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La deriva dello psicoterapeuta: possibili errori e inefficacia clinica secondo Glenn Waller

La tendenza dei terapeuti a prendere inconsapevolmente le distanze dai protocolli inseguendo una pratica “creativa” e le conseguenze sull'efficacia clinica

Di Claudio Nuzzo

Pubblicato il 21 Lug. 2017

Aggiornato il 08 Set. 2017 16:22

Ad oggi la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) rappresenta la scelta preferibile per il trattamento della stragrande maggioranza dei disturbi (Roth e Fonagy, 1996). Tuttavia questi risultati provengono da trials rigorosi, superiori rispetto al setting clinico nel controllo delle variabili in gioco e nella selezione dei pazienti da esaminare.

Secondo Glenn Waller, oggi a capo del dipartimento di psicologia dell’Università di Sheffield, molte delle problematiche connesse all’efficacia del trattamento sarebbero rintracciabili non nella solidità dei protocolli CBT, bensì nella tendenza del terapeuta a prendere inconsapevolmente le distanze dagli stessi inseguendo una pratica “creativa”. Questo, peraltro, in assenza di evidenze scientifiche che dimostrino che una terapia più elastica sia maggiormente efficace rispetto ai protocolli!

La deriva dello psicoterapeuta

Waller chiama questo deragliamento dai protocolli “deriva” dello psicoterapeuta (therapist drift) e sostiene che generalmente essa sopraggiunge in risposta ad una crisi nella terapia, quando siamo incapaci di pianificare il necessario successivo passo. Ciò che come clinici dobbiamo ricordare è che uno degli aspetti chiave della CBT è insegnare al paziente ad essere il terapeuta di se stesso, quindi noi in primis dobbiamo fornire un buon modello dal quale il paziente impari (ad es., scoraggiare la tendenza a non portare a termine gli homeworks tra una seduta e l’altra). Inoltre, è bene tenere in considerazione il fatto che gli errori in terapia non sono privi di costi per il paziente, ma possono addirittura esacerbare il disturbo o minare la possibilità che il paziente si rivolga nuovamente ad un trattamento di tipo cognitivo-comportamentale (ad es., un paziente con alle spalle un percorso di CBT conclusosi nel fallimento, evidenzierà una minore motivazione al trattamento durante un successivo percorso terapeutico cognitivo-comportamentale).

Prima di tutto, la relazione

Per una buona pratica clinica quanto più scevra di rischi, Waller prescrive come primo passo quello di instaurare una relazione tra terapeuta e paziente che sia collaborativa, empatica e non giudicante. Citando il lavoro di Marsha Linehan (1993), egli afferma che tutti i problemi che sopraggiungono in seduta devono essere affrontati con collaborazione dalla coppia, non con la volontà di trovare un colpevole.

Bias cognitivi del terapeuta

Tra i bias cognitivi più comuni negli psicoterapeuti e responsabili della deriva, Waller rintraccia quello di attribuire a cause esterne il fallimento della terapia; ciò può essere rinforzato dalla tendenza del paziente ad auto-incolparsi. Inoltre, il terapeuta a volte tende a ricercare evidenze che sostengano i suoi preconcetti (ad es., il paziente è motivato al cambiamento o può essere portato ad esserlo) e ad evitare quelle che li invalidano (ad es., il paziente non completa gli homeworks). Questo avviene in quanto il clinico è un essere umano come tutti, vittima degli stessi errori rintracciabili nei suoi pazienti.

Un altro bias cognitivo molto comune dei terapeuti è il pensiero dicotomico (black and white thinking). Ad esempio, il clinico può prendere in considerazione solo alcuni dati nel giudicare il successo della terapia ed ignorarne altri (ad es., la qualità di vita generale del paziente può migliorare, ma se permangono alcuni sintomi chiave del/dei disturbo/i non possiamo parlare di risoluzione dello stesso).

Ancora, è frequente un atteggiamento di tolleranza nei propri confronti da parte dei terapeuti (ad es., “poco importa se il paziente non ha svolto i compiti assegnati, li completerà per la prossima seduta”). Infine, anche il pensiero magico può interferire con le valutazioni del clinico. Pensiamo, ad esempio, ai risultati retest di un questionario self-report per la sintomatologia depressiva che evidenzia il passaggio da un disturbo depressivo maggiore “moderato” a “lieve”; sebbene una situazione del genere conduce innumerevoli volte a parlare di un miglioramento, spesso il cambiamento è circoscritto al punteggio del test, mentre la qualità di vita del paziente pare immutata.

Emozioni delle quali essere consapevoli

Le emozioni, poi, contribuiscono notevolmente alla deriva del terapeuta. Infatti, il clinico può sperimentare ansia riguardo la sua/e prestazione/i, paura per eventuali valutazioni negative da parte del paziente, vergogna per non essere stato in grado di trattarlo adeguatamente e colpa. Essere consapevoli che tali emozioni possono manifestarsi e possono non essere funzionali al raggiungimento dei nostri obiettivi è di primaria importanza. I terapeuti, a causa di queste emozioni, possono evitare il confronto in supervisione e fallire nel considerare ulteriori alternative di trattamento. La chiave per evitare scivoloni professionali in questo ambito è sviluppare una buona consapevolezza dei nostri stati emotivi e dell’influenza che possono avere sul percorso terapeutico.

I comportamenti controproducenti: legati al contesto e di sicurezza

Riguardo i comportamenti del terapeuta, invece, Waller distingue quelli dettati dal contesto di lavoro (context-driver behaviours) e i cosiddetti comportamenti di sicurezza (clinicians’ safety behaviours). Tra i primi annoveriamo quelli conseguenti a uno stato di spossatezza del clinico, dovuti ad un ingente carico di lavoro o ad un contesto di lavoro altamente stressante. E’ importante essere consapevoli del ruolo che la fatica e lo stress hanno sulla qualità del lavoro svolto. E’ perciò buona norma – soprattutto nel caso di terapeuti giovani – evitare di prendere in carico troppi pazienti per volta e non cadere nella trappola di pensarsi l’unico/a in grado (o in dovere) di aiutare un paziente. In aggiunta, un terapeuta esausto è meno incline ad iscriversi a corsi di perfezionamento o formazione, che possono mantenere o incrementare le capacità professionali dello stesso.

Comportamenti di sicurezza

I comportamenti di sicurezza, invece, contribuiscono a far sì che il paziente non proceda nel suo percorso di cambiamento. Spesso, infatti, molti terapeuti procrastinano il momento in cui il paziente deve confrontarsi con le situazioni temute (esposizioni), o le acquisizioni di nuove skills ed esperimenti comportamentali in generale, nel tentativo di evitare che il paziente possa sperimentare nel breve periodo un ulteriore stress, in particolare stati ansiosi o depressivi conseguenti ad un fallimento nei compiti. Questo, come se il paziente dovesse mostrare inequivocabilmente cambiamenti positivi durante ogni step della terapia e in linea con il pensiero che sia meglio non tentare alcun cambiamento piuttosto che incorrere in uno negativo.

Tuttavia, affinché un cambiamento (da una situazione poco gradita o di disagio ad una più tollerabile o soddisfacente) abbia luogo, il paziente deve scardinare i suoi schemi e le sue abitudini, ritrovarsi in una situazione poco confortevole, dove talvolta può sentirsi spaesato, e infine approdare a nuove strategie di coping che, col tempo, struttureranno una più funzionale routine. Tentare perciò di aggirare gli ostacoli terrifici ma necessari di questo percorso, equivale ad istituire uno stallo che se non percepito porterà al fallimento della terapia, se invece notato allora genererà in uno dei due attori un senso di noia e frustrazione.

Gli elementi comportamentali della CBT – il fondamentale “B” nell’acronimo – dovrebbero essere tra i pilastri fondamentali nella formazione di un buon terapeuta che aderisce ai suoi principi, per questo è difficile comprendere come egli possa evitare di proporli subito o sottrarsi dall’invitare il paziente a completare quanto richiesto. Tuttavia, i comportamenti di sicurezza non sono dettati da un mal di pancia nei confronti della CBT classica, ma sembrano finalizzati a proteggere un’immagine del terapeuta deputato a migliorare la qualità di vita del paziente sempre e comunque e ad evitargli ulteriori stati emotivi negativi. Oltre a ciò vi è la paura del giudizio negativo da parte del paziente, che rischia di far sperimentare colpa e vergogna al clinico per non essere stato all’altezza del suo ruolo; per tale motivo Waller etichetta “comportamenti di sicurezza” queste condotte. Questo modo di agire peraltro elicita nel paziente i propri comportamenti di sicurezza – come l’evitamento – e bloccano il percorso terapeutico.

Altre volte è il paziente a non completare quanto richiesto dal buon terapeuta, evidenziando di fatto un pattern di evitamento. Un classico esempio è rappresentato dal paziente che ad ogni seduta si presenta con un nuovo problema – marginalmente connesso agli obiettivi concordati della terapia – di cui vuole assolutamente parlare e che dal suo punto di vista richiede massima priorità e la seduta di fatto si incentra totalmente su quell’argomento. Qui la responsabilità del buon clinico è quella di non rinforzare tale evitamento ma, con autorevolezza, focalizzare l’attenzione della coppia su questo pattern e discuterne, oltre che considerare insieme al paziente pro e contro del cambiamento e dei comportamenti di sicurezza.

Scegliere le terapie migliori in base alle evidenze sperimentali di efficacia

Un’ultima parte dell’articolo Waller la dedica alla tendenza sempre più comune dei terapeuti ad optare per le cosiddette terapie di terza ondata del cognitivismo a scapito della CBT classica. Sebbene siano ormai molti i protocolli efficaci appartenenti a queste terapie pensati per specifici disturbi [Studi di efficacia pubblicati dopo l’articolo di Waller del 2009 – NdR], l’autore sottolinea che può accadere che lo psicoterapeuta aggiunga al suo repertorio parti di protocolli che utilizza in modo idiosincratico applicandoli a patologie altre per le quali invece l’efficacia non e’ stata comprovata in modo specifico. Ciò che raccomanda l’autore, infine, è quello di scegliere con attenzione la terapia migliore per il disturbo rintracciato nel paziente ed evitare di proporre in modo inflessibile una singola terapia.

Conclusioni

Concludendo, gli errori da parte del clinico devono essere messi in conto in terapia, come un equo scotto da pagare in cambio di una sensibilità tutta umana che gli permette di sintonizzarsi con il paziente e di aiutarlo. Tuttavia un bravo terapeuta è tale quando è in grado di riconoscerli (e quando possibile di prevenirli) correttamente e sa come fronteggiarli. Waller ricorda inoltre l’importanza di una costante supervisione, che si svolga in un clima non-giudicante e che permetta al terapeuta di aprirsi e di condividere i suoi stati emotivi.

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