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Suicidio e Tempo, tra la vita e la morte: una riflessione filosofica

La vita e il tempo definiscono l'esistenza di un individuo e il suicidio è un evento intenzionale che si decide quando si è ancora in vita.

Di Roberto Minotti, Guest

Pubblicato il 22 Mar. 2017

Aggiornato il 24 Mag. 2017 15:16

Se la vita e il tempo si dispiegano assieme per formare ciò che chiamiamo esistenza, ed il suicidio si compie in questo tempo, allora il suicidio è un gesto della vita, un’espressione in comunione con il fluire del tempo. 

Roberto Minotti e Paulina Szczepanczyk

 

«Vi è solamente un problema filosofico
veramente serio: quello del suicidio.
Giudicare se la vita valga o non valga la
pena di essere vissuta, è rispondere al
quesito fondamentale della filosofia.»

 

Il suicidio è davvero un atto disperato contro la vita? Ma cos’è “vita” e cosa è “morte” per l’individuo, un essere costituito non solo di corporeità e finitudine organica, ma soprattutto di sogni, spirito e trascendenza?
Se osservassimo con maggior cura le ferite invisibili dell’anima, comprenderemmo che il suicidio reale non avviene con la morte del corpo, ma con la sconfitta dello spirito.
Se la vita e il tempo si dispiegano assieme per formare ciò che chiamiamo esistenza, ed il suicidio si compie in questo tempo, allora il suicidio è un gesto della vita, un’espressione in comunione con il fluire del tempo.

La vita ha in sé un’ostinazione così grande a realizzarsi che oltrepassa qualsiasi ragione e qualsiasi ostacolo. Esiste la vita e non il nulla, poiché la volontà che tutto muove non può far altro che generare esistenza. Ma se la vita è così determinata ad esprimere una volontà assoluta ad esistere, perché c’è il suicidio?
In questo lavoro, oltre a tentare di rispondere a tali domande, si cercherà di approcciarsi in modo olistico alla problematica del suicidio.

Per tale ragione, approcciarsi ad una problematica come il suicidio, reputando questo comportamento un errore o un oltraggio alla verità della vita, significherebbe banalizzare la complessità di tematica riducendola a una condotta da correggere o da eliminare. Ma possiamo mai immaginare l’esistenza dell’essere umano senza più il suicidio? Nonostante questo atto sia così tragico ed estremo, possiamo intuire quanto sia profondamente legato alla volontà e al libero arbitrio, caratteristiche fondamentali del genere umano. Un approccio complesso e rigoroso deve poter intuire che alla verità della vita si contrappone la verità della morte, e tra questi due momenti esiste la verità della libertà del volere umano.

 

Il suicidio nella società post-moderna

In questi ultimi decenni si sono scritti molti articoli e si sono fatte moltissime ricerche sul problema del suicidio. Su tale argomento si sono sviluppate teorie, approcci, metodi d’intervento e di prevenzione anche attraverso centri specializzati.

Come mai proprio in questi ultimi anni si sono intensificati gli studi sul suicidio? Cosa rappresenta il suicidio in una società fondata sull’individualismo e sul consumismo? Per tentare di rispondere a tali domande proviamo ad osservare statisticamente questo problema.
Se si analizza il trend storico degli indici relativi al fenomeno del suicidio, scopriamo che le oscillazioni che si sono registrate negli ultimi anni non hanno risentito delle fasi di espansione o contrazione dell’economia. Tale risultato potrà sorprendere, tenuto conto della pressione mediatica che si occupa, molto spesso, in modo anche morboso di tale problematica. Secondo le statistiche, in Italia, ad esempio, l’indice dei suicidi annuali è circa di 1 ogni 20 mila abitanti, con differenze sensibili sulla distribuzione geografica tra il Nord e il Sud. Il Nord, infatti, ha un tasso di suicidi quattro volte superiore a quello del Sud. A riguardo, se consideriamo tra i paesi europei la Germania, che rappresenta uno degli stati più ricchi, rispetto all’Italia tale tasso è esattamente il doppio per giungere addirittura a quattro volte nei paesi scandinavi. La correlazione tra indice economico e suicidi sembrerebbe essere, paradossalmente, molto più alta rispetto a quello legato alla depressione economica e all’insicurezza di non disporre di beni materiali.

Siamo nella società dei paradossi, in cui è radicata la convinzione che il benessere si possa raggiungere attraverso il fare e la produzione “artificiale” di felicità, senza comprendere che tale attività produce invece ulteriore malessere.

Pensando a tutte le potenzialità costituite dalla tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in una società iperstimolante, e in perenne trasformazione, l’individuo dovrebbe trovarsi nell’oceano di percezioni, e invece, paradossalmente, il sentire e le passioni si sono cristallizzate: si parla di passioni tristi, di esperienze anestetizzate e anestetizzanti, vissute in assoluto solipsismo, ma esperite in contesti socialmente confluenti. Lo scopo della relazione non sembra più la condivisione di interessi, ma quello di non sentire l’angoscia della solitudine; per non provare il dolore per la perdita dell’altro, di non raggiungerlo o di non essere accettati, non si è più disposti a rischiare il contatto con l’altro, alienando dal nostro campo esistenziale la relazione, ritrovandosi in una vita di solitudine. La relazione è sempre più esperita virtualmente, dove il grande assente è proprio il corpo.

L’isolamento affettivo e il misconoscimento dei livelli emotivi e corporei costituiscono fattori di rischio assai superiori rispetto alle tanto paventate cause economiche. Probabilmente più delle terapie e delle farmacoterapie, la vera prevenzione nasce dall’inclusione del singolo in gruppi e alla rieducazione dell’individuo dei valori relazionali.

La sovraesposizione mediatica delle masse determina un’ulteriore elemento di desensibilizzazione emotiva di fronte a tali eventi. La profonda sofferenza vissuta dalle persone che si sono suicidate, non è mai scandagliata fino in fondo, non costituisce un’occasione di introspezione seria e rigorosa da parte di tutti gli agenti educativi e politici, ma è ridotta a icona o a stereotipo culturale.

Il comportamento suicida, infatti, pone una serie di interrogativi che coinvolgono soprattutto i familiari e la società. Come clinici, pensando soprattutto alla prevenzione del suicidio, dovremmo focalizzare sempre di più la nostra attenzione su tutto il campo relazionale della persona a rischio di suicidio. La sofferenza non è soltanto dell’individuo che minaccia o ha già tentato il suicidio, ma appartiene in modo ancor più radicale al suo campo esistenziale. Se è il lavoro di rete, che in qualche modo può arginare tale fenomeno prevenendolo, allo stesso modo, la famiglia, gli amici, la scuola, il lavoro ecc. possono essere la principale causa di frammentazione della persona che si è progressivamente disancorata dall’esistenza. È la relazione con gli altri a costruire quei legami che permettono alla persona di sentirsi parte di un tutto. Il suicidio prima di essere un atto, è un’idea, un’intenzionalità. Paradossalmente chi si suicida si pone di fronte alla vita in modo così determinato da oltrepassare la tenacia estrema che la vita stessa incarna. Alla verità della vita non si oppone l’errore del suicidio, ma un’altra verità, un’altra espressione dell’essere umano.

Chi ha deciso di uccidersi, oltre a ideare e a pianificare tale atto, sta formulando un messaggio, sta provando a comunicare qualcosa a qualcuno. In quest’ottica il suicidio assume una connotazione di svelamento, di apertura, può essere interpretata come una dinamica relazionale. Infatti, la comunicazione, come sappiamo, ha sempre un’intenzionalità relazionale. Per una vita che è giunta, attraverso la sofferenza e la disperazione, all’isolamento estremo, il suicidio può rappresentare l’ultimo atto relazionale.

 

«A che scopo soffrire?»

L’interrogativo posto da Nietzsche sembra non aver trovato ancora una risposta, ed è proprio questo problema irrisolto, ovvero il nostro senso come esseri viventi, a renderci inquieti e spesso angosciati di fronte all’esistenza. Possiamo allora comprendere la disperazione di chi con un’ intensità diversa e con un dolore più profondo, non avendo più risposte decide di darsi la morte.

Chiederci se la stessa vita abbia un senso, o come afferma Albert Camus, se sia degna di essere vissuta, ci pone di fronte ad un dubbio che mette in discussione il nostro essere nella sua globalità. Classificare i comportamenti suicidari esclusivamente come “non normali”, assurdi o addirittura patologici, significherebbe togliere all’uomo quella parte fondamentale dello suo spirito che lo rende così ostinato e tenace nella ricerca di se stesso. In questa ricerca infinita, in questo viaggio affascinante e tragico, esiste anche la possibilità del suicidio, darsi la morte diviene ammissibile.

Siamo consapevoli che il tema della sofferenza è un tema sempre attuale e al contempo inattuale: è inattuale poiché nella società del benessere, il dolore rappresenta il controsenso più grande. Il dolore e la sofferenza per la società sembrano avere significato se trattati mediaticamente in modo superficiale o virtuale. La sofferenza offerta dai network diviene un grande schermo su cui proiettare tutti i malesseri del mondo come fosse un immenso magnete verso cui ogni disagio scivola, e nello stesso tempo la distanza tra la sofferenza e chi realmente la percepisce aumenta sempre di più.

Ci possiamo chiedere, quindi, se togliere ad ogni costo la sofferenza dal mondo abbia un senso, e se questo procedere verso un illusorio benessere non conduca l’uomo a sofferenze ancora maggiori. Per il clinico che inevitabilmente si avvicina al dolore psichico e alla disperazione, un atteggiamento etico, che possa rispettare sia la persona che soffre che se stesso, è quello di dare dignità, memoria e tempo a questi sentimenti.

L’assurdo è la malattia di cui soffre la nostra mente determinata dall’incapacità di colmare le conoscenze fondamentali attraverso il vivere.
Søren Kierkegaard, nella malattia mortale, ci mostra come la consapevolezza e l’angoscia siano inequivocabilmente uniti; l’uno non può esistere senza l’altro, ed entrambi contribuiscono a creare le nostre strutture e il nostro modo di essere, anche se il risultato di tale consapevolezza è ulteriore angoscia.

La vita è sia libero arbitrio che ineludibilità, sia intrinseca bellezza che incomprensibile dolore, e il suo scorrere è irreversibile; queste grandi separazioni dilaniano l’uomo che di fronte ad una scelta deve necessariamente scindersi per un istante. Per coloro i quali utilizzano il pensiero dicotomico, tali scelte divengono estreme e per tali coscienze, che superano il consueto sentire giungendo alla più profonda consapevolezza, questo dolore diviene metafisico. La scelta ammissibile che l’individuo può compiere, svelati questi massimi orizzonti, può anche essere il suicidio.

In questa prospettiva, la ricerca dell’io non si arresta al suo sentire emotivo, ma prosegue verso l’indicibile, trasformando i segni archetipici, che costituiscono la nostra dimensione ontologica, in visioni improvvise di verità senza nome: l’angoscia è la vertigine che accompagna l’inevitabilità dell’esistenza, in cui la disperazione di non poter uscire dalla vita, se non attraverso un atto consapevole e definitivo, prende forma e sostanza.

Ma a che serve l’uomo? Il suo solo scopo sembra essere quello di evolversi, una voglia indefinibile di divenire, oltrepassandosi continuamente per realizzare il suo Essere. Era dopo era, cellula dopo cellula, strato dopo strato, di struttura in struttura, il cervello «creatore» ha compiuto la metamorfosi, d’improvviso non è più sostanza, ma una mente che non desidera altro che farsi spirito.

Il suicidio non interrompe tale cammino, al contrario ci mostra come l’essere nel mondo trovi un’altra possibilità nell’autenticità del vivere. Molto probabilmente è l’emozione del tempo, ad aprire la ferita più profonda nell’animo e a depositare l’angoscia più grande, un terrore senza confini: il limite del nulla.

Il disagio intimo e la mancanza di senso probabilmente hanno questa origine: nascono dalla dilaniante lotta tra due rapaci insaziabili, ciò che potremmo conoscere e ciò che non potremmo svelare mai. Siamo nati per essere e allo stesso tempo per morire. In quella rima di frattura c’è l’uomo, che gettato nell’esistenza sembra un perenne Lazzaro, un trastullo dell’assurdo. Come uomini di scienza e studiosi del comportamento umano, il nostro compito, o meglio la nostra missione, può essere quella di accogliere questo mare di sofferenza e provare a farlo divenire altro attraverso la relazione e la condivisione. La nostra volontà, che è la medesima che orienta il tutto verso uno scopo, e la nostra ragione che ci guida, sono sufficienti a comprendere ed accettare la disperazione per cambiarla in possibilità?

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Benasayag M., Schmit G., (2013), L' epoca delle passioni tristi, Feltrinelli: Milano.
  • Borges J.L., I congiurati, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1986.
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  • Nietzsche F., (2002), Genealogia della Morale, Adelphi: Milano.
  • Pessoa F., (1986), Il libro dell’inquietudine, Ed. Feltrinelli: Milano.
  • Sartre J. P., (2002), Essere e Nulla, Net: Milano.
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