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Vivere ad alta quota non è solo fonte di benessere: la correlazione tra rischio suicidario e altitudine

La correlazione tra alti tassi di suicidio e il vivere ad alta quota sembra collegata all'ipossia ipobarica cronica che influenza i livelli di serotonina

Di Roberta Carugati, Federica Ferrari

Pubblicato il 30 Gen. 2019

Aggiornato il 04 Lug. 2019 11:50

Il suicidio è una delle prime 10 cause di morte negli Stati Uniti. Nei prossimi 20 anni si prevede che causerà più di 2 milioni di morti all’anno in tutto il mondo, classificandosi al 14° posto tra le cause di morte.

Roberta Carugati e Federica Ferrari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Ci sono molti fattori noti che influenzano il rischio di suicidio. In numerosi studi americani è stato notato come, ad esempio, essere individui di sesso maschile (Denning et al., 2000) di età avanzata (DiNitto et al., 2017) di etnia bianca, divorziati (Curtin et al., 2016) a basso reddito (Bantjes et al., 2016), socialmente isolati o abusatori di sostanze (Pompili et al., 2010) aumenti il rischio di suicidio. Anche le malattie psichiatriche, i disturbi dell’umore (Simpson et al., 1999) e la mancanza di sostegno sociale sono fattori di rischio ampiamente riconosciuti.

Altitudine e salute

La vita ad alta quota è da sempre riconosciuta tra le condizioni che hanno un effetto benefico su numerose condizioni mediche; chi vive ad altitudini elevate, ad esempio, ha minori probabilità di essere colpito da ictus o malattie cardiovascolari (Mortimer et al., 1977; Faeh et al, 2009).

Tuttavia una recente revisione sistematica, pubblicata su Harvard Review of Psychiatry, ha portato risultati differenti, rilevando tra le persone che vivono in zone ad alta quota degli Stati Uniti tassi di suicidio e depressione superiori alla media (Kious, Kondo & Renshaw, 2018). In particolare i più alti tassi di suicidio appartenevano ad Arizona, Colorado, Idaho, Montana, Nevada, New Mexico, Utah e Wyoming, dove i tassi di suicidio aumentavano drammaticamente. I ricercatori hanno osservato che i tassi di suicidio aumentavano ad altitudini comprese tra 2000 e 3000 piedi, altezza che è stata definita come soglia nella valutazione del rischio di suicidio. Tra le varie ipotesi formulate, i ricercatori dell’Università di Salt Lake City (Kious et al., 2018) suggeriscono che la bassa pressione atmosferica ad alta quota potrebbe abbassare i livelli di ossigeno nel sangue, ciò avrebbe un effetto sull’umore e renderebbe quindi le persone che vivono a queste altitudini più suscettibili a pensieri suicidari, spiegano i ricercatori americani.

L’ altitudine sembrerebbe inoltre influenzare anche altre condizioni psichiatriche, come il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) in quanto è stato rilevato che la prevalenza di ADHD sembra diminuire con il crescere dell’ altitudine (Huber et al., 2015); secondo i ricercatori dell’Università dello Utah, una possibile spiegazione del perché l’ADHD tenda ad essere meno frequente con l’aumentare dell’altitudine è legata alla variazione dei livelli di dopamina come reazione all’ipossia ipobarica, la diminuzione dei livelli di dopamina sono infatti associati all’ADHD, quando i livelli dell’ormone aumentano con l’altitudine il rischio dell’insorgenza di questo disturbo tenderebbe a diminuire.

Un altro studio condotto da Ha e colleghi (2017), ha esaminato 3064 contee degli Stati Uniti per verificare la presenza di una correlazione tra altitudine e tassi di suicidio. I ricercatori hanno anallizzato i dati di suicidio elaborati dal National Centre for Health Statistics dal 2008 al 2014. Ha e colleghi hanno scoperto che, per ogni aumento di 100 metri di altitudine, i tassi di suicidio aumentavano di 0,4 per 100.000 abitanti. Le contee con tassi di suicidio più alti della media tendevano anche ad avere una percentuale inferiore di residenti afroamericani, una percentuale più alta di persone di 65 anni o più, una percentuale più alta di fumatori e punteggi più bassi per il sostegno familiare e sociale. I ricercatri hanno inoltre preso in considerazione le variabili relative a fattori socioeconomici, demografici e clinici, come il tasso di disoccupazione e il rapporto tra popolazione e medici di base. Questo tuttavia non ha cambiato i risultati della ricerca.

I risultati di altri studi condotti in Corea del Sud vanno nella medesima direzione, confermando che vivere ad alta quota sembra essere un fattore di rischio per il suicidio (Kim et al., 2011; Brenner et al., 2011; Kim et al., 2014). Nel 2011, Kim e colleghi hanno analizzato i tassi di suicidio in Corea del Sud in un periodo di quattro anni (2005-2008) e hanno riportato una forte associazione tra il tasso di suicidio e l’abitare ad alta quota. L’associazione positiva tra l’altitudine e il tasso di suicidio sono rimasti significativi anche esaminando il peso di altri fattori socioeconomici (reddito). L’aumentato rischio di suicidio associato al vivere ad alta quota può essere parzialmente spiegato da un aumento dei tassi di depressione, sebbene in generale la correlazione tra altitudine e suicidio è più forte di quello tra altitudine e depressione.

Non tutti gli studi tuttavia supportano l’ipotesi dell’esistenza di una correlazione tra altitudine e suicidio. In uno studio condotto da Selek e colleghi (2013) sui tassi di suicidio in Turchia tra il 2007-2008 non è emersa alcuna correlazione significativa con l’altitudine. Gli autori dello studio hanno però notato che poiché i tassi di suicidio in Turchia sono complessivamente bassi (3,97/100.000 abitanti) la mancanza di correlazione può essere il risultato di limitazioni di campione e dati.

Studi precedenti condotti negli Stati Uniti hanno evidenziato una forte correlazione tra l’aumento dei tassi di suicidio e il possesso di armi, ma in questa revisione, l’associazione tra suicidio e altitudine pare essere persino più forte del legame tra suicidio e possesso di armi (Kim et al., 2008; Miller et al., 2008.

Importante considerare che, sebbene l’80% dei suicidi negli Stati Uniti si verifichi in aree a bassa quota, la cifra può essere fuorviante poiché la maggioranza della popolazione vive vicino al livello del mare. Se invece si osservano i tassi di suicidio su 100.000 abitanti, le cifre indicano che il 17.7% dei suicidi si verificano tra le popolazioni che vivono ad alta quota, l’11.9% a media altitudine e il 4.8% a bassa quota. In uno studio del 2014 infatti, la percentuale di adulti con “seri pensieri di suicidio variava dal 3,3% in Connecticut (altitudine media 490 piedi) al 4,9% in Utah (altitudine media 6,100 piedi).

Perché dunque l’altitudine influisce sui tassi di suicidio?

Kious e colleghi suggeriscono che la risposta potrebbe essere l’ipossia ipobarica cronica, ovvero un basso livello di ossigeno nel sangue correlato alla bassa pressione atmosferica. Questa teoria è supportata da studi sugli animali e studi a breve termine sugli esseri umani. Gli autori suggeriscono due vie attraverso le quali l’ipossia ipobarica può aumentare i rischi di suicidio e depressione: alterando il metabolismo del neurotrasmettitore serotonina e/o attraverso i suoi effetti sulla bioenergetica del cervello.

Diversi studi, tra cui il lavoro di Renshaw e colleghi (2015), suggeriscono che l’altitudine sia un fattore di rischio indipendente per il suicidio, sottolineando come anche i tassi di depressione aumentino con l’altitudine e possano quindi contribuire all’aumento del rischio di suicidio. Secondo Renshaw, una potenziale causa di depressione in condizioni di elevata altitudine potrebbe essere la presenza di bassi livelli di serotonina. L’ipossia danneggerebbe un enzima coinvolto nella sintesi della serotonina, probabilmente con conseguente abbassamento dei livelli di serotonina che potrebbe portare alla depressione. Inoltre, il gruppo di Renshaw (2015) ha dimostrato che il metabolismo cellulare cerebrale può essere danneggiato dall’ipossia nei ratti e negli esseri umani. Questo deficit nella funzione cerebrale può contribuire a ciò che Renshaw chiama “The Utah Paradox”. Nonostante abbia il più alto uso di antidepressivi nel paese, lo Utah ha anche il più alto indice di depressione. Gli studi sugli animali indicano che gli SSRI potrebbero non funzionare quando i livelli di serotonina cerebrale sono bassi. Negli studi attuali, Kanekar e Renshaw stanno quindi valutando l’efficacia degli antidepressivi attualmente disponibili nell’ipossia ipobarica, con particolare attenzione agli SSRI, gli antidepressivi più comunemente prescritti negli Stati Uniti.

Conclusioni e prospettive future

Vi sono ancora diverse aree che necessitano di ulteriori ricerche e approfondimenti, compresi gli effetti dell’esposizione prolungata all’altitudine sul metabolismo della serotonina e sulla bioenergetica del cervello, tuttavia, se confermati da studi futuri, questi meccanismi suggeriscono alcuni possibili trattamenti per mitigare gli effetti dell’altitudine sulla depressione e sul rischio di suicidio: 5-idrossitriptofano supplementare (un precursore della serotonina) per aumentare i livelli di serotonina o la creatinina per influenzare la bioenergetica cerebrale.

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