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Aspetti psicologici del ricovero psichiatrico in età adulta: alcune considerazioni sulla degenza nelle case di cura

Il ricovero psichiatrico è un periodo di degenza in struttura privata, tra le cui finalità vi è il raggiungimento di una migliore consapevolezza personale attraverso il confronto collettivo su esperienze passate e trascorsi recenti. Tuttavia per i pazienti ricoverati tale confronto non è sempre facile da attuare.

Di Nicole Tornato

Pubblicato il 30 Mar. 2018

Il ricovero psichiatrico in età adulta può essere un periodo di degenza variabile in una struttura privata ed è rivolto all’utenza psichiatrica e doppia diagnosi, la quale accede in seguito ad episodi di scompenso psicopatologico.

 

Il programma terapeutico individuale, pertanto, è finalizzato alla stabilizzazione del quadro clinico e in alcuni casi all’avvio di un progetto alternativo, come la presa in carico presso le comunità terapeutiche e i centri diurni. Dal punto di vista psicologico, pertanto, le finalità ruotano sul lavoro di consapevolezza personale attraverso la partecipazione ai colloqui individuali e di gruppo su tematiche di stampo espressivo e psicoeducativo: il ricovero psichiatrico è quindi uno spazio di confronto collettivo sulle esperienze passate, sui trascorsi recenti, ma anche un momento di riflessione individuale guidato e spontaneo. Non è, quindi, solo il lavoro terapeutico a dover incentivare una meditazione sugli antecedenti allo scompenso, ma anche la possibilità di narrare e condividere le emozioni e i pensieri con le persone che hanno affrontato problematiche analoghe o differenti.

Il ricovero psichiatrico e l’avversione al confronto con gli altri

Alcune volte l’eventualità di incontrare, durante il percorso di ricovero psichiatrico, un altro “diverso”, spesso con disturbi socialmente stigmatizzati, scatena un’avversione al confronto: non è infrequente, ad esempio, incontrare un paziente tossicodipendente o psichiatrico che rifiuta il gruppo terapeutico o gli spazi di socializzazione in reparto, come la sala fumatori, per evitare attivamente l’ascolto e lo scambio delle storie analoghe o differenti.

In questi casi anche nelle sedute individuali si riscontrano sovente tentativi di dirigere il colloquio per sviare l’attenzione dall’argomento centrale, come il consumo di una sostanza, o un problema di natura relazionale, nonostante sia direttamente collegato al motivo dello scompenso: un obbiettivo fondamentale è infatti l’esplorazione delle aree critiche di funzionamento spesso di matrice relazionale che hanno incentivato la ricaduta, pertanto un ostacolo al cambiamento è proprio la difficoltà a rivelarsi e a permettersi di sostare nelle emozioni suscitate dal racconto personale e altrui. In altri frangenti, invece, compare un esasperato ricorso alla narrazione degli stessi temi senza possibilità di considerazioni alternative a quelle intraprese: sia la negazione che la ripetizione sono aspetti importanti da considerare nella motivazione al lavoro psicologico su di sé che andrebbero colti fin dai primi contatti.

Ricovero psichiatrico: i rischi del percorso di degenza

È necessario, infatti, presupporre alcuni rischi nel lavoro con pazienti gravi in ricovero psicohiatrico affetti, nella fattispecie, da disturbi di personalità, dipendenze da sostanze e disturbi psicotici, tra cui la ricerca di conferme su di sé o di un alleato su cui contare, piuttosto che sull’eventualità di incrementare punti di vista alternativi al proprio modo di pensare, sentire e agire. Il terapeuta, in tal senso, può essere fantasticato come un amico anziché un professionista, pertanto è doveroso chiarire fin dalle prime occasioni il ruolo e le finalità degli incontri, astenendosi dal colludere con dinamiche che deviano dall’obbiettivo terapeutico.

Per prima cosa occorre considerare che il ricovero psichiatrico in una casa di cura è certamente volontario, ma non comporta necessariamente un’autentica collaborazione con i professionisti, e spesso gli atteggiamenti compiacenti iniziali si trasformano in aperte polemiche non appena sorgono le prime frustrazioni, come il divieto di uscire o di partecipare a determinati gruppi terapeutici o ai colloqui individuali con lo psicologo.

Altri atteggiamenti si rivelano emblematici del modo di affrontare la degenza: dal cambiamento nella cura di sé, alle attività rifiutate e intraprese nella giornata, esistono diversi elementi non trascurabili per una comprensione più ampia del caso. A titolo di esempio si possono considerare le modalità accudenti compulsive che si evidenziano talvolta nella preoccupazione e premura per gli altri pazienti e gli operatori stessi al fine di mantenere la distanza da tutto ciò che può agevolare una riflessione su di sé, o la paura della solitudine nel rifiuto di uscire dalla struttura vissuta come protettiva.

La sensazione di costrizione, invece, può amplificarsi nell’incontro con molteplici figure professionali, come lo psichiatra, l’infermiere, lo psicologo ed eventualmente le visite degli operatori dei servizi come il centro di salute mentale o il SER.T, o nella consapevolezza di non poter intraprendere un’azione desiderata durante il periodo di ricovero psichiatrico, come uscire dal reparto, usare una sostanza, incontrare una persona amata, o semplicemente fare una passeggiata e allenarsi in uno sport. In determinati soggetti, d’altra parte, si intravedono adesioni incondizionate a tutti i gruppi, complimenti compulsivi e un’estrema disinvoltura nel rapporto con i pazienti e il personale, con difficoltà a focalizzare le preferenze e le avversioni sperimentate, o al contrario, svariate opposizioni al dialogo con i professionisti o con i soggetti ricoverati, arroganza e presunzione sulle soluzioni terapeutiche percorribili, pretese di trattamenti privilegiati perché si è ricoverati in una struttura. La degenza è quindi un contesto in cui emergono le sfaccettature individuali e si palesano le strategie per affrontare il pericolo percepito e ricercare la vicinanza.

Nella maggioranza dei casi, inoltre, è previsto un allontanamento completo dalla realtà quotidiana: nella struttura si mangia, si dorme, si trascorrono intere ore e giornate che sembrano infinite. Talvolta si resta soli in uno specifico reparto, e i contatti con l’esterno sono limitati e sporadici: se per alcuni degenti una soluzione del genere costituisce una liberazione, un periodo di “vacanza”, un’occasione di conoscenze nuove, un inizio di un altro percorso, per altri si rivela una “punizione” per gli sbagli commessi in precedenza, e così l’ipotesi delle ricadute future diventa accettabile e intollerabile a seconda di vari fattori, come l’esperienza della degenza e la consapevolezza di un aiuto esterno nei momenti particolarmente critici.

In tal senso le autodimissioni si ricollegano alla mancata consapevolezza di un aiuto specialistico, nonché all’accettazione passiva di un ricovero psichiatrico indesiderato fin dall’inizio, intrapreso per accontentare le figure famigliari o ricevere agevolazioni: in particolare quando i pazienti sono sottoposti ad un processo per azioni effettuate sotto l’effetto di sostanze, la partecipazione ad un programma terapeutico potrebbe favorire un’immagine consapevole dei propri limiti e collaborante, che però di fatto non esclude una bassa convinzione nel percorso. Ad ogni modo gli aspetti psicologici esaminati devono essere integrati con la storia individuale, i colloqui con gli psichiatri e gli psicologi, e la quotidianità in reparto: dall’atteggiamento nei confronti delle terapie farmacologiche, alle attività predilette, questi dati possono ampliare la conoscenza della persona che si trova ad affrontare per la prima o la ventesima volta un passo importante della propria esistenza.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bara, B. (2015). Manuale di psicoterapia cognitiva. Bollati Boringhieri.
  • Carcione A., Semerari A., Nicolò G. (2016). Curare i casi complessi. Laterza.
  • Guidano V. (1988). La complessità del sé. Bollati Boringhieri.
  • Guidano V. (1992). Il sé nel suo divenire. Bollati Boringhieri.
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