I nuclei di significato contenuti nella fiaba de Il brutto anatroccolo sono molti, e ciascuno merita attenzione. Quello principale è certamente l’esilio della diversità: è la storia di una diversità sofferta, sulla quale pesano come macigni delle colpe, in realtà puramente attribuite dall’esterno. Questa fiaba contiene una verità basilare per lo sviluppo umano, una delle rare storie che “incoraggiarono successive generazioni di outsiders a non darsi per vinte”.
La fiaba de Il brutto anatroccolo
Il ghiaccio dev’essere rotto e l’anima tolta dal gelo. […] Fate come l’anatroccolo. Andate avanti, datevi da fare. […] In linea di massima ciò che si muove non congela. Muovetevi dunque, non smettete di muovervi.” (C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)
La storia del brutto anatroccolo, piccolo cigno nato – per errore – in una comunità di anatre, è una fiaba capace di evocare significati profondi. Nella rilettura di Clarissa Pinkola Estés, lo sfortunato protagonista diviene simbolo delle sofferenze legate alla costruzione di una sana immagine di sé, alle relazioni, alle tante forme di dipendenza declinata al femminile.
Il brutto anatroccolo, vittima innocente di uno scherzo del destino, è destinato a pagare duramente per la sua diversità subendo la derisione, lo scherno, le umiliazioni, fino all’esilio dalla comunità natìa. La stessa madre, che inizialmente tenta di proteggerlo da torti e violenze, finirà per allontanarlo. Nel suo peregrinare alla ricerca di qualcuno che lo accolga, il brutto anatroccolo cercherà riparo presso esseri umani, altri animali e altri luoghi: ogni volta, i suoi sforzi si tradurranno in dolorosi fallimenti. Viaggerà a lungo, rischiando più volte di morire, fino a ritrovarsi, per caso e con notevole stupore, accolto con affetto dai suoi simili, i maestosi cigni.
I significati contenuti nella fiaba
I nuclei di significato contenuti nella fiaba sono molti, e ciascuno merita attenzione. Quello principale è certamente l’esilio della diversità: è la storia di una diversità sofferta, sulla quale pesano come macigni delle colpe, in realtà puramente attribuite dall’esterno. Questa fiaba contiene una verità basilare per lo sviluppo umano, una delle rare storie che “incoraggiarono successive generazioni di outsiders a non darsi per vinte”. (Pinkola Estés, 1993)
Altro aspetto estremamente significativo è la complessità della figura materna. Una madre che, dapprima, prova a difendere il suo piccolo dagli attacchi, ma finisce per adattarsi al volere del branco. Siamo quindi di fronte ad una madre psichicamente divisa, ambivalente. Da un lato il desiderio di proteggere suo figlio, dall’altro la spinta all’autoconservazione. Nelle culture punitive, puntualizza l’autrice, non è una situazione inusuale per una donna. Si tratti di un figlio reale o simbolico (l’arte, la creatività, gli ideali politici, l’amore) sono tante le donne morte psichicamente e spiritualmente nel tentativo di proteggere il “figlio non autorizzato” dalla società. Talvolta sono state addirittura bruciate, assassinate o impiccate, come punizione per aver sfidato le regole sociali e per aver protetto o occultato la loro “creatura socialmente inaccettabile”.
“Non cedete. Troverete la vostra strada. […] Questo è dunque il lavoro finale della persona in esilio che si ritrova: accettare la propria individualità, l’identità specifica, ma anche accettare la propria bellezza… la forma della propria anima”
(C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)
E come non soffermarsi sulla costante ricerca di amore nei posti sbagliati? Un comportamento che porta il brutto anatroccolo a rischiare più volte la propria vita, per il semplice fatto di “bussare alle porte sbagliate”. Del resto, “è difficile immaginare come una persona possa riconoscere la porta giusta, se non ne ha ancora mai trovata una” (Pinkola Estés). Riferendosi in particolare al mondo femminile, l’autrice evidenzia l’assonanza con quella straziante ricerca di amore, a volte ripetuta in modo ostinato ed inconsapevole, che comporta l’acuirsi della ferita originaria, anziché lenirla. Una necessità di riempire il vuoto interiore con le cose più disponibili o facilmente reperibili: le “medicine sbagliate” (Pinkola Estes) che per alcune donne sono rappresentate da compagnie pericolose, per altre da eccessi malsani, per altre ancora da quegli amori che non riconoscono né accettano i talenti, le doti, i limiti della propria compagna.
Ulteriore aspetto sostanziale è la condizione di “orfano di madre” che l’anatroccolo si ritroverà a subire. Privo degli adeguati insegnamenti materni, procederà nella sua vita per prove ed errori, poiché il suo istinto non sarà stato affinato e risvegliato da una madre amorevole. Allo stesso modo, la donna orfana di madre apprenderà, secondo l’autrice, provando e compiendo innumerevoli errori, poiché le manca quel medesimo “istinto” che, sebbene insito nella natura, solo una madre amorevole potrebbe risvegliare.
“Se avete tentato di adattarvi a uno stampo e non ci siete riusciti, probabilmente avete avuto fortuna. Potete essere in esilio, ma vi siete protetti l’anima. […] È peggio restare nel luogo cui non si appartiene che vagare sperduti, alla ricerca dell’affinità di cui si ha bisogno. Non è mai un errore cercarla.” (C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)
Tra le diverse sottolineature dell’autrice, vi è quella sul valore dell’esilio. L’anatroccolo vaga, rischia la morte, non permane nella comunità a lui ostile, né si adagia: decide di cercare. Qualcosa in lui riesce a temprarsi durante quell’esilio che, sebbene imposto e fortemente doloroso, permetterà all’anatroccolo di riscoprirsi, alla fine, più forte e addirittura molto più bello. Allo stesso modo, come suggerisce la Estés, è preferibile proteggere la propria anima, esiliandosi rispetto a chi non ci accetta, piuttosto che restare in un luogo cui non si appartiene.
A quest’ultimo aspetto si collega naturalmente quello che appare il nucleo vitale della fiaba, la scoperta dello stato di grazia dell’appartenenza: l’approdo finale dell’anatroccolo nella sua comunità naturale sembra rinvigorire tutto il suo essere, colmandolo di nuove energie e di slancio vitale, in una sorta di “riappropriazione del sé” che pone l’animo in una condizione di rinascita, di gioia e di vitalità. Le stesse, sottolinea l’autrice, che si avvertono quando si sperimenta l’appartenenza, la condivisione naturale tra esseri affini. E “non è mai un errore cercarla”, pur nelle condizioni più difficili ed aspre, anche rischiando ciò che si possiede. Perché è valore fondante del nostro stesso Essere e del Vivere pienamente, quel sentire di essere accolti e di appartenere.