Irene Rossi
Numerosi studi hanno evidenziato come il modo in cui una persona prende le decisioni è tra i principali fattori che determinano la vulnerabilità a comportamenti suicidari.
L’ultimo dei molti studi condotti dal Dr. Fabrice Jollant aiuta proprio a sottolineare la relazione esistente tra la difficoltà a prendere decisioni efficaci e la tendenza al suicidio. In particolar modo la tendenza a prendere decisioni ad alto rischio è prevalente non solo in molti degli individui che commettono suicidio ma anche tra i loro parenti di primo grado. Quest’ultimo dato permette di spiegare l’apparente “ereditabilità” di tale comportamento e può avere vantaggi utili per la prevenzione al suicidio.
Nella ricerca i pensieri e i comportamenti suicidari devono necessariamente essere studiati indirettamente. In precedenza il focus era posto completamente sui soggetti che avevano tentato il suicido, senza riuscirci, andando a indagare i pensieri che avevano portato all’atto. Allo scopo di capire la vulnerabilità al suicidio Dr Jollant e i suoi colleghi del Douglas Mental Health University Institute si sono invece focalizzati sui familiari più vicini alle persone che commettono suicidio, riuscendovi. I familiari delle persone che commettono suicidio difatti portano alcuni tratti associati alla vulnerabilità al suicidio, anche se non hanno mai espresso pensieri suicidari concreti e godono di buona salute mentale.
Uno dei test neuropsicologici impiegati per la valutazione dei familiari è un gioco di scommesse, dove i giocatori devono vincere più soldi possibile scegliendo le carte tra differenti mazzi. Alcuni mazzi hanno un livello di rischio maggiore di altri: alcune volte permettono di vincere cifre molto alte ma nella maggior parte dei casi portano a perdita, soprattutto a lungo termine. Altri mazzi sono più sicuri: le vincite sono piccole ma anche le perdite lo sono e questo permette di garantire una vincita a lungo termine. Ciò che è stato osservato è che mentre le persone che vengono da famiglie senza suicidi imparano a scegliere i mazzi più sicuri, i parenti di pazienti suicidari continuano a fare scelte ad alto rischio, anche dopo numerosi tentativi, dimostrando così una maggiore difficoltà ad apprendere dalle loro esperienze.
La risonanza magnetica funzionale ha confermato che una certa area della corteccia prefrontale, che è usata per prendere decisioni funziona differentemente in queste persone, similarmente a coloro che hanno tentato il suicidio. Il gruppo di ricerca del Dr. Jollant spiega questi dati con l’ipotesi che le persone che hanno tendenza a prendere decisioni rischiose propendono per soluzioni che procurano benefici a breve termine nonostante l’alto rischio, invece di soluzioni che sono più sicure e a lungo termine ed hanno difficoltà anche nell’ individuare soluzioni alternative quando devono affrontare un problema.
Questo permette di spiegare il collegamento tra capacità di pendere decisioni e suicidio: nel contesto di una depressione maggiore questa difficoltà a prendere buone decisioni possono tradursi nel scegliere la morte, che è una decisione che permette di mettere fine immediata alle sofferenze nonostante le conseguenze irreparabili, senza vedere alcuna soluzione alternativa.
I ricercatori propongono anche delle possibili soluzioni per i soggetti a rischio: oltre alla difficoltà nel prendere decisioni è stato trovato che i parenti vicini alle vittime di suicidio hanno performato molto bene in altri test che dimostrano una buona abilità nel gestire i propri pensieri. Questo fattore può controbilanciare la difficoltà nel prendere decisioni adeguate e fungere da fattore di protezione. L’idea è quindi quella di pensare dei percorsi di psicoterapia focalizzati sul migliorare la capacità di prendere decisioni ma anche sulle altre funzioni cognitive che, se rinforzate possono ridurre la vulnerabilità al suicidio.
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BIBLIOGRAFIA:
- A. Hoehne, S. Richard-Devantoy, Y. Ding, G. Turecki, F. Jollant. First-degree relatives of suicide completers may have impaired decision-making but functional cognitive control. Journal of Psychiatric Research, 2015; 68: 192