Purtroppo oggi si fa ancora molta fatica ad accettare di avere un medico con disabilità. Su questo fronte nessuna riforma sanitaria o universitaria può essere sufficiente, occorre piuttosto recuperare l’empatia che un tempo legava medico e paziente.
Il rapporto medico-paziente è da sempre al centro del dibattito pubblico. Nell’immaginario collettivo il medico è il primo degli eroi, colui che fa nascere e accompagna per tutta la vita. La pubblicità, a sua volta, diffonde immagini di medici prestanti, capaci di scalare montagne, pur di arrivare a salvare uomini in difficoltà.
Ma cosa succede nella realtà quando il medico si ammala? Come reagiscono pazienti e colleghi davanti ad uno specialista con disabilità?
Se ne è discusso al convegno “Studenti con disabilità e DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento) nelle lauree e nei percorsi abilitanti: criticità e prospettive”, organizzato dal CNUDD (Conferenza Nazionale Universitaria dei Delegati per la Disabilità) e dal CALD (Coordinamento degli Atenei Lombardi per la Disabilità), presso l’Auditorium Testori di Milano.
Sono paraplegica da più di vent’anni e ancora oggi molti pazienti, quando varcano la soglia del mio ambulatorio, rimangono perplessi. Alcuni mi domandano come possa lavorare! Il mio carattere forte mi consente di non avere complessi, ma conosco specialisti con disabilità che, nonostante il loro talento, sono stati esclusi dalla possibilità di fare carriera – ha testimoniato Pasqualina Bardino, medico chirurgo, mediatore civile e commerciale di Sassari.
Il diritto di accesso ai livelli superiori dell’istruzione per le persone con disabilità e DSA – hanno sottolineato i promotori del convegno – è riconosciuto e garantito dalle Università italiane.
Per le lauree abilitanti, che consentono l’accesso al lavoro alla fine del percorso di studio, la Costituzione impone di considerare le condizioni fisiche e psichiche del neolaureato. Ecco perché gli Atenei dovrebbero formare professionisti in grado di svolgere compiutamente il proprio ruolo professionale. È in gioco la responsabilità che il mondo accademico si assume nei confronti dei soggetti terzi.
Ma è in gioco anche la dignità dei laureati portatori di handicap. Come risolvere il problema?
All’incontro, che si è svolto con il contributo di Lisa Meeks, presidente di Coalition for Disability Access in Health Science and Medical Education, tutti sono apparsi concordi nel ritenere che il rafforzamento del lavoro d’équipe possa essere la risposta.
Un medico con disabilità può essere affiancato da un infermiere, purché il rapporto sia paritario. Laddove si pensasse di dare un aiuto al medico, si porrebbe quest’ultimo in uno stato di umiliante passività. Medico ed infermiere sono entrambi professionisti con ruoli diversi, ma complementari.
Sono già tanti, per fortuna, i buoni esempi.
Resta un po’ di strada da fare sul fronte culturale. I pazienti stentano ad accettare un medico cieco o in sedia a rotelle. Su questo fronte nessuna riforma sanitaria o universitaria può essere sufficiente. Occorre, allora, recuperare l’empatia che un tempo legava il medico al paziente.
Oggi, attraverso l’uso delle tecnologie digitali, gli specialisti possono monitorare i malati 24 ore su 24, tramite un semplice device. Senza dubbio, ciò è una conquista. Purché non si dimentichi che il buon medico non cura soltanto il sintomo, ma l’uomo nella sua interezza, anima compresa.