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Io-tu: l’autoriflessività per stare in relazione di coppia

L’autoriflessività o coscienza di sé è una funzione riflessiva del sé che significa sperimentare se stessi come soggetti della propria esistenza, in relazione con un altro percepito come diverso o uguale a se stessi.

Di Alessia Zoppi

Pubblicato il 23 Mar. 2018

L’autoriflessività o coscienza di sé è una funzione riflessiva del sé che significa sperimentare se stessi come soggetti della propria esistenza. Ogni relazione implica l’incontro con un altro uguale/diverso da me. Ma non tutti gli incontri diventano vere relazioni. Nella costruzione di un rapporto che implichi scambio e relazione è necessario definire se stessi in base all’altro e l’altro in base al sé; questo comporta una valutazione del sé e dell’altro da sé, ovvero chi sono Io e chi sei Tu e cosa sono Io-per-te e cosa sei Tu-per-me.

 

Perché ti sento diverso? Ti vedo in un ruolo? Perché in qualche modo devo capire chi sei tu e attribuirti una categoria prima ancora di conoscerti profondamente? Ogni relazione implica l’incontro con un altro uguale/diverso da me. Ma non tutti gli incontri diventano vere relazioni. Nella costruzione di un rapporto che implichi scambio e relazione è necessario definire se stessi in base all’altro e l’altro in base al sé; questo comporta una valutazione del sé e dell’altro da sé, ovvero chi sono Io e chi sei Tu e cosa sono Io-per-te e cosa sei Tu-per-me.

Centrale in questo processo di costruzione relazionale è partire dalla percezione di se stessi, come soggetti e come oggetti. Il Sé come soggetto implica l’uso nel linguaggio dell’Io (“Io ho fatto, ho detto, ho deciso, pensato, amato…”), intendendo in quell’Io un sé conoscitore di se stesso (Aron, 2000), ovvero un sé dotato di coscienza percettiva, intellettiva e autocoscienza, tre livelli di coscienza pre-riflessiva e riflessiva a diverso grado di complessità (Minolli, Coin, 2007, p.97).

Che cos’è l’autoriflessività

L’autoriflessività, infatti, è il gradino più alto di conoscenza di se stessi e non coincide con la semplice riflessione su di sé, che implica un lavoro di tipo meramente cognitivo in cui ci guardiamo come dall’esterno prendendo distanza da ciò che facciamo; bensì l’autoriflessività o coscienza di sé è una funzione riflessiva del sé che significa sperimentare se stessi come soggetti della propria esistenza. Per fare un esempio, la semplice riflessione cognitiva su di sé potrebbe implicare un pensiero del tipo: “Penso di aver agito in questo modo perché ho valutato questa cosa secondo questo mio schema mentale!”; nonostante questo processo metacognitivo sia già molto importante ed elevato, non è sufficiente raggiungere l’autoriflessività, la quale implicherebbe qualcosa che va oltre il pensare al proprio pensiero (metacognizione), piuttosto implica “l’integrazione tra pensiero e sentimento, mente e corpo, modalità osservazionali ed esperienziali” (Aron, 2000, pp.668-669).

Questa capacità si traduce in qualcosa del tipo “questo è quello che so essere vero di me, perché questo è il modo in cui penso e mi sento” (Ringstrom, 2017) e fa parte della costruzione del sé come soggetto. Il sé come oggetto, invece, è reperibile in ciò che definisce il sé in quanto conosciuto da noi stessi, e lo esprimiamo attraverso il Me (“mi piace, mi interessa, ama me….”). E’ l’insieme delle nostre osservazioni su noi stessi nate anche grazie al feedback degli altri.

Percepire se stessi come oggetti implica riconoscersi come esseri umani tra gli esseri umani, come estranei e diversi dagli altri pur riconoscendoci in noi stessi. Come conosciamo noi stessi attraverso esperienze che ci pongono in modo soggettivato o oggettivato, così noi possiamo percepire gli altri come “altro-soggetto” o “altro-oggetto”. I sé come soggetto e come oggetto sono sempre in tensione dialettica ed entrambi nascono non dall’intelletto bensì dall’esperienziale. Se emerge uno squilibrio tra questi due sé non possiamo percepire gli altri in relazione a noi stessi, se non nelle due posizioni assolute e reciprocamente escludenti di oggetto o soggetto assoluto: il sé che è troppo soggettivato, tratta gli altri come oggetti; il sé che è troppo oggettivato, non è in grado di farsi soggetto con agency e pone gli altri al proprio posto.

Nella metafora del servo e del padrone, Hegel (cit. in Minolli, Coin, 2007, pp.98-99) spiega come in realtà nella rigida posizione dialettica può esistere già una interdipendenza ricorsiva di tipo relazionale: il servo ha salva la vita grazie al padrone e il padrone grazie al servo ha ciò di cui ha bisogno. In questo modo la relazione di padronanza si ribalta perché senza il servo il padrone non può più stare, dunque ne è a sua volta schiavo. Padrone e servo sono due parti di ognuno di noi “scisse e delegate” (Minolli, Coin, 2007, p.99) che possono riferirsi alla soggettivazione o oggettivazione sé-altro da sé.

L’interdipendenza psichica nelle relazioni

Comprendendo che in ogni relazione vi è sempre un’interdipendenza psichica che ci porta a coesistere in un dato contesto, cogliamo anche che non vi è servo e padrone, ma la possibilità di essere l’uno o l’altro in ogni momento in riferimento alla dinamica relazionale. Questo è particolarmente veritiero nella relazione amorosa, in cui l’Io e il me si definiscono come soggetto e oggetto amante e amato; parimenti l’altro è vissuto come soggetto-oggetto di amore.

Barthes (1977, p.107-108) propone questo rovesciamento del sentire “Non riesco a capirti” vuol dire: “non saprò mai che cosa pensi veramente di me. Non posso decifrare te perché non so come decifri me” e allo stesso modo può sussistere un pensiero opposto “Anziché voler definire l’altro (“Cos’è mai costui?”), io volgo l’attenzione su me stesso: “Cos’è che voglio, io che desidero conoscerti?” . In questo pensiero sussiste già una dinamica relazionale di tipo ricorsivo, che lega l’Io al Tu e rende evidente il ruolo centrale del legame relazionale (Io-tu) nella costruzione della propria identità relazionale (Sé). Non cogliere questo rovesciamento ricorsivo può determinare il posizionarsi rispetto all’altro in un modo detto “complementarietà reversibile”, in cui si lotta per spingere l’altro nella posizione rigida che desideriamo assuma a livello relazionale: “tu sei solo servo, io sono solo padrone!” o anche “solo io ti amo, tu non mi ami!” . Questa rigidità rompe la ricorsività dialettica e struttura un gioco di forze e ruoli in cui posizionare in modo irreversibile se stessi e l’altro in posizione di soggetti/oggetti: “Cosa si verificherebbe se decidessi di definirti non già come una persona, ma bensì come forza? E nel caso che mi ponessi come una forza contrapposta alla tua forza? Tutto ciò avrebbe come risultato questo: il mio altro si definirebbe solamente attraverso la sofferenza o il piacere che gli egli mi dà.” (Barthes, 1977, p.108).

Dato che la tendenza a porsi in modo solamente soggettivato o solamente oggettivato è radicata dallo stile relazionale conflittuale respirato fin da piccoli, nella scelta di partner e nelle relazioni adulte significative tendiamo, per coazione a ripetere, a scegliere persone che mantengano quella data posizione per noi assumibile poiché protettiva: se siamo stati o ci sentiamo servi cerchiamo inconsciamente padroni, se siamo stati o ci sentiamo padroni cerchiamo solo servi. Porsi in modo autoriflessivo non significa solo cogliere la propria dimensione rispetto all’altro, né comportarsi in modo da raggiungere un mero ribaltamento nella dimensione esperita (da servo a padrone, e viceversa).

Autoriflessività: la consapevolezza di sè in relazione all’altro

L’autoriflessività non può dunque raggiungersi solo con un processo di immersione emotiva (Ringstrom, 2017). Credere alla logica del “sento dunque sono!” è estremamente confusivo, poiché l’immersione in un’ esperienza è un processo non-riflessivo dove “non esistono interpretazione ma solo fatti” (Wallin, cit. in Ringstrom, 2017, p. 188). La società moderna basa il principio di “conoscenza di se stessi” troppo soventemente sull’immersione, per cui sentimenti, stimoli somatici, rappresentazioni mentali diventano la realtà (Ringstrom, 2017). In questo stato non si è in grado di entrare in intersoggettività, poiché esiste solo un sé soggettivato su cui non vi è peraltro neanche riflessione. Si vive piuttosto in una “realtà iperoggettivata” (Ringstrom, 2017), come “isterica”, dove si è troppo emotivi e paradossalmente estremamente soli poiché chiusi nella logica del “il mio sentire è il tuo sentire. E solo questa è realtà!”. Questo processo definito “equivalenza psichica” da Fonagy, e “(classicamente descritta come pensiero concreto) in cui non possono essere prese in considerazione prospettive alternative alla propria, poiché manca l’esperienza del “come se” e tutto appare come fosse “reale” (Bateman, 2007), ammazza l’empatia e l’alterità, e pone gli altri in una ipocrita posizione di oggetti-doppi del proprio sé, per cui “tu devi sentire come sento io perché ciò che io sento è vero!”.

Allo stesso tempo l’autoriflessività non rimanda a ragionamenti di tipo intellettivo su di sé, ad una mera metacognizione, speculazione intellettuale su chi sono io e come penso e perché. L’autocoscienza o coscienza di sé o autoriflessività implica “una dimensione misteriosa di coglimento di sé. La presenza a se stessi è una presa d’atto, un’accettazione attiva, un ri-conoscimento, un aprire gli occhi su di sé. C’è in questa presenza a se stessi lo stupore della scoperta, l’umiltà di fronte alla propria realtà, la sofferenza dello scarto, la gioia dell’aderire” (Minolli, Coin, 2007, p. 97). Rispetto alla metafora del servo e padrone l’autocoscienza o coscienza di sé è la capacità di cogliersi sia come servo che come padrone in modo dialettico e coesistente. Quindi l’autoriflessività è il superamento della lotta nell’attribuzione a se stesso di una posizione rigida rispetto all’altro ed è piuttosto la presa di consapevolezza di una “presenza a se stessi” che implica un “…essere a contatto, un viversi, un riconoscersi indipendentemente dalle cose, dai contenuti e dai desideri oggettivati ossia dell’oggetto… è qualcosa che porta a comunicare e a riconoscersi in prima persona con il proprio essere quello che si è, come dato da viversi in pienezza” (Minolli, 2007, p. 3, cit. in Minolli, 2009, p. 58).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Aron, L. (2000). Self-reflexivity and therapeutic action of psychoanalysis. Psychoanalytic psychology, 17, pp.667-689.
  • Barthes, R. (1977). Frammenti di un discorso amoroso. Einaudi, 1979, 2001.
  • Bateman, A. (2007). Developing a mentalizing therapeutic relationship: new wine or old wine in a new bottle? In Personalità e relazione. Un gioco polifonico tra le parti. Università degli Studi "La Sapienza" Roma, Abstract del Congresso Internazionale, VI Centro di Psicoterapia Cognitiva in collaborazione con APC - Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Roma, 10-11-12 Maggio 2007, in http://www.psychomedia.it/pm-proc/6centro-roma/bateman.htm.
  • Minolli, M. (2007). La presenza a se stessi come ricerca della realtà e cardine della cura. Ricerca Psicoanalitica, XVIII, 2, pp. 187-202.
  • Minolli, M., Coin, R. (2007). Amarsi, amando. Per una psicoanalisi della relazione di coppia. Borla.
  • Ringstrom, P.A. (2014). Psicoanalisi relazionale e terapia di coppia. Giovanni Fioriti, 2017.
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