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Perfezionismo nei contesti organizzativi: gli effetti sul lavoro

Perfezionismo: alcuni recenti studi lo riportano in crescita negli ultimi anni. Come gestire al meglio una tendenza che può diventare patologica

Di Guest

Pubblicato il 28 Gen. 2019

Il fenomeno del perfezionismo è in crescita di anno in anno e l’idea di una sua integrazione nelle attività lavorative è spesso connotata positivamente dai più. Ciononostante, diversi studi riportano considerazioni opposte. Quali sono i suoi aspetti positivi e quali quelli negativi?

Simone Bellavia

 

Quando lavoriamo su qualcosa, non riusciamo a rilassarci fino a che i dettagli non raggiungano i livelli di accuratezza che siamo soliti fornire, sfruttando sempre il massimo del nostro potenziale. Se chiediamo ad un collega di contribuire ad un compito che ci è stato assegnato, ci aspettiamo che anch’egli segua la medesima prassi. Sentiamo il forte bisogno di raggiungere degli standard che rasentino l’eccellenza, tuttavia la minima percezione che il nostro lavoro non rispetti le nostre aspettative si prefigura come un senso di fallimento che generalizziamo sulla nostra persona, alimentando una falsa percezione che gli altri possano giudicarci duramente.

Perfezionismo: cos’è e perché si sta diffondendo

Il concetto di perfezionismo è oggi familiare a molte persone. Infatti uno studio recente, condotto dalla York St. John University e pubblicato sulla rivista scientifica Psychological Bulletin, dimostra come generazioni più recenti di studenti universitari — specificatamente fra il 1989 e il 2016 — riportino punteggi significativamente più alti per ogni forma di perfezionismo rispetto alle generazioni precedenti (Curran, T., & Hill, A. P., 2017). Questa tendenza in crescita è probabilmente dovuta ad un insieme di fattori scatenanti, primo fra tutti l’uso dei social media, che spingerebbe i giovani adulti ad alzare sempre di più l’asticella delle proprie aspettative di riuscita e di successo.

Per poter meglio spiegare ciò di cui stiamo parlando, diremmo che il perfezionismo è più marcatamente definito dal desiderio di assoluta impeccabilità (Frost et al., 1990): si tende ad essere inflessibili e rigidi circa i propri standard lavorativi, che vengono perseguiti in modo compulsivo, anche quando la situazione non richiede la perfezione (Flett & Hewitt, 2006; Sherry, Hewitt, Sherry, Flett, & Graham, 2010). In molti casi, a lavoro concluso, non si sperimenta soddisfazione, quanto un sollievo e il voler fissare standard ancora più elevati (Mor, Day, Flett, & Hewitt, 1995; Shafran, Cooper, & Fairburn, 2002). Secondo un articolo pubblicato sulla rivista accademica Journal of Applied Psychology, il perfezionismo è caratterizzato da più facciate: una parte “adattiva”, che ci rende meticolosi, organizzati, puntuali e orientati ad ottenere buoni risultati, e da una parte “disadattiva”, che alimenta le nostre preoccupazioni sugli errori, ansia per le nostre azioni e un’ossessiva avversione per i fallimenti (Enns, Cox, & Clara, 2002; Terry-Short, Owens, Slade, & Dewey, 1995).

Perfezionismo: si può gestirre a proprio vantaggio

L’idea del lavoratore perfezionista è diffusa e ben accetta, poiché ci si aspetta organizzazione, responsabilità e orientamento a risultati qualitativamente elevati, tutti aspetti positivi che correlano con alti livelli di coscienziosità. L’altra faccia della medaglia, evidenziata dall’analisi condotta nell’articolo precedentemente citato, riporta però al contempo bassi livelli di stabilità emotiva e di forte atteggiamento critico verso se stessi e il proprio operato, creando un circolo vizioso ansiogeno (Frost & DiBartolo, 2002).

Essere perfezionisti non è assolutamente un male, anzi. Alle volte l’insoddisfazione ci spinge e ci motiva a lavorare meglio, per rendere ciò che realizziamo, che sia un bene o un servizio per gli altri, qualitativamente superiore. Ma allo stesso tempo può diventare tossico e di conseguenza diventa una trappola. Ne risente la nostra creatività — che in molti ambiti organizzativi aiuta a crescere — la quale ha bisogno di più flessibilità. Bisognerebbe quindi cominciare a “buttarsi” ed accettare eventuali fallimenti, perché errare è lecito, e sbagliare è una vera lezione formativa. Bisogna cominciare, provare, rischiare. Accettare i risultati buoni, non solamente quelli che si ritengono “perfetti” e porre degli obiettivi realistici. Un altro suggerimento valido è quello di lavorare sulle proprie emozioni, accettando anche quelle difficili: un’opzione valida è la pratica della mindfulness, utile anche nella gestione dell’ansia.

Essere perfezionisti non è un male, ma bisogna stare attenti e non renderlo patologico, piuttosto sfruttare i suoi aspetti positivi per poter lavorare meglio.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Curran, T., & Hill, A. P. (2017, December 28). Perfectionism Is Increasing Over Time: A Meta- Analysis of Birth Cohort Differences From 1989 to 2016. Psychological Bulletin. Advance online publication. http://dx.doi.org/10.1037/bul0000138
  • Frost, R. O., Marten, P., Lahart, C., & Rosenblate, R. (1990). The dimensions of perfectionism. Cognitive Therapy and Research, 14, 449–468. http://dx.doi.org/10.1007/BF01172967
  • Flett, G. L., & Hewitt, P. L. (2006). Positive versus negative perfectionism in psychopathology: A comment on Slade and Owens’s dual process model. Behavior Modification, 30, 472–495. http://dx.doi.org/10.1177/0145445506288026
  • Mor, S., Day, H. I., Flett, G. L., & Hewitt, P. L. (1995). Perfectionism, control, and components of performance anxiety in professional artists. Cognitive Therapy and Research, 19, 207–225. http://dx.doi.org/10 .1007/BF02229695
  • Shafran, R., Cooper, Z., & Fairburn, C. G. (2002). Clinical perfectionism: A cognitive-behavioural analysis. Behaviour Research and Therapy, 40, 773–791. http://dx.doi.org/10.1016/S0005-7967(01)00059-6
  • Enns, M. W., Cox, B. J., & Clara, I. (2002). Adaptive and maladaptive perfectionism: Developmental origins and association with depression proneness. Personality and Individual Differences, 33, 921–935. http:// dx.doi.org/10.1016/S0191-8869(01)00202-1
  • Terry-Short, L. A., Owens, R. G., Slade, P. D., & Dewey, M. E. (1995). Positive and negative perfectionism. Personality and Individual Differ- ences, 18, 663–668. http://dx.doi.org/10.1016/0191-8869(94)00192-U
  • Frost, R. O., & DiBartolo, P. M. (2002). Perfectionism, anxiety, and obsessive-compulsive disorder. In G. L. Flett & P. L. Hewitt (Eds.), Perfectionism: Theory, research, and treatment (pp. 341–371). Wash- ington, DC: American Psychological Association. http://dx.doi.org/10 .1037/10458-014
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