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L’instabilità lavorativa condiziona l’identità sociale

Una ricerca ha evidenziato la relazione tra instabilità lavorativa e identità sociale: la perdita del lavoro inciderebbe sul benessere e la percezione di sè

Di Marianna Bottiglieri

Pubblicato il 14 Mar. 2017

Un gruppo di ricerca ha tentato di indagare il legame tra la percezione di instabilità lavorativa e le possibili variazioni nella definizione dell’ identità sociale nel corso degli anni.

 

L’instabilità lavorativa e gli effetti sul benessere e sull’identità sociale

Cosa fai nella vita?” è spesso una delle prime domande che si pongono in una conversazione tra due persone estranee. Per molti, il lavoro è molto di più che una fonte di retribuzione, giocando un ruolo importante nel determinare la maniera in cui essi si percepiscono. Perdere un lavoro può farci percepire di perdere una parte di noi stessi, di chi siamo.

Se gran parte del benessere economico e personale è collegato strettamente al lavoro, allora non deve sorprendere che la condizione di instabilità lavorativa possa a sua volta minacciare questo benessere. I risultati di un nuovo studio suggeriscono che la minaccia di instabilità lavorativa non è solo causa di stress economico, ma può avere un impatto anche maggiore sulle modalità di percepire se stessi e il proprio senso di identità personale.
Eva Selenko (Università di Loughborough), Anne Mäkikangas (Università di Jyväskylä), e Christopher B.Stride (Università di Sheffield), hanno studiato circa 400 impiegati Britannici in tre momenti diversi durante l’anno 2014. I risultati del loro studio suggeriscono che l’instabilità lavorativa pervasiva potrebbe avere effetti nocivi sul benessere delle persone allo stesso modo di una vera e propria performance lavorativa.

[blockquote style=”1″]Lavoro e identità personale sono strettamente legati[/blockquote] scrivono Selenko e coll. nel “Journal of Organizational Behavior”. [blockquote style=”1″]In molte situazioni sociali, il proprio impiego fornisce un modo pratico per definire e collocare se stessi in relazione agli altri.[/blockquote]

Quando il lavoro di una persona è sufficientemente “sicuro”, la sua identità sociale, nella definizione di “persona che lavora“, non potrebbe venire in mente con facilità. Invece, quando l’attenzione è spostata sulla condizione di perdita del lavoro, le persone inizierebbero a sentirsi identificati come parte di un gruppo alternativo e stigmatizzato: quello dei disoccupati.

Le ricerche precedenti hanno collegato la disoccupazione a numerose ripercussioni negative al di là del lato economico. In uno studio del 2004 pubblicato sulla rivista Psychological Science, un gruppo di ricerca guidato da un membro dell’APS, Richard E. Lucas (Università del Michigan), ha scoperto che un periodo di disoccupazione avrebbe conseguenze a lungo termine sulla soddisfazione per la propria vita.

Uno studio longitudinale su un campione di più di 24000 tedeschi, ha permesso a Lucas e coll. di “misurare”, nei soggetti, la soddisfazione per la propria vita prima, durante e dopo i periodi di disoccupazione. E’ stato scoperto che, in media, anche a seguito di un nuovo impiego, le persone non riuscivano a ritornare del tutto ai precedenti livelli di soddisfazione per la propria vita, anche dopo anni.
Ed è possibile che la minore soddisfazione possa essere collegata, anche solo in parte, ai cambiamenti nell’identità sociale di fronte all’instabilità lavorativa:

[blockquote style=”1″]Suggeriamo che l’instabilità lavorativa comprometta l’identità sociale delle persone; “avere un impiego” sarebbe, in tal modo, inteso come una categoria che determina l’identità sociale. Parte dei risultati di ricerca, mostrano come una minaccia all’identità potrebbe portare ad una riduzione di benessere percepito, ad un minore coinvolgimento nel gruppo di lavoratori, e una minore volontà di spendere energie per il gruppo.[/blockquote]

Per testare le proprie teorie, Selenko e coll. hanno reclutato 377 impiegati per completare un questionario per tre volte durante l’arco di 6 mesi nel 2014. La media dell’età dei partecipanti si aggirava attorno ai 45 anni. Più della metà di loro (56%) apparteneva alla categoria lavorativa delle cosiddette “tute blu” (lavori manuali o relativi al commercio, operatori di macchina o assemblatori, agricoltori , pescatori ecc.), mentre il resto dei soggetti apparteneva alla categoria dei cosiddetti “colletti bianchi” (manager o lavori che richiedevano una formazione professionale più “avanzata”).
Il questionario era composto da domande che valutavano la percezione di instabilità lavorativa (ad esempio “Vi sono possibilità che io perda il mio lavoro” o “Mi sento fortemente legato alla popolazione lavorativa“), il comportamento a lavoro e il senso di benessere.

Come da ipotesi, un senso crescente di instabilità lavorativa era collegato al peggioramento nel benessere nel corso degli anni. Ma i risultati hanno anche dimostrato che l’identità di questi soggetti, anche quando era definita nei termini di “impiegato”, era collegata ad effetti negativi sul benessere e sulla performance lavorativa nel corso del tempo. Dunque, anche quando le persone mantenevano il lavoro e percepivano di essere lavoratori, esse potevano approdare ad alcuni dei risultati negativi a cui approdavano coloro che avevano perso il lavoro.
[blockquote style=”1″]I soggetti che percepivano il loro lavoro in maniera più instabile, erano anche meno propensi a percepirsi come parte del gruppo sociale degli impiegati; essi tendevano a definirsi di meno come impiegati. Questo aspetto riflette l’impressione dei lavoratori meno fiduciosi del mantenimento del proprio lavoro, spesso riportata a livello aneddotico, di essere già ai margini o tagliati fuori dal proprio impiego.[/blockquote]

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