Le scienze cognitive – essendo interdisciplinari – comprendono diverse discipline tra cui psicologia, informatica, intelligenza artificiale, neuroscienze, linguistica, antropologia, etologia e filosofia della mente.
Realizzato in collaborazione con Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano
Scienze Cognitive: cosa sono
Sempre più di frequente si parla di scienze cognitive, termine con cui si intende un’area interdisciplinare in cui si studia la cognizione della mente in quanto sistema pensante (sia esso naturale-umano o artificiale), nonchè le sue diverse funzioni.
Le scienze cognitive – essendo interdisciplinari – comprendono diverse discipline tra cui psicologia, informatica, intelligenza artificiale, neuroscienze, linguistica, antropologia, etologia e filosofia della mente. Le scienze cognitive sono costituite, in sostanza, da un insieme di teorie dalle quali si ricavano dei modelli di funzionamento su temi di psicologia generale, come la memoria, l’intelligenza, l’immaginazione, il linguaggio, etc.
Breve storia delle Scienze cognitive
Già nell’antica Grecia molti filosofi, a esempio Platone e Aristotele, teorizzarono il meccanismo della conoscenza umana. Lo studio della mente umana per molto tempo fu appannaggio dalla filosofia, ma nel XIX secolo, quando nacque la psicologia sperimentale, Wilhelm Wundt e i suoi collaboratori iniziarono a studiare la mente e i suoi funzionamenti in maniera sistematica.
L’avvento del comportamentismo in psicologia sperimentale porta a focalizzare l’attenzione dei ricercatori sulla relazione esistente tra gli stimoli osservabili e le risposte comportamentali eludendo totalmente il contenuto centrale “invisibile e intangibile” della mente. Infatti, in questo periodo era vietato parlare, in ambito scientifico, di come funzionasse la mente umana al suo interno.
Le scienze cognitive nascono negli anni ’50, quando i ricercatori, afferenti a diversi ambiti disciplinari, cominciarono a sviluppare teorie sul funzionamento della mente partendo da rappresentazioni complesse, elaborazione di simboli e da procedure di computazione e calcolo.
I presupposti storici e teorici per la nascita delle scienze cognitive, però, possono essere identificati nel test ideato da Turing, in cui si considerava la mente umana un sistema di elaborazione di informazioni (Human Information Processing – HIP). Da qui nasce tutta la ricerca sull’intelligenza artificiale e sull’informatica, che ha portato alla creazione dei primo computer. John McCarthy, Marvin Minsky, Allen Newell e Herbert Simon sono considerati anche i primi pionieri delle scienze cognitive.
Secondo l’approccio HIP, la mente possiede delle rappresentazioni mentali simili alle procedure di calcolo, elaborazione di simboli e computazioni presenti nel computer. Queste rappresentazioni mentali sono le regole, i concetti, le immagini e i ricordi che sono utilizzati dalla mente, come algoritmi di calcolo, per affrontare le diverse problematiche che si presentano.
Le sue origini organizzative, però, avvennero esattamente nel 1978, anno in cui a La Jolla (California) si tenne un convegno organizzato dalla Cognitive Science Society cui parteciparono ricercatori psicologi, linguisti, neuroscienziati e filosofi, per riuscire ad avere una maggiore comunicazione tra i diversi ambiti disciplinari e ottenere teorie sempre più complesse ed elaborate circa il funzionamento mentale. Nacque, di conseguenza, la rivista Cognitive Science e da quel momento in poi più di novanta università in Nord America, Europa, Asia e Australia istituirono diversi corsi di scienze cognitive.
Contemporaneamente, il panorama intellettuale cominciò a cambiare radicalmente, con l’avvento di George Miller e dei sui studi sulla memoria perché si ricominciava a parlare esplicitamente di cosa accadesse nella mente umana. Secondo la teoria di Miller la mente riesce a elaborare informazioni grazie alla memoria a breve termine. Essa è in grado di contenere un numero limitato di informazioni, che secondo Miller corrisponde a 7 elementi, numero che può aumentare o diminuire di due unità, in base ai limiti o caratteristiche biologiche che distinguono una persona dall’altra.
Quindi, nel panorama scientifico l’interesse si stava spostando dall’esterno, dalla relazione stimolo-risposta, al funzionamento interno della mente. Anche Noam Chomsky, respinse la teoria comportamentista secondo la quale il linguaggio era un processo appreso rimpiazzandolo con l’ipotesi che la comprensione della lingua derivi da capacità mentali innate, sviluppate e affinate nel rapporto con l’ambiente.
Le metodologie delle scienze cognitive
L’assunto di base da cui le scienze cognitive partivano era che la mente umana fosse un elaboratore di informazioni, come il computer, e le ricerche messe a punto in questo ambito avevano lo scopo di individuare modelli di elaborazione dell’informazione sperimentalmente riproducibili, da cui inferire modelli generali di funzionamento altamente realistici.
In tale prospettiva si colloca una vasta gamma di ricerche volte a simulare in forma computazionale il funzionamento della mente, ad esempio come risolvere un problema partendo da processi inferenziali. Newell e Simon (1972), in tale ottica, idearono lo Human Problem Solving, secondo il quale le informazioni utili alla soluzione di un problema, dopo essere state recuperate dalla memoria a lungo termine, possono essere utilizzate per la soluzione di vari sotto-problemi in cui è scomposto il problema di partenza, così si giunge a uno stato finale (stato-meta) che è la soluzione o l’obiettivo perseguito.
In quegli anni i ricercatori ambivano a creare macchine in grado di esibire capacità di ragionamento simili a quelle umane grazie a programmi specifici volti a riprodurre i diversi processi di ragionamento, ricordiamo quella creata da McCarthy e collaboratori. Tra i tanti programmi ideati poniamo l’accento sul programma DENDRAL realizzato da Ed Feigenbaum, Bruce Buchanam e Joshua Lederberg, capace, partendo dalle informazioni derivanti dalla massa molecolare ricavate da uno spettrometro, di ricostruire la struttura di una molecola. Questo programma fu quindi il primo che si basava su un uso intensivo della conoscenza, ovvero evidente esperienza in un determinato scenario di applicazione.
Successivamente, Searle (1992), evidenzia come i programmi di intelligenza artificiale utilizzati per i computer, non riescano a evidenziare la specificità e l’intenzionalità dei fenomeni mentali. Manca, dunque, qualcosa che permetta di individuare la vera natura della mente umana.
A questo punto subentra la psicologia cognitiva in grado di spiegare cosa avviene nella mente a livello di pensieri, ragionamento, cognizioni e emozioni. Il metodo più utilizzato in psicologia cognitiva per capire cosa accade nella mente umana è realizzare esperimenti di laboratorio cui partecipano soggetti umani che possono essere studiati in condizioni controllate. Grazie a questi esperimenti è stato possibile osservare dettagliatamente come avvengono una serie di processi inferenziali e di pianificazione partendo da dati empirici. Divenne importante capire cosa accadeva esattamente nella mente umana mentre si esegue un compito. Di conseguenza, subentra il connessionismo, ovvero quell’area in cui si cerca di dare una riposta ai comportamenti partendo dal presupposto che il cervello è costituito da reti neurali.
Le neuroscienze
All’interno delle scienze cognitive un ruolo importante è svolto dalle neuroscienze o neurobiologia. Le neuroscienze rappresentano lo studio scientifico del sistema nervoso. Si tratta di un ambito al quale afferiscono l’anatomia, la biologia molecolare, la matematica, la medicina, la farmacologia , la fisiologia , la fisica, l’ingegneria e la psicologia.
Il termine neuroscienze deriva dall’inglese “neurosciences“, neologismo coniato dal neurofisiologo americano Francis O. Schmitt. Egli sostenne che se si voleva ottenere la totale comprensione della complessità del funzionamento cerebrale e mentale dovevano essere rimosse tutte le barriere tra le diverse discipline scientifiche, unendone le risorse. Il primo gruppo di ricerca creato prese il nome di Neurosciences Research Program, ed era costituito da scienziati di diversa formazione.
Secondo le neuroscienze le rappresentazioni mentali sono modelli di attività neurale e l’inferenza, o ragionamento deduttivo, consiste nell’applicazione di tali modelli alle diverse situazioni per affrontarle e risolverle.
Anche i neuroscienziati eseguono esperimenti controllati, attraverso tecniche di neuroimaging, Risonanza Magnetica funizonale (fMRI), Tomografia Assiale a emissione di Positroni (PET), MagnetoEncefalografia (MEG), Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), etc., che consentono di registrare l’attività di ogni singolo neurone e, di conseguenza, di identificare le regioni del cervello coinvolte nello svolgimento di una serie di attività. In questo modo si ottengono delle mappe funzionali di particolari aree del cervello imputate allo svolgimento di specifici compiti.
Le neuroscienze indagano lo sviluppo, la maturazione ed il mantenimento del sistema nervoso, la sua anatomia, il suo funzionamento, le connessioni esistenti tra le diverse aree cerebrali e i comportamenti manifesti. Le neuroscienze cercano di comprendere non solo come lavora il sistema nervoso in condizioni di sanità, ma anche, quando non funziona adeguatamente. Il funzionamento cerebrale deficitario si mostra attraverso la presenza di disturbi dello sviluppo, psichiatrici e neurologici. Lo scopo delle neuroscienze è anche effettuare studi empirici allo scopo di prevenire il verificarsi di diversi deficit e di curare questi ultimi attraverso una serie di compiti riabilitativi messi a punto ad hoc.
Neuropsicologia
Quando si parla di compiti riabilitativi si fa ricorso alla Neuropsicologia: disciplina che deriva dalla psicologia e dalle neuroscienze. La neuropsicologia nasce nel XIX secolo con gli studi su animali e umani aventi lesioni a carico del sistema nervoso, ma divenne fondamentale dopo la seconda guerra mondiale, quando nacque la necessità di trattare i veterani di guerra che riportavano lesioni cerebrali. La neuropsicologia studia l’espressione comportamentale di una serie di deficit cerebrali. Si occupa, specificamente, di come il cervello possa influenzare cognizione e comportamenti in persone che mostrano lesioni o malattie cerebrali. La neuropsicologia è una branca specifica della psicologia clinica specializzata nella valutazione e nel trattamento di pazienti con lesioni cerebrali o malattie a carico del sistema nervoso.
Attraverso l’esame neuropsicologico è possibile valutare le funzioni cognitive, come la memoria, il linguaggio, l’attenzione, l’organizzazione e la pianificazione, e comportamentali e la relazione esistente con il deficit presentato.
La differenza tra un neuropsicologo clinico da altri psicologi clinici è data dalla conoscenza dettagliata che il primo mostra dell’anatomia e del funzionamento delle diverse aree del cervello. Il neuropsicologo si occupa di applicare test standardizzati, aventi lo scopo di valutare deficit cognitivi presentati dai pazienti, e della gestione, del trattamento e della riabilitazione dei pazienti con deterioramento cognitivo.
Un’accurata valutazione neuropsicologica è fondamentale per avere una diagnosi delle funzioni cognitive ed è determinante per un adeguato intervento terapeutico e riabilitativo.
Lo scopo, dunque, della neuropsicologia, è individuare il deficit presentato dal paziente e riabilitarlo, oltre a trattare le diverse implicazioni psicologiche derivanti dal disturbo stesso e riguardanti la sfera emotiva.
L’intelligenza artificiale e affective computing
Le emozioni, dunque, svolgono un ruolo fondamentale nei processi di conoscenza e nello studio dei comportamenti. I processi emotivi sono una parte fondamentale da indagare quando si parla di cognizione e di funzionamento mentale. Per questo, in quegli anni, nel campo dell’ intelligenza artificiale, si faceva sempre più evidente l’idea che il pensiero razionale umano dipendesse dall’elaborazione emotiva.
Rosalind Picard fu la prima a parlare di Affective Computing ovvero macchine (computer) capaci di riconoscere, esprimere e comunicare emozioni o stati d’animo.
L’ affective computing consiste nell’interazione tra uomo e computer che si verifica nel momento in cui un dispositivo elettronico risulta essere in grado di rilevare e rispondere in modo appropriato alle emozioni derivanti da uno stimolo umano esterno. Una macchina che mostra questa abilità potrebbe essere fondamentale nel trarre informazioni inerenti a diversi aspetti emotivi, quali espressioni del viso, postura, gesti, linguaggio, variazioni di temperatura corporea, etc.
L’affective computing può offrire una vasta gamma di benefici da applicare in moltissimi ambiti, tra cui ad esempio potrebbe essere altamente utile durante le terapie on-line, ambito sempre più utilizzato, perché consentirebbe di avere spunti emotivi che altrimenti non potrebbero essere accessibili al terapeuta se non attraverso una reale seduta. Quindi, attraverso l’affective computing la postura, i gesti e le espressioni facciali potrebbero essere utilizzati, unitamente al colloquio, per una valutazione più accurata dello stato psichico del paziente.