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Lo chiamavano Jeeg Robot (2016), sentirsi prigionieri della propria realtà – Recensione

I superpoteri diventano metafora postmoderna: il simbolo di una possibile strada per riscoprirsi e fuggire da una mediocrità insostenibile.

Di Nicola Vangone

Pubblicato il 12 Mag. 2016

Aggiornato il 09 Set. 2019 16:07

Su State of Mind avevamo parlato del profilo psicologico dei personaggi del film ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’, successivamente abbiamo approfondito la tematica dei tratti psicologici dei personaggi, giungendo a delle riflessioni cliniche sulla relazione terapeutica con pazienti caratterizzati dallo stesso profilo psicologico di uno dei protagonisti (NdR).

 

L’intreccio delle vite dei tre personaggi dà origine, infatti, ad una storia in cui per lunghi tratti, la tematica del supereroe resta paradossalmente sullo sfondo, sovrastata dalla genuinità del racconto di un mondo popolato da personaggi tanto cinici e grotteschi quanto verosimili.

 

In una Roma contemporanea, sconvolta (e forse neanche tanto) dalle bombe, tra il centro e la periferia entrano in azione i tre personaggi principali del film: Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), ladruncolo di professione, schivo e taciturno, non sposato, senza amici, abita in un appartamento fatiscente e vive di piccoli furti. Fabio (Luca Marinelli), detto lo Zingaro, è invece un ex concorrente di un talent show e capo di una piccola banda di malviventi dedita a rapine e spaccio di droga; nel film cerca in tutti i modi di emergere, lasciare un segno nello squallore di un’esistenza grigia e relegata ai margini dei riflettori che contano. E infine c’è Alessia (Ilenia Pastorelli), giovane psicotica, probabilmente abusata, che vive in un mondo alternativo fatto di fantasia il quale vede come protagonisti i personaggi appunto del famoso cartone giapponese.

Non deve, tuttavia, ingannare il titolo del film: sebbene la trama ruoti intorno alla nascita di un supereroe, non ci troviamo di fronte, per fortuna, ad una versione italiana, e magari un po’ casareccia, dei fortunati film di genere hollywoodiani prodotti negli ultimi tempi.

L’intreccio delle vite di questi tre personaggi dà origine, infatti, ad una storia in cui per lunghi tratti, la tematica del supereroe resta paradossalmente sullo sfondo, sovrastata dalla genuinità del racconto di un mondo popolato da personaggi tanto cinici e grotteschi quanto verosimili. Ad andare in scena è soprattutto la periferia italiana, con il suo sottobosco di esistenze in bilico tra la quotidiana lotta per la sopravvivenza e la speranza del riscatto. In tutto ciò, spicca la capacità del regista Mainetti nel riuscire a fornire alle scene un sapore pulp che trae ispirazione dai migliori film italiani di genere degli anni ’70, quelli alla Fernando Di Leo e Sergio Corbucci, per intenderci.

Ma ritorniamo ai personaggi. Enzo è un uomo dai modi grossolani, che conduce una vita solitaria lontana da interessi ed affetti: ‘Io non so’ amico de nessuno‘, ripete spesso ad Alessia. Enzo non vive nei sobborghi di New York come Peter Parker o a Gotham City come Bruce Wyane; vive a Tor Bella Monaca, periferia est di Roma. Chi si aspetta, quindi, l’abituale traiettoria seguita spesso dalle trame dei film degli eroi della Marvel, rimarrà deluso. Qui siamo lontani dai personaggi americani perfettini, pieni di valori e buoni sentimenti. Enzo non è un bruco destinato a diventare farfalla, ma un delinquente di borgata, ‘sporco e cattivo’; non c’è da attendersi nessuna metamorfosi, né una redenzione. E anche quando per uno strano scherzo del destino si trova ad avere degli incredibili superpoteri, lì userà, in modo abbastanza dissacrante, per continuare a fare l’unica cosa che sa fare nella vita: rubare.

Nella prima parte del film, emerge, quindi, il ritratto di un uomo disincantato, incapace di relazionarsi in modo funzionale agli altri e apparentemente neanche interessato a farlo, una sorta di analfabeta emotivo incapace di provare un genuino senso di appartenenza alla comunità umana.

Tuttavia nel corso del film emergerà un’altra verità: Enzo ha un triste passato segnato da tanti amici persi, inghiottiti dalla violenza della periferia. E’ chiaro allora che questa distanza che lo separa dagli altri è una sorta di corazza che lo difende dai propri vissuti più dolorosi. Sarà però Alessia a trovare una via per infrangerla: paradossalmente, infatti, ci sarà bisogno proprio di una psicotica, costantemente con la testa fra le nuvole, a rimettere Enzo in contatto con i suoi sentimenti e a trasmettergli speranza e quella fantasia necessaria a evadere dal grigiore della realtà alienante che vive giorno per giorno. E questo nonostante un inizio non proprio incoraggiante in cui Enzo faticherà a costruire anche con lei una relazione matura. Emblematica è la scena del rapporto amoroso, che ha luogo negli spogliatoi di un negozio, consumato da Enzo in modo fugace e senza riguardo per la donna, riproponendo nella realtà l’unico modello relazionale che conosce e che ha appreso attraverso il suo passatempo preferito: la visione quasi compulsiva di dvd porno.

C’è, quindi, Fabio, spiccati tratti narcisistici e antisociali, emblema di una generazione spaesata, senza maestri né punti di riferimento, figlia di una società che sembra essersi tramutata di colpo in un grande reality, o peggio ancora un talent show dove l’unica cosa che conta è emergere da un anonimato, diventato oramai sinonimo di mediocrità: ‘io vojo lasciare un segno come ‘sto cojone su youtube‘, dice a un certo punto. E per farlo ogni mezzo è lecito: partecipare ad un casting o piazzare una bomba allo stadio Olimpico durante il derby Roma-Lazio non fa differenza.

Alla fine anche lui, come Enzo riuscirà a ottenere i superpoteri che quindi diventano una sorta di metafora postmoderna, il simbolo di una possibile, forse l’unica,: in un caso, quella di Enzo, è la strada che porta il protagonista a riscoprire la propria dimensione umana; nell’altro, nel caso di Fabio, diventa l’agognata via d’uscita da una mediocrità insostenibile.

 

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT – IL TRAILER DEL FILM:

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