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Morire di carcere: un’interpretazione psicologica del suicidio dietro le sbarre

Solitudine, segregazione, scarsa autonomia, assenza di speranza, ambienti fisici angusti: condizioni che possono aumentare il rischio di suicidio in carcere

Di Angela Ganci

Pubblicato il 16 Mag. 2017

Morire, togliersi la vita, come soluzione estrema a un dolore intollerabile: ma quali connotati specifici assume il suicidio in carcere? Quali peculiarità presenta questo evento nefasto, irrimediabile, all’interno della realtà carceraria?

 

Un atto di eliminazione di se stesso, deliberatamente iniziato ed eseguito dalla persona interessata, nella piena consapevolezza o aspettativa di un risultato fatale”: questa la definizione di suicidio che fornisce nel 1998 l’OMS e che rappresenta in se stessa tutta la tragicità del tema.

Morire, togliersi la vita, come soluzione estrema a un dolore intollerabile: ma quali connotati specifici assume il suicidio in carcere? Quali peculiarità presenta questo evento nefasto, irrimediabile, all’interno della realtà carceraria?

 

Suicidio in carcere: uno sguardo ai dati

Secondo il dossier Morire di carcere del gruppo Ristretti Orizzonti, al 24 aprile 2017, sono 949 i casi di suicidio in carcere totali tra il 2000 e il 2017 (Ristretti. it, 2017); un numero che ha toccato le 1312 unità se si considera il periodo compreso tra il 1990 e il 2014 (con un tasso di suicidio pari al 9,88%). Un dramma considerato che il tasso di suicidi nella popolazione italiana fuori dal carcere fra il 1990 e il 2014 è stato dello 0,5 ogni 10.000 residenti, quindi con una frequenza di suicidio in carcere di circa venti volte superiore (Digiovanni, 2015).

Cifre allarmanti che richiedono una spiegazione da rintracciare all’interno della condizione esistenziale del detenuto in una prospettiva che superi una visione tradizionalista legata alla psicopatologia individuale e consideri invece l’ambiente carcerario come luogo di relazioni mancate.

 

I vissuti del detenuto: perché la scelta suicidaria?

Solitudine, segregazione tanto fisica quanto psicologica, scarsa autonomia (dall’orario in cui svegliarsi a quello in cui mangiare) generano assenza di speranza, all’interno di ambienti fisici angusti come le celle o anonimi e ampi come i corridori: condizioni drammatiche di impotenza decisionale e isolamento che possono portare alla scelta suicidaria.

Un fenomeno noto come spoliazione del Sé che, all’ingresso di un’istituzione totale come il carcere, consiste in atti mortificatori come la sottrazione di oggetti personali, la negazione della sessualità, fino all’adeguamento al ruolo di internato sottoposto a regole rigide, imposte dall’esterno, e la perdita delle relazioni con il mondo esterno (Goffman, 1961).

Una scelta, quella del suicidio in carcere, nata, quindi, dall’alienazione, e che tocca il suo apice in particolari momenti stressanti, con una frequenza alta nei primi giorni d’ingresso in carcere, o in occasione della notizia della revoca di una misura alternativa o dell’abbandono del coniuge (Manconi e Torrente, 2015, citati in Digiovanni, 2015).

Se questa condizione di estraniazione dalla condizione di essere umano titolare di diritti è difficile da gestire nel periodo successivo alla condanna, situazione analoga si presenta in attesa della sentenza: secondo un uno studio condotto da Torrente (2009) in Piemonte, Liguria e Campania, 25 persone su 48 decidono di commettere suicidio in carcere mentre sono ancora sottoposte a misura cautelare, a indicare come l’incertezza sul futuro pesi non meno dell’inevitabilità di una condanna (citato in Digiovanni, 2015). Osservando nel dettaglio gli eventi precipitanti (e inibenti) la scelta suicidaria alcuni fattori risultano dominanti.

Rispetto al fattore individuale che favorirebbe il fenomeno del suicidio in carcere, Baccaro e Morelli (2009, citati in Digiovanni, 2015) prendono in considerazione il fattore resilienza (e la sua assenza) come contraddistinto dalla capacità di sognare, dall’ironia, dallo stato di salute pre-carcere, dalle risorse intellettive e dalla presenza di reti sociali e familiari. Esistono poi elementi propri dell’organizzazione carceraria che favoriscono la disperazione che porterebbe poi al proliferare di casi di suicidio in carcere, tra questi un regime che limita la mobilità, l’inattività prolungata e la presenza di regole autoritarie, che prevedono sanzioni disciplinari, isolamento, orari rigidi.

Accanto a una gestione di tipo autoritario/restrittivo e all’assenza di opportunità rieducative, influisce anche il fattore sovraffollamento carcerario, con tutte le sue conseguenze riscontrabili nella scarsa igiene, dovuta a condizioni disumane di convivenza che, secondo la Corte europea, si sostanziano nella permanenza in meno di 3 m² di spazio vitale per ciascun detenuto. Dignità persa che vanifica la stessa funzione rieducativa della pena e che limita l’accesso alle opportunità rieducative, a causa dell’elevato numero di detenuti.

In una siffatta cornice di regole asfittiche precostituite e limitazione degli spazi di movimento, si inserisce un potente fattore che aggrava la pena e la restrizione della libertà: in carcere il concetto di tempo e spazio muta, delineando un mondo chiuso dove l’allontanamento fisico dalla società (rappresentato dalle porte delle prigioni) determina abbandono e sconforto (Gonin, 1994, citato in Digiovanni, 2015).

Segregazione interna, separazione da se stessi e dalla propria autodeterminazione, ma anche allontanamento fisico dalla città (il carcere posto per lo più ai confini cittadini) rimandano al meccanismo psichico della rimozione, dove vi è un condannato da dimenticare, cattivo, colpevole fonte di vergogna. In tale contesto i rapporti con la propria famiglia, così vitali per il benessere psicologico, risultano spesso sporadici, segnati da una riservatezza non prevista dall’Ordinamento penitenziario (per lo più infatti i colloqui avvengono alla presenza degli operatori penitenziari). Ecco che uno spazio fisico vuoto, ampio (i corridoi) ovvero minuscolo (una cella microscopica per un essere umano), si veste da non luogo che accresce le sofferenze.

E se è vero che “la relazione è quella che fa di uno spazio un luogo” (Buffa, 2015) si evince la priorità di una umanizzazione della pena, che preceda l’importanza di un’attenzione agli spazi fisici, addirittura alla salute fisica dei detenuti (Digiovanni, 2015). Perché è all’interno di una relazione fondata sulla comunicazione (con gli operatori, con la società), e incentrata sul coinvolgimento attivo del detenuto alla sua risocializzazione (e non sull’aprioristica imposizione di regole e punizioni), che può accrescersi la fiducia nel futuro e la resilienza nella disperazione. Viceversa, l’unica forma di comunicazione che il detenuto potrà tentare è quella di un corpo martoriato, ferito, punito, in una privazione volontaria della propria esistenza che esprime l’unica di libertà di scelta (e paradossalmente di vita) che un’istituzione totale può concedere.

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Angela Ganci
Angela Ganci

Psicologia & Psicoterapeuta, Ricercatrice, Giornalista Pubblicista.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Buffa, P. (2015). Umanizzare il carcere. Roma: Laurus Robuffo
  • Centro Studi di Ristretti Orizzonti (2017). Morire di carcere: dossier 2000 – 2017. Consultato il 24 Aprile 2017 su http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/index.htm
  • Digiovanni, Y. (A.A. 2015/2016). Il linguaggio della reclusione: suicidio e autolesionismo in carcere (Elaborato finale, Corso di Laurea Triennale in Scienze e Tecniche Psicologiche Elaborato finale, Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Psicologia)
  • Goffman, E. (1961). Asylum. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza. Torino: Einaudi
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