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“Bisogna fare qualcosa”. In memoria di Umberto Veronesi

Ho conosciuto Umberto Veronesi nel marzo 2006, a mia moglie era stato diagnosticato un carcinoma mammario bilaterale con 9 metastasi e non la prendemmo bene

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 11 Nov. 2016

Ho conosciuto Umberto Veronesi nel marzo 2006. Sarà stato il 15, giorno più, giorno meno. Una settimana prima a mia moglie era stato diagnosticato un carcinoma mammario bilaterale con nove metastasi epatiche. Non la prendemmo come una bella notizia.

Mia figlia aveva tre anni e mezzo, mio figlio quattro mesi e mia moglie lo allattava, cosa che la faceva sentire benissimo, non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo. I primi giorni furono carichi di un’angoscia senza fine, come è lecito aspettarsi. Gli amici e i colleghi di allora furono preziosi e di aiuto oltre l’immaginabile e il fatto che il mio percorso personale e professionale si sia separato da quello di molti di loro non altera la gratitudine per l’aiuto che mi hanno dato.

Una settimana dopo mia moglie Anna e io ci troviamo nello studio di Milano, carichi di ogni sorta di esame strumentale e pronti a ricevere una sentenza di morte. Non sembri un’iperbole, di quello si trattava. Entriamo con una mezz’ora di ritardo, eravamo preparati ad attendere molto più a lungo.

Veronesi ci accoglie con gentilezza e a me fa subito un’impressione che nessuno mi aveva mai suscitato. “Quest’uomo irradia luce” penso. Una forza positiva, un carisma che non pensavo esistessero. Avevo letto descrizioni simili sui libri che parlano di eroi o capi amati dal popolo, ma che io potessi pensarlo di qualcuno che mi fossi trovato di fronte non l’avevo messo in conto.

Senza parlare granché, mi pare inforcando gli occhiali, ma posso sbagliare, consulta i referti. Ci pensa un po’. In quei momenti ogni secondo si divide all’infinito. Poi ci chiede, rivolgendosi soprattutto ad Anna: “Perché siete venuti qui?”. Nessuno dei due fa in tempo a formulare una risposta sensata prima che lui risponda da solo: “Perché vi hanno detto che bisogna fare qualcosa”. Vero. Ma in realtà pensavamo di sentirci dire che la situazione era tragica. Non l’avevamo articolata nei termini di “bisogna fare qualcosa”. E risponde alla domanda che ci aveva suggerito e che né io né mia moglie avevamo contestato: “E faremo qualcosa”. Ci spiega i vari passi da affrontare, le opzioni terapeutiche a disposizione e gli strumenti che avremmo potuto usare se proprio i primi interventi non fossero stati risolutivi. Conclude con un: “Lo mettiamo a posto”. Mi stringe la mano e poi rivolge ad Anna un sorriso che comprende l’universo e l’abbraccia.

Usciamo dallo studio increduli. Entriamo per ricevere una sentenza di morte, usciamo a prenderci un gelato enorme per le vie del centro di Milano.

Tra speranze, angosce e strazi mia moglie sopravvisse tre anni e tre mesi, in realtà più di quanto era ragionevolmente immaginabile data la gravità della situazione di partenza. Per qualche momento fu anche dichiarata guarita e così sarebbe stato se le cellule tumorali non avessero colonizzato il cervello.

A posteriori si potrebbe dire che non lo mettemmo a posto.

Ma io da quell’incontro sono uscito cambiato per sempre, come persona e, soprattutto, come psicoterapeuta.

Veronesi aveva di fronte una paziente affetta da una malattia grave, al limite della curabilità. Eppure ci lasciò un messaggio che era solo speranza e azione. Niente metafore belliche: è una guerra, bisogna lottare. Parole semplici invece, orientate al futuro, ottimistiche, frasi che indicavano azione.

Di comunicazione realistica solo l’ombra. Ed è quello stile che consentì a me e mia moglie di respirare e di sopportare i primi mesi della malattia, fino a che non vedemmo che di fatto le cure stavano facendo un effetto pazzesco (per una lunga prima fase la risposta fu eccezionale e quindi noi vivevamo). Stampato nella mia mente, il volto e la presenza – era anche molto alto, lo dice uno di 1,86 – di Veronesi.

Da allora non c’è prima visita, non c’è restituzione della diagnosi in cui io non ricordi quell’incontro e me ne lasci guidare. Da allora non riesco a comprendere le azioni dei colleghi che pensano sia doveroso dire al paziente: “Lei soffre di schizofrenia. Ha un disturbo bipolare. Sono condizioni che si possono solo contenere, ma deve fare i conti con questa diagnosi e dovrà prendere farmaci per tutta la vita”. Sarà vero, sarà falso, non importa. Ho visto l’impatto che ha un certo modo di comunicare la diagnosi, di prefigurare il percorso terapeutico.

Riesco, da quel giorno, solo a dire ai pazienti che conosco per la prima volta: “Lei spera di essere apprezzato. Amato. Di agire con autonomia. Di sentirsi parte della società. Teme che ci siano ostacoli che non glielo consentiranno e questo la preoccupa, la angoscia, la butta giù. Ci sono questi ostacoli, è vero, ma la terapia la aiuterà a rimuovere questi ostacoli e cercheremo di ridarle una vita in cui potrà vedere la possibilità di realizzare questi desideri”. Il mio modo di dire: “Lo mettiamo a posto”. Non gli prometto che realizzeranno quei desideri naturalmente, solo li guido nell’immaginare che davanti a loro ci sia una strada rischiarata da una luce.

Ne ho fatta una pratica di vita, un fondamento della cura. Cerco di insegnarla ai miei allievi. Io so da chi l’ho appreso.

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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