo colui che vi è giunto con una domanda di aiuto, ma anche colui che tale domanda ascolta (pag. 56).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Carotenuto , A. (2007). La mia vita per l’inconscio. Di Renzo Editore
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