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La neuroinfiammazione: ruolo e funzione nei disturbi psichiatrici

La neuroinfiammazione consiste in uno stato infiammatorio che permane oltre la durata fisiologica normale e aumenta il rischio di patologie psichiatriche.

Di Veronica Aggio

Pubblicato il 30 Ago. 2017

Aggiornato il 28 Giu. 2019 13:00

La neuroinfiammazione consiste in una complessa cascata di eventi biologici attraverso la quale, a partire dall’attivazione della microglia, si produce uno stato infiammatorio che persiste oltre la normale durata fisiologica, provocando uno condizione patologica progressiva.

Veronica Aggio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

La neuroinfiammazione e le encefaliti

Storicamente, la neuroinfiammazione è stata inizialmente affrontata come argomento di ricerca solo relativamente allo studio delle encefaliti. L’encefalite è definibile come un processo infiammatorio sviluppatosi a livello cerebrale, e può essere classificata in: encefalite primaria, quando l’infezione origina direttamente a livello encefalico, encefalite secondaria, quando invece è una conseguenza di uno stato infiammatorio organico esterno al cervello, ed una encefalite autoimmune, provocata da una risposta anomala del sistema immunitario dell’individuo.

Tra il 1916 e il 1927, subito dopo la prima guerra mondiale, venne riportata una devastante epidemia di “encefalite letargica”, così denominata dal medico von Economo: i sintomi principali che colpivano i soggetti comprendevano i disturbi del sonno, letargia, sindromi extrapiramidali, e disturbi neuropsichiatrici quali il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), disturbi della condotta, catatonia, mutismo e apatia; ancora oggi, seppur molto raramente, vengono riportati dei casi di encefalite letargica che, se non completamente curata, può provocare un parkinsonismo postencefalico permanente. Tali processi infiammatori localizzati a livello cerebrale sono riscontrabili anche nelle patologie neurodegenerative: nel disturbo di Alzheimer, studi clinico-patologici mostrano come l’attivazione della microglia rappresenti un evento patogenico precedente all’estesa perdita neuronale caratteristica del disturbo, rappresentandone quindi un possibile biomarker. Inoltre, l’utilizzo di alcuni farmaci anti-infiammatori sembra possa prevenire e ritardare il rischio per lo sviluppo dell’Alzheimer.

La neuroinfiammazione e le patologie psichiatriche

Risulta quindi intuitiva l’importanza del ruolo svolto dalla neuroinfiammazione nelle varie patologie inerenti il cervello; anche per questo, negli ultimi decenni, lo studio delle molecole legate alle risposte infiammatorie è stato esteso anche all’ambito psichiatrico. Uno dei primi inisght per lo studio dei fattori infiammatori anche in ambito psichiatrico deriva dalla pubblicazione nel 1988 di un lavoro di Mednick e colleghi, che riporta un aumento del rischio di sviluppo della schizofrenia nei figli delle madri affette dall’influenza epidemica del 1957 in Finlandia. Nel lavoro veniva proposta l’idea che un’infezione virale durante gli ultimi due trimestri di gravidanza potesse aumentare il rischio di sviluppare la schizofrenia in età adulta.

L’analisi retrospettiva di pazienti ricoverati ad Helsinki con diagnosi di schizofrenia, mostrò come molte delle madri dei pazienti, all’epoca in gestazione, avevano contratto o erano state esposte all’influenza epidemica di tipo A2. Successivamente, nel 2007, uno studio danese confermò i dati precedentemente riportati da Mednick, mostrando nuovamente un aumento del rischio per la schizofrenia associato all’influenza della madre durante la gestazione. Oltre agli stati influenzali, è stata riportata un’associazione fra un’ampia varietà di infezioni virali e batteriche contratte dalle madri durante la gestazione (morbillo, varicella-zoster, rosolia etc) ed un aumento del rischio di sviluppo di schizofrenia dei figli.

Partendo quindi dall’analisi del rischio di sviluppare la schizofrenia in età adulta, molti ricercatori hanno spostato l’attenzione all’analisi dei fattori infiammatori nella patogenesi e mantenimento delle patologie psichiatriche.

Da un punto di vista fisiologico, il corpo è dotato di un duplice sistema immunitario, uno innato ed uno adattivo, mentre il cervello non possiede un proprio sistema immunitario specifico. Il primo elemento che protegge meccanicamente (fisicamente, con la propria presenza) ed enzimaticamente il cervello è la barriera ematoencefalica (BBB – brain blood barrier). La BBB lascia passare selettivamente e bidirezionalmente diverse citochine: l’interleuchina 1-α (IL-1 α), IL-1β, IL-1ra, IL-6, fattore di necrosi tumorale (TNF), fattore inibitorio di leucemia (LIF) e diverse adipochine (citochine secrete dal tessuto adiposo). Queste citochine, che fungono da segnalatori di comunicazione fra le cellule del sistema immunitario e i diversi organi, rivestono un ruolo importante sia nella risposta fisiologica ad uno stato infiammatorio che nei processi neurodegenerativi. Per esempio, il TNF-α può causare uno stato infiammatorio, la morte cellulare inducendone l’apoptosi, e fungere da mediatore per la produzione/rilascio di altre citochine come IL-6, IL-1β e IL-8.

Una seconda forma di protezione del CNS viene fornita dalla microglia, ovvero le cellule immunitarie residenti nel sistema nervoso centrale (CNS), in condizioni normali si presenta in uno stato definito “silente”, caratteristico per la presenza di un piccolo soma e ramificazioni. In questa condizione, lo scopo della microglia è quello di controllare e sorvegliare costantemente l’ambiente circostante per verificare eventuali alterazioni dell’omeostasi cerebrale in seguito a traumi, infezioni, o alterazioni dell’attività neuronale stessa. Se rileva una di queste condizioni, la microglia cambia conformazione e passa ad uno stato “attivo”, assumendo una forma tondeggiante e acquisendo maggior motilità per raggiungere il sito dove è stata riscontrata tale anomalia. Una delle funzioni principali della microglia attivata è quella di regolare la risposta immunitaria del CNS e promuovere delle risposte idonee alla situazione, come il rilascio di citochine pro ed anti infiammatorie. E’ proprio questa risposta infiammatoria a livello cerebrale che viene definita neuroinfiammazione e rappresenta una risposta fisiologica fondamentale atta a difendere e proteggere il CNS. Se, però, tale stato fisiologico si protrae nel tempo in modo incontrollato, può risultare potenzialmente dannoso; ciò è particolarmente evidente nelle patologie neurodegenerative, dove è riscontrabile una condizione di neuroinfiammazione e la microglia risulta essere attivata.

Lo studio della neuroinfiammazione ha fornito risultati interessati in ambito psichiatrico, in particolare rispetto alla schizofrenia, al disturbo bipolare (BD – bipolar disorder) e alla depressione maggiore (MDD – major depressive disorder). Questi tre disturbi rappresentano ad oggi le patologie che comportano una maggiore compromissione e gravità in ambito psichiatrico. La schizofrenia, fra queste, è forse la più conosciuta in assoluto, a causa della sua caratteristica sintomatologia positiva (deliri e allucinazioni), insieme ad un marcato deficit cognitivo e sociale.

Il disturbo bipolare, invece, si caratterizza per un’ alternanza di episodi ipomaniacali (disturbo bipolare I), maniacali o misti (disturbo bipolare II) e depressivi con fasi “depressive”. Infine, la depressione maggiore, ed in particolare la depressione maggiore ricorrente, è definita da un umore deflesso solitamente accompagnato da sentimenti di svalutazione, perdita degli interessi, apatia e anedonia. Partendo da quest’ultimo, gli studi che hanno valutato il ruolo esercitato dalle molecole inerenti l’infiammazione nella MDD hanno più volte riscontrato le due cose come associate: i pazienti affetti da MDD che non hanno mai assunto degli psicofarmaci (drug-naive), mostrano un’alterazione dell’equilibrio fra fattori pro-infiammatori, come IL-1β, IL-2, IL-6, interferone-γ (IFN- γ), TNF ed i fattori anti-infiammatori (IL-4, IL-10). In particolare, in una recentissima review di Ke e collaboratori [2] sul ruolo svolto dalle citochine, ed in particolare dal TNF-α nella MDD, viene riportato come gli elevati livelli dei fattori pro-infiammatori riscontrati nei pazienti possano contribuire alla patogenesi del disturbo; anche gli studi pre-clinici su modelli animali mostrano come, iniettando elevati livelli di citochine pro-infiammatorie, l’animale inizi a mostrare dei sintomi e comportamenti simil-depressivi, dando ancora maggior appoggio alla teoria “macrofagica della depressione”, così come inizialmente definita da Smith, ed oggi riconosciuta come “teoria della depressione basata sulle citochine”.

Altri studi hanno dimostrato come le molecole pro-infiammatorie correlino positivamente con la gravità della sintomatologia depressiva (all’aumentare del numero di molecole pro-infiammatorie, aumenta la gravità dei sintomi). Invece, gli studi inerenti le terapie farmacologiche hanno dimostrato che l’utilizzo di antidepressivi riduce il rilascio di fattori infiammatori circolanti, incrementando anzi il rilascio di antagonisti endogeni delle citochine pro-infiammatorie come IL-10. Di converso, sia le molecole pro-infiammatorie che i fattori di crescita neuronale sono in grado di influenzare la risposta agli psicofarmaci. I pazienti affetti da MDD presentano bassi livelli della neurotrofina BDNF (brain-derived neurotrophic factor): studi recenti mostrano come i pazienti che presentano, alla baseline, livelli maggiori di BDNF rispetto al decremento generale riportato, hanno anche una risposta migliore agli antidepressivi, in particolare agli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina); infine, sembra che gli antidepressivi stessi, siano in grado di aumentare la produzione di BDNF circolante.

I fattori neuroinfiammatori risultano essere correlati anche con il rischio di suicidio, presente in tutte e tre le patologie psichiatriche sopra citate (MDD, BD e schizofrenia). Se comparati con pazienti depressi senza ideazione suicidaria, i pazienti con MDD che nella sintomatologia presentano anche un’ideazione sucidaria hanno dei livelli maggiori di molecole infiammatorie circolanti a livello periferico. Sembra sia oltretutto possibile identificare un profilo distinto di citochine periferiche caratteristico dei pazienti con MDD suicidi rispetto ai pazienti depressi.

Infine, gli stessi fattori che potrebbero essere implicati nella patogenesi e nel mantenimento di queste patologie psichiatriche sembrano avere anche un effetto sulla struttura cerebrale dei pazienti: tra gli studi recenti, uno degli ultimi lavori del gruppo di Benedetti e colleghi ha riportato una relazione fra alcune citochine pro-infiammatorie e gli indici di integrità della sostanza bianca (basati sulla diffusione delle molecole d’acqua nel cervello). In particolare, queste molecole erano associate significativamente con una diminuzione degli indici di integrità della sostanza bianca (anisotropia frazionaria) e con un aumento degli indici di permeabilità della guaina mielinica che riveste l’assone (diffusività radiale e media) in differenti fasci globalmente localizzati.

In conclusione, gli studi che hanno investigato il ruolo svolto dalla neuroinfiammazione hanno dimostrato che esiste un’alterazione generale dei parametri infiammatori nei pazienti affetti dalle principali patologie psichiatriche (MDD, BD e schizofrenia), sia in relazione alla patologia in quanto tale, sia rispetto alla sintomatologia e alle caratteristiche cerebrali strutturali (sostanza bianca e sostanza grigia). Risulta quindi essere di fondamentale importanza l’integrazione fra i dati provenienti dal mondo clinico con quelli più di carattere neuro scientifico e biologico per approfondire ulteriormente il ruolo e gli effetti della neuroinfiammazione in ambito psichiatrico.

 

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