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I luoghi del corpo

Sempre più si parla di embodied cognition. In psicoterapia ciò si traduce in una riscoperta dell’importanza del lavoro sul corpo

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 10 Dic. 2018

Non vorrei, ma mi trovo a pensare che Merlau-Ponty aveva ragione: il corpo è lo strumento con cui conosciamo il mondo.

 

Passo una parte significativa del mio tempo al circolo sportivo. Non sono un animale da circolo, normalmente vedo pazienti in psicoterapia, scrivo lavori scientifici, contratto con mia figlia l’orario a cui andrò a riprenderla, guardo Daredevil con mio figlio, mi porto alla pari con Breaking Bad. Ma appena posso gioco a tennis, pratico step e fit boxe coreografati. Musica, esercizio e armonia, robe che ci devi mettere la testa e mi danno un gusto pazzesco: rotazioni, passo di mambo, calci e pugni mentre si balla. Sulla terra rossa fatico per mettere su un rovescio a una mano decente, il lancio di palla per il servizio è un chiaro esempio di come sia difficile disaccoppiare il movimento degli arti. Il mio corpo non esegue con fedeltà i movimenti che vedo su Eurosport, la pallina va per i cavoli suoi, non dove dovrei colpirla: verticale sulla testa e molto alta. I miei neuroni specchio, c’è poco da fare, non si allineano spontaneamente con quelli di Federer. Eppure quando tiro a tutto braccio un dritto incrociato in top per un istante sento forza, potenza, trionfo, aspetto la palla che torni per la più comoda delle volée come un felino della savana pronto al morso finale. In quell’attesa non ho età né memoria.

Mi guardo in giro. Il circolo è un luogo del corpo. Io ci sto bene, palme, piscina, mantengo la mia attenzione sulle molte persone gradevoli, escludo dalla vista le altre. Siepi di rosmarino e limoni. E mi guardo ancora in giro. I luoghi del corpo: simboli della contemporaneità? Forse. Non sopporto la sociologia grossolana. Facile definirli luoghi di esibizionismo, di riparazione narcisistica del corpo come oggetto da mostrare. Sì, per molti lo è. La manager rampante che, mi dicono le amiche, si studia il sedere nello spogliatoio prima e dopo ogni passaggio di vestizione e svestizione. Single, competitiva, pettinatura perfetta. Ok, questo è il corpo-monetizzato. Niente di nuovo.

Questa storia non mi basta. Vedo donne tra i 30 e i 60 giocare tre partite di doppio consecutive. È una bella giornata, ci sta. Ma che significa? Me lo chiedo a lungo. Il dato empirico sotto gli occhi è incontrovertibile: giocano. Competono, combattono, si divertono, litigano per una pallina sulla linea. Bambine divertite e pronte alla zuffa. Non è una risposta sufficiente per me. Io ci vedo anche fuga.

Mi si chiariscono le idee se penso a Sarah, amica ebrea con un perfetto, purissimo senso di colpa ebreo. Magra, intelligente, profilo affilato, simpatica. Sempre pronta a rispondere al telefonino alla grande madre mediterranea o alla figlia. E allora per lei il circolo è salvezza, il corpo riparato e scattante è un santuario che protegge dal dovere monoteista che chiama al sacrificio. Divertirsi fin quasi a stordirsi come antidoto a obblighi implacabili. È già una risposta migliore, non l’unica.

Gioco a tennis con Massimo, un distinto signore con lunghi capelli bianchi, baffi e occhi azzurri. Invidioso, lo immagino grande seduttore, anche adesso è evidente che piace alle donne. Ha perso la moglie pochi anni fa. La sua metà della risposta è il sorriso con cui entra in campo. L’altra metà me la offre Angelo, 50 anni tra due giorni, per nulla contento di compierli. L’ombra della fine, è come se mi dicessero. Sul campo da tennis l’ombra della fine svanisce. Impazzendo a lottare con la pallina, che non va mai dove davvero vorresti, e scontrandoti con l’avversario e le tue imperfezioni, sei fuori dal tempo, esattamente come un bambino in un giorno di estate. A quell’età le otto di sera non arrivano mai, non esiste l’archetipo platonico di crepuscolo. È un’invenzione delle madri, di fronte alla cui esistenza possiamo sempre mostrarci scettici. Un’incredulità radicale.

Le mie amiche fanno ginnastica funzionale, qualcuna cross-fit. Lì c’è più che il rassodare le natiche. Sfidano i limiti, lo fanno anche i maratoneti, ma loro fatico a capirli davvero. Avvocatesse, casalinghe, ex-direttrici, resistono a serie di squat e push-up che io a stento concepisco. Sono lì per mostrare qualcosa a se stesse: che ce la possono fare, nessuno potrà sottometterle, sconfiggerle, anche solo fermarle. Mi sembrano quelle donne che solo i fratelli Cohen sanno descrivere: la detective di Fargo, semplice, umile, solida e inarrestabile. Fianchi larghi e cervello acuto, l’incarnazione della madre terra in cui pianti radici e otterrai frutti. E naturalmente il corpo erotico, tute aderenti, scollature poco pronunciate ma sufficienti, storie clandestine, alcune le ho sapute, altre le immagino, che danno eccitazione e illusione. Il corpo acceso come antidoto alla noia.

Purtroppo anche al circolo ho dei momenti in cui la mia mente è rapita da pensieri di lavoro. Non vorrei, ma mi trovo a pensare che Merlau-Ponty aveva ragione: il corpo è lo strumento con cui conosciamo il mondo. Gli scienziati oggi parlano di cognizione incorporata. Noi psicoterapeuti riscopriamo l’importanza del lavoro sul corpo e sul comportamento, leggiamo Bessel van der Kolk, Patricia Ogden e prima di loro Alexander Lowen. Diciamo ai nostri pazienti che cambieranno nell’atto di muoversi in modo diverso. Agisci il bene, viene detto a un vecchio malvagio in un racconto di Isaac Singer, anche se non lo senti, il resto seguirà.

In una mattina soleggiata di un marzo che ha visto la neve, ripenso alle parole di Massimo e di Angelo e trovo la mia risposta. Colpisco un dritto incrociato a tutto braccio, gli ho impresso una rotazione esterna velenosa, ho mirato all’incrocio delle righe, aspetto che la palla scenda. Sono guidato dalla fiducia incrollabile che resterà in campo, nell’attesa il tempo è divisibile all’infinito, non ho paura del male e non esiste la morte.

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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E. I. è una donna di quasi 40 anni ma ha iniziato a controllare ossessivamente il suo corpo prima ancora di compierne 20 quando ha deciso di liberarsi di quei chili di troppo che immaginava fossero alla base della sua percezione di inadeguatezza.
 È lei stessa a raccontare dopo 3 anni di psicoterapia ciò che è cambiato.

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