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Alcune madri non nascono mai: i vissuti di chi sceglie di non diventare madre

I vissuti di chi sceglie di non diventare madre sono quelli della sofferenza e dell'incertezza, ma anche della consapevolezza e dell'autodeterminazione 

Di Gessica Iannone

Pubblicato il 27 Gen. 2016

Nicoletta Nesler e Marilisa Piga lavorano da anni su questo tema, intervistando e raccogliendo testimonianze di non-madri per scelta; hanno realizzato un interessante documentario dal titolo “Lunàdigas”, dal nome che i pastori sardi danno alle pecore temporaneamente sterili. I vissuti che emergono sono quelli prevedibili della sofferenza e dell’incertezza, ma anche della consapevolezza e dell’autodeterminazione, così come di una scelta serena condivisa con il partner.

Per alcune donne, avere figli è un bisogno, una necessità radicale, per seguire un’aspirazione personale o per aderire a un modello sociale. Per altre l’istinto materno è un oggetto smarrito o mai rinvenuto nel proprio bagaglio privato e familiare. Fra questi due estremi si colloca la grande maggioranza delle donne che non ha avuto bambini senza che questo fosse risultato di una scelta o di una non-scelta. Nella linea del tempo, un desiderio vago può essere stato coltivato per un periodo della vita e poi essere svanito, l’incertezza è diventata cronica o il progetto, chiaro e ben definito, è stato rimandato di anno in anno fino a divenire obsoleto.
Insomma, il momento non è mai stato propizio.

Sono escluse da questa riflessione le donne che vorrebbero avere un figlio ma non possono, per cause di natura organica e psicogena. Per loro, per ognuna di loro, il dolore vissuto merita un racconto a parte.

Nicoletta Nesler e Marilisa Piga lavorano da anni su questo tema, intervistando e raccogliendo testimonianze di non-madri per scelta; hanno realizzato un interessante documentario dal titolo “Lunàdigas”, dal nome che i pastori sardi danno alle pecore temporaneamente sterili. I vissuti che emergono sono quelli prevedibili della sofferenza e dell’incertezza, ma anche della consapevolezza e dell’autodeterminazione, così come di una scelta serena condivisa con il partner.

Nei paesi con la cultura familiare come il nostro, dove domina la formazione cattolica, scegliere di non procreare mette in discussione modelli che si tramandano da secoli. La legittimità di tale scelta viene sempre messa in discussione, in maniera esplicita ma ancor di più implicita.
Ad esempio come l’intervistatrice che chiese a Simone de Beauvoir:
Signora, è possibile che voi scriviate dei libri perchè non avete dei figli?” e che si sentì rispondere: “Signora, è possibile che voi facciate dei figli perchè non scrivete dei libri?”.
In quegli anni il femminismo imperante legittimava progetti e scelte di vita prima impensabili da realizzare; oggi più che la cultura, è il mercato del lavoro a farla da padrone e a decidere per chi la maternità è un diritto e per chi invece un lusso inaccessibile.

Eppure al sospetto non si sfugge: anche quando le condizioni economiche non consentono di raggiungere questa meta, rimane una sottintesa colpevolizzazione a condannare la donna, più dell’uomo. Se prendiamo ad esempio l’espressione anglofona “childfree”, essa veicola l’immagine di donne disinteressate, quasi egoiste: come se l’egoismo, l’altruismo e la generosità possano misurarsi in base al fatto di avere o non avere figli.

Anche se le statistiche dedicate al fenomeno ancora tabù sono evidentemente rare, nei paesi occidentali la percentuale è in costante aumento. Fino a pochi anni fa una donna senza figli, per scelta o meno, non faceva parte della maggioranza: oggi una donna su cinque in Italia non ha figli ma in alcune zone del Nord, soprattutto tra le laureate, la percentuale si alza e si arriva ad una donna su due. Se il fenomeno è poco studiato in termini sociodemografici, è del tutto sottovalutato in ambito psicologico, come conferma la psicoterapeuta Elena Rosci nelle pubblicazioni sulla maternità ambivalente. Il suo contributo più interessante è il resoconto clinico su alcune donne alle quali l’idea della maternità crea uno stato di angoscia anzichè di trepidante attesa. Il suo invito è quello di accettare e di governare il cambiamento con fiducia, come fanno queste donne che cercano una risposta individuale ad un problema che è, evidentemente, di portata epocale.

Ultimo punto imprescindibile da trattare rimane il rapporto con la propria madre: se ci pensiamo bene, non si sceglie la propria madre ma si può scegliere di non diventare madre. In questo caso, il circolo generativo s’interrompe, con l’intento di non replicare gli errori subiti o nel dubbio di non saper imitare la perfezione idealizzata per tutta una vita. È dunque evidente che la personalità della madre influenza i sentimenti della figlia rispetto alla maternità.

Se penso alle mie pazienti, la propria identità è fortemente contraddistinta dall’essere madri o dal non esserlo: si è donne, lavoratrici, studentesse, mogli, amanti ma ci si riconosce soprattutto nel ruolo di madri, quando lo si è, o di figlie, quando madri non lo si è più, non lo si è ancora o non lo si sarà mai. Quando la donna desidera o non desidera un figlio, diventa madre o non lo diventa, la relazione con la madre e il modo in cui l’ha interiorizzata è una componente di base attiva e che bisogna riconoscere.

Concludo ricordando Alda Merini, che dedicò una poesia ad un figlio solo pensato e mai conosciuto.

[blockquote style=”1″]Alcuni figli non nascono mai, a volte neppure alcune madri.[/blockquote]

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Leonardi P., Vigliani F. (2009) Perché non abbiamo avuto figli. Donne «speciali» si raccontano. Milano: Franco Angeli.
  • Demetrio D., Rigotti F. (2012) Senza figli. Una condizione umana. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Rosci E. (2013) La maternità può attendere. Perchè si può essere donna senza essere madre. Milano: Mondadori.
  • Nicoletta Nesler e Marilisa Piga. Lunàdigas webdoc
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