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Il bullismo non nasce da un unico seme. I diversi fattori implicati in questo fenomeno

Le cause all'origine del bullismo sono plurime e riconducibili a fattori individuali o dinamiche di gruppo: il temperamento del bambino, i modelli familiari, gli stereotipi imposti dai mass media, l’educazione impartita dai genitori o dalle istituzioni scolastiche e altre variabili collegate all’ambiente sociale.

Di Fiorenza Grella

Pubblicato il 26 Ott. 2018

I modelli educativi genitoriali hanno un ruolo fondamentale tra le possibili cause del bullismo sia che siano eccessivamente severi, sia che siano troppo permissivi.

 

Lo psicologo svedese Dan Olweus è stato il primo a usare, negli anni ’70, il termine inglese “bullying”, per indicare le prepotenze fra pari nelle sue ricerche pionieristiche sulla violenza scolare che portarono alla formulazione di un programma di antibullismo ampiamente adottato nelle scuole dei paesi nordici.

Olweus (1996), considerato, ad oggi, tra le massime autorità a livello mondiale in tema di aggressività e bullismo, identificò anche i primi criteri per individuare il problema del bullismo e poterlo differenziare da altre possibili interpretazioni come il gioco turbolento, gli atti distruttivi, le ragazzate, gli incidenti o scherzi e i giochi pesanti tra pari, tipici del processo di maturazione degli individui. La sua definizione di bullismo prevedeva, infatti, delle azioni offensive nei confronti di un compagno reiterate nel tempo:

uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni.

Per Olweus, quindi, è determinante per poter ascrivere un comportamento offensivo al bullismo, la ripetizione sistematica delle azioni ostili anche se meno gravi nel loro complesso di una sola azione isolata ma estremamente violenta, operate sia dal gruppo sia dal singolo individuo. In questa prima definizione ci si riferiva, in particolare, alle offese fisiche e verbali; solo successivamente si è riconosciuta l’importanza della prevaricazione indirette o psicologiche.

Cause e fattori all’origine del bullismo

Le cause alla base del fenomeno del bullismo sono plurime e riconducibili ad una serie di fattori individuali e di dinamiche di gruppo come per esempio il temperamento del bambino, i modelli familiari, gli stereotipi imposti dai mass media o l’educazione impartita dai genitori o da istituzioni scolastiche spesso disattente alle relazioni fra alunni e ad altre variabili collegate all’ambito scolastico e all’ambiente sociale.

I modelli educativi genitoriali hanno un ruolo fondamentale tra le possibili cause del bullismo sia che siano eccessivamente severi, sia che siano troppo permissivi. Se, infatti, si ricorre eccessivamente all’uso di punizioni fisiche il bambino percepirà che la violenza come l’unico mezzo per fare rispettare le proprie regole. Se, invece, si lascia un’eccessiva libertà ai propri figli, non percependo i limiti oltre i quali i comportamenti non sono più consentiti, essi agiscono di conseguenza in maniera prepotente e prevaricatrice.

Olweus (1996), ha individuato tre fattori nell’educazione familiare, che hanno un ruolo determinante nella predisposizione dei ruoli di bullo e più in generale dell’aggressività nei maschi e precisamente:

  • L’atteggiamento emotivo di indifferenza, di mancanza di calore e d’affetto della figura materna nei primi anni di vita;
  • Il permissivismo educativo nella fase dell’età evolutiva, specialmente verso comportamento aggressivi;
  • L’abuso di autorità punitiva fisica, sin dalla prima infanzia che non consente di elaborare appieno l’aggressività nel bambino.

Le vittime, invece, presentano quadri familiari molto coesi e iperprotettivi nei loro confronti. Specialmente una stretta dipendenza verso la figura di attaccamento principale che ritarda l’autonomia necessaria per la gestione delle relazioni con il gruppo dei pari.

Disfunzionalità di attaccamento e Comportamenti antisociali

In particolare Bowbly (1989) insieme a Winnicott (1981), sono stati i primi autori a collegare i comportamenti antisociali con le disfunzionalità di attaccamento.

In base alla teoria dell’attaccamento, infatti, sarebbero proprio le relazioni della prima infanzia a formare il comportamento relativo ai rapporti con gli altri. In particolare Bowbly (1989) sosteneva che

Nel corso delle esperienze ripetute con le figure di attaccamento i bambini si costruiscono immagini mentali delle interazioni sociali, che funzioneranno da guida delle future relazioni adulte.

Tassi (2001) ha riscontrato una correlazione tra vittimizzazione e attaccamento insicuro- ambivalente e tra prevaricazione e attaccamento insicuro-evitante. In particolare, i soggetti insicuri-evitanti, mancando di fiducia verso gli altri, per evitare possibili ostilità da questi, giustificherebbero il loro comportamento aggressivo verso i coetanei. I soggetti, invece insicuri-ambivalenti, mancando di autostima e di fiducia nelle proprie capacità, sarebbero più propensi a diventare facili prede dei compagni prevaricatori. Al contrario, i soggetti con attaccamento sicuro, esplorerebbero il mondo esterno con fiducia, certi di poter contare sull’aiuto della figura di attaccamento.

Diverse tipologie di famiglia

Genta (2002) ha individuato 3 tipologie di famiglia, in base alla coesione interna e all’indipendenza personale. La famiglia equilibrata presenta una coesione interna in armonia con l’indipendenza personale dei singoli membri, mentre una famiglia estremamente coesa nei suoi membri, vive l’ambiente esterno come pericoloso, invece una disaggregata tra i suoi membri non riesce a delineare i confini tra mondo esterno e il gruppo familiare. I bambini non coinvolti nel bullismo, apparterebbero a famiglie del primo tipo, le vittime a famiglie del secondo tipo e i bulli a quelle del terzo tipo.

In definitiva, l’aggressività del bullo o della vittima provocatrice, dipende anche da forme di violenza assistita in famiglia. Chi, infatti, subisce nell’infanzia forme di violenza fisica o psicologica, interpreterà in maniera disfunzionale i segnali del mondo esterno, e si sentirà legittimato a perpetuare violenza per ottenere quello che vuole.

Un altro fattore importante relativo alla famiglia riguarda i sistemi di valore. In questo caso, sarebbero i valori trasmessi dai genitori a condizionare i rapporti dei propri figli con i coetanei. Nelle famiglie dei bulli, i valori della vita, sarebbero improntati maggiormente all’individualismo e all’egoismo, diversamente da quanto si verifica nelle famiglie delle vittime, i cui valori sembrerebbero improntati, invece, alla solidarietà.

Altri dati importanti sull’origine del bullismo

Le convinzioni comuni che le prepotenze inferte alla vittima siano causate prevalentemente dai difetti fisici o da handicap o provocate dallo scarso rendimento scolastico sembrerebbero essere un luogo comune da sfatare, secondo Olweus. Dall’analisi sociologica di Vergati (2003) effettuata su un campione di 606 studenti di scuole medie ed elementari romane, tra i bersagli prescelti, risultano esserci gli studenti dai più bravi (32%) a quelli con rendimento “distinto” (27%). Tuttavia ciò non sempre è generalizzabile perché anche coloro che hanno un rendimento scarso sono oggetto di bullismo probabilmente perché diventano oggetto di invidia.

Il dato che stupisce maggiormente è che proprio tra gli studenti con rendimento elevato si celi il 12% dei bulli mentre tra chi ha un rendimento scolastico medio, la percentuale di bulli cala significativamente al 4,7% a favore, invece, di chi assume il ruolo di difensore della vittima (53%).

Dai dati di Olweus, emerge un aumento di episodi di bullismo in assenza di sorveglianza dell’adulto, specialmente durante il percorso tra la casa e la scuola o durante la ricreazione e la pausa pranzo.

Per De Ajuriaguerra e Marcelli (1984), le cause del bullismo dipenderebbero dalla mancanza di tolleranza verso qualsiasi tipo di ritardo nella soddisfazione delle proprie richieste. Di conseguenza, l’intolleranza alla frustrazione di fronte ad una qualsiasi negazione potrebbe scatenare una reazione aggressiva in maniera violenta ed esacerbata.

Per Ciucci e Fonzi (1999), invece, ciò che motiverebbe a mettere in pratica comportamenti prepotenti sarebbe la sensazione di controllo che aumenta la propria visibilità e gratifica il bisogno di attenzione sugli altri, ottenuto col potere e il dominio. Più specificatamente, a causare sofferenza negli altri dipenderebbe l’astio nei confronti dell’ambiente sociale che si è sviluppato in contesti familiari chiaramente inadeguati ma potrebbe essere dovuto anche a semplici disturbi della condotta, nel qual caso sarebbe finalizzato al puro gusto del contravvenire alle norme sociali.

Ancora giocano un ruolo chiave nel bullismo le difficoltà nelle capacità empatiche sia nel bullo che pare non accorgersi delle sofferenze indotte ma anche nella vittima probabilmente per mancanza di abilità affettive e relazionali verso i propri compagni.

Un altro meccanismo psicologico, quale il disimpegno morale, può influire sul bullismo, legittimando i propri comportamenti violenti (sono solo scherzi) se fatti a fin di giustizia (in fondo se lo meritano) o perché “non è così grave perché lo fanno tutti”.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Cortina, Milano.
  • Ciucci, E., Fonzi, A. (1999). La grammatica delle emozioni in prepotenti e vittime. In Fonzi, A., (a cura di), (1999), Il bullismo. Studi e ricerche sui correlati psicologici del bullismo, Giunti, Firenze, pp. 27- 34.
  • De Ajuriaguerra, J., Marcelli, D. (1984). Psicopatologia del bambino. Masson, Milano.
  • Genta, M.L. (2002). Il bullismo. Bambini aggressivi a scuola, Carocci, Roma.
  • Maggi, M., Buccoliero, E. (2006). Progetto Bullismo. L’esperienza e il confronto di quattro progetti di prevenzione, Piacenza, Berti.
  • Molinari, L., Speltini, G. (2001). Il fenomeno delle prepotenze in classe e le dimensioni della competenza sociale, Psicologia clinica dello sviluppo, 1, 95-116.
  • Olweus, D. (1996). Bulli. In Psicologia contemporanea, n. 133, 1996, pp. 23-28.
  • Olweus, D. (1996). Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti, Firenze.
  • Olweus, D. (1993). Il bullismo. Giunti, Firenze.
  • Tassi, F. (2001). Il bullismo: problemi aperti e prospettive di intervento. Cittadini in crescita, n. 2, pp. 44-53.
  • Vergati, S. (2003). Bully Kids. Socializzazione disadattante e bullismo fra i preadolescenti. Bonanno Acireale- Roma.
  • Winnicott, D.W. (1958). Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli, Firenze.
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