Transfert: Ferenczi (1932) per primo si rese conto che odio, sadismo e aggressività sono forze sempre presenti nei rapporti di amore. Nel suo Diario Clinico riconosce con grande lucidità che i propri sentimenti infantili di aggressività e odio nei confronti della madre erano spesso spostati sui pazienti. Questa idea è stata ampiamente accolta e vagliata sia in ambito clinico che al di fuori della stanza di analisi; di fatto oggi le forze dell’aggressività sono considerate strumentali al legame che si crea nelle relazioni amorose.
I sentimenti di odio e aggressività nel transfert analitico
Kernberg (1991) ha osservato in proposito che: “un uomo e una donna che scoprono la loro attrazione e il loro desiderio reciproco […] esprimono non soltanto la loro capacità di unire inconsciamente erotismo e tenerezza, sessualità e ideale dell’Io, ma anche di reclutare l’aggressività al servizio dell’amore” (p. 46-47).
Come afferma efficacemente Brenner (1982) il fatto che l’amore sia regolarmente mescolato all’odio e viceversa è frutto di osservazione empirica, non di logica o di definizione. Si tratta quindi di una questione pratica con conseguenze parimente pratiche per il lavoro analitico.
In linea generale viene riconosciuta valida la distinzione per cui la forma “benigna” di odio di transfert, come la sua controparte erotica, si manifesta in modo caratteristico nei pazienti con organizzazione nevrotica, mentre la variante “maligna”, come il transfert erotizzato, è più frequente nei pazienti con organizzazione psicotica o borderline (Kernberg 1984). Questa distinzione non ha valore assoluto ma è clinicamente utile per concettualizzare la forma prevalente di erotismo (o di odio) nel transfert in relazione al livello di organizzazione dell’Io riscontrato nel paziente.
Tuttavia è bene tenere a mente l’avvertimento della Little (1966) per la quale è possibile osservare transfert normali, nevrotici e psicotici nello stesso paziente all’interno della stessa seduta secondo un’oscillazione che potrebbe essere difficilmente afferrabile all’istante da parte dell’analista.
Mi pare comunque evidente in letteratura la tendenza a considerare e trattare le forme estreme di erotizzazione transferale alla stregua di quel fenomeno che Guidi (1994) puntualizza come “transfert negativo irreprensibile” o come specifiche narrazioni del problema relazionale ed emotivo quale si sta realizzando in quel momento nella stanza di analisi. Infatti, Ferro (1996) considera la sessualità e l’aggressività nel processo analitico come possibili linguaggi o comunicazioni: “di quanto il paziente non ha ancora consapevolezza di poter esprimere in modo meno mediato, rispetto all’analisi, e in maggior contatto con le proprie verità emotive […] e non è l’esplicitare questo il fattore terapeutico, quanto piuttosto il poter trasformare tutto l’ ”a monte” di questo” (Ferro 1996, p. 116).
Le azioni terapeutiche in casi di eccessiva erotizzazione o aggressività nel transfert
Secondo Gabbard (1996) le azioni terapeutiche indispensabili per creare lo spazio analitico in situazioni di intensa erotizzazione o aggressività sono: il contenimento, l’interpretazione differita e l’integrazione. Vediamoli in dettaglio.
Il contenimento si riferisce alla capacità dell’analista di pensare, metabolizzare e disintossicare i contenuti mentali che il paziente proietta in lui (Bion 1962). Esso implica una tacita elaborazione ma anche chiarificazioni verbali di ciò che accade nella diade paziente-analista. Inoltre presuppone numerosi altri processi tra cui l’identificazione di stati affettivi nell’analista e la diagnosi delle relazioni oggettuali interne del paziente in virtù della loro manifestazione nella coppia analitica attraverso l’identificazione proiettiva. Ma presuppone anche un costante processo di autoanalisi nel tentativo di individuare i contributi dell’analista stesso alle difficoltà con il paziente e di chiarire le manovre difensive messe in atto.
Anche Winnicott (1968) valorizza quell’aspetto del contenimento che comunica al paziente la durevolezza dell’analista in quanto oggetto, resistente, che non viene distrutto dai suoi attacchi. Come la madre sopravvive agli attacchi primitivi del bambino perché questo possa procedere sulla via dello sviluppo, anche l’analista deve servire al paziente come figura esterna reale che sfugge al suo controllo onnipotente. Per Winnicott (1968) sopravvivere significa mancanza di ritorsioni e avverte specificamente di non usare l’interpretazione nel bel mezzo degli attacchi del paziente per poi discutere di ciò che è accaduto quando la fase distruttiva si è conclusa.
Venendo ora al tema del differimento e dilazione dell’interpretazione, seguiamo ancora Gabbard (1996) quando afferma che per arrivare ai problemi transferali primitivi l’analista deve sospendere la propria attività interpretativa per tutta dal durata della dinamica distruttiva. Dopo di ché le funzioni profonde svolte dall’erotizzazione e dall’odio, mentalmente annotate durante il processo di contenimento, possono essere interpretate.
Questo differimento dell’interpretazione è necessario per diverse ragioni. In primo luogo perché è improbabile che il paziente sia in grado di fruire delle determinanti inconsce comunicate dall’interpretazione se è in atto un attacco diffuso ai legami con gli oggetti buoni (Bion 1959). In secondo luogo è imperativo che l’analista abbia prima sviluppato una sufficiente comprensione del proprio controtransfert e abbia elaborato le proiezioni del paziente abbastanza da aver ristabilito il proprio spazio analitico interno. Bollas (1990) al riguardo ha opportunamente notato: “E quando certi pazienti psicotici incoraggiano le regressioni nell’analista, più che in se stessi, gli analisti devono tollerare gli episodi regressivi, da cui usciranno con il tempo, la pazienza e il lavoro riflessivo. Quando ciò accade, la comprensione analitica e l’interpretazione sono in primo luogo curative per l’analista, che sta meglio di prima” (Bollas 1990, p.352). Anche secondo Carpy (1989), sostenitore del differimento dell’interpretazione, il paziente inizierà a utilizzare gli interventi interpretativi in modo costruttivo solo quando riconoscerà aspetti di se stesso nell’analista.
Quando finalmente emergeranno in superficie gli aspetti scissi e isolati della personalità del paziente potrà essere usata efficacemente l’interpretazione.
A questo punto insorge un nuovo compito per l’analista che consiste nel procedere all’integrazione di questi aspetti del sé (Gabbard 1996). Ricollegare le isole di amore con i nuclei dell’odio restituisce al paziente il senso della propria soggettività e mette a sua disposizione una diversa modalità di lavoro analitico in conseguenza del suo essere entrato in uno spazio appunto analitico. Può ora pensare simbolicamente a ciò che accade nella relazione analista-paziente ed essere osservatore di pensieri e sentimenti in quanto creazioni intrapsichiche piuttosto che come percezioni fattuali incontrovertibili (Ogden 1989).
Con questo processo, che può comportare anche tempi lunghi, si normalizza in un certo senso il rapporto analitico secondo una dinamica che smussando le asperità provocate dalle implicazioni sessuali avviano paziente e terapeuta verso quella meta ambita chiamata risoluzione che non è detto che sia raggiungibile. E qui ecco il tema dell’analisi finita o infinita su cui siamo ancora debitori a Freud.