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Alaska, di Claudio Cupellini: l’insostenibile fragilità del legame – Cinema & Psicologia

Gli individui con disturbo borderline vivono le relazioni in maniera totalizzante, temono il tradimento, l'abbandono e il vuoto della perdita - Psicologia

Di Camilla Marzocchi

Pubblicato il 16 Dic. 2015

In Alaska di Claudio Cupellini, la relazione è sentita come solida e forte solo in presenza di grandi emozioni, in cui intimità e complicità sono totali e totalizzanti, escludendo completamente il mondo fuori, gli altri. Nella stabilità della vita quotidiana però, quando le emozioni non riescono più a restare sulla cresta dell’onda e il legame d’amore non è più il centro intorno cui tutto ruota, si insinuano nella mente il dubbio e la paura.

Fausto (Elio Germano) e Nadine (Àstrid Bergès-Frisbey) si incontrano sul tetto di un lussuoso albergo di Parigi: lui fuma una sigaretta per concedersi una pausa dal lavoro, lei in bikini e piumino blu cerca un accendino per una sigaretta che la aiuti a riflettere. Guardano lontano verso una città fredda e inospitale. Il mondo fuori è complesso e genera dispersione e isolamento, per entrambi difficile da sopportare.

Delle loro vite precedenti non sappiamo nulla, solo l’intuizione di una storia di abbandono che li rende oggi soli al mondo

Fausto è un giovane italiano emigrato a Parigi, lavora come cameriere e sogna di diventare maître per non dover più stare sotto padrone. Nadine è parigina, si trova lì per un provino come indossatrice, ma fugge non riuscendo a tollerare il rischio di un giudizio negativo sul suo corpo e su se stessa. Delle loro vite precedenti non sappiamo nulla, solo l’intuizione di una storia di abbandono che li rende oggi soli al mondo. Su quel tetto i loro sguardi si incontrano e in un attimo si accende la speranza. Questa l’apertura dell’ultimo lavoro di Claudio Cupellini, Alaska (2015), in cui tragicità e grottesco muovono i primi e veloci passi, gettando subito il pubblico nel vivo della storia, anzi di una storia d’amore.

Il film si snoda seguendo il legame di Fausto (Elio Germano) e Nadine (Astrid Berges-Frisbey) tra situazioni estreme e vita quotidiana, in un ritmo vorticoso e caotico che tiene incollati allo schermo fino all’ultimo respiro. Nei due protagonisti vive un desiderio pulsante di emergere nel mondo, di provare emozioni forti e di lasciare spazio all’ingenuità che ancora li accende nel gioco e nella leggerezza della loro età. Ma nei loro sguardi incerti traspare una grande paura del futuro, del fallimento e del deserto che porta con sé la solitudine. Reagiscono insieme, aggredendo la vita, ma l’alternanza di queste emozioni vive nel loro legame e ne determina in ogni attimo l’andamento: ognuno cerca nell’altro complicità, identificazione e sicurezza per allontanare, finché possibile, i rischi di un temutissimo confronto con la realtà.

 

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Nei caratteri di Fausto e Nadine emergono alcuni dei nuclei più dolorosi del Disturbo Borderline di Personalità, espressi quasi unicamente – e forse non a caso – nelle loro azioni, veloci imprevedibili e violente, e nei fatti che li vedono protagonisti. Corrono insieme sul filo della vita e della morte cercando un equilibrio, mai davvero possibile. La protezione che riescono a offrire l’un l’altro alimenterà la paura dell’abbandono, lasciandoli sospesi in un paradosso che li farà oscillare tra amore e paura, tra dipendenza e bisogno di fuga.
Uno dei nuclei centrali del DBP è proprio questa percezione fragile del legame, tra iper-idealizzazione e svalutazione, nell’impossibilità di trovare una giusta distanza e un confine stabili.

La relazione è sentita come solida e forte solo in presenza di grandi emozioni, in cui intimità e complicità sono totali e totalizzanti, escludendo completamente il mondo fuori, gli altri. Nella stabilità della vita quotidiana però, quando le emozioni non riescono più a restare sulla cresta dell’onda e il legame d’amore non è più il centro intorno cui tutto ruota, si insinuano nella mente il dubbio e la paura: se l’altro non è più disponibile in ogni momento, se la soddisfazione personale distrae dalla relazione, se non c’è tempo per giocare, allora quella routine calda e stabile diventa improvvisamente fonte di insoddisfazione e minaccia, un segnale di imminente abbandono.

Se la costanza e l’intensità del contatto fisico riescono a mantenere vivo il legame, nella distanza tutto diventa rarefatto, incerto, pauroso. L’impossibilità di fidarsi dell’altro in assenza delle sue attenzioni e del suo sguardo desiderante, rende necessaria un’azione forte che tolga ogni dubbio: un tradimento che giustifichi l’abbandono, un pericolo che gli faccia temere il vuoto della perdita, una richiesta disperata e rabbiosa di aiuto che generi sentimenti di colpa e garantisca di nuovo l’accudimento sperato. La dipendenza vive di idealizzazione, la paura di cieca svalutazione.

Ma come costruire se stessi nell’impossibilità di esplorare il mondo? Questo paradosso ben descrive il secondo nucleo di sofferenza nel DBP: il vuoto identitario. L’immagine di sé diventa positiva nella relazione e lì trova la forza per emergere e la sicurezza necessaria per cercare un’identità propria, una realizzazione personale. Fuori dalla simbiosi idealizzata però, torna il pericolo del vuoto e della non-protezione. L’immagine positiva di sé si perde e si trasforma in un bluff. Se Nadine ha successo, è Fausto a sentire la sua vita insufficiente, ad aver bisogno di riscatto e di conferme personali fuori dalla relazione. Se Fausto vive il suo successo, è Nadine a crollare nel vuoto, a sentire l’inferiorità, a temere la solitudine, il degrado. Nella continua alternanza di successi dell’uno e fallimenti dell’altro, la rottura sembra essere l’unico modo per spezzare il circolo vizioso e ripartire da soli.

Bisogna scegliere, rischiando di perdere l’amore o di lasciare andare tutto quello che si è costruito. Ma quando la frammentazione diventa intollerabile, il legame offre la soluzione all’angoscia.

Liberarsi del legame che li unisce, li aiuta a trovare risorse nuove e inaspettate, un’inossidabile capacità di sopravvivere e restare resilienti di fronte ad esperienze negative senza lasciarsi sopraffare. E le conferme arrivano: ce la fanno anche da soli, come sempre. Tuttavia le identità costruite nelle brevi esplorazioni solitarie non riescono a sopravvivere alla colpa generata dalla rottura della relazione, mai completamente superata. Le loro nuove identità risultano presto posticce e fragili, non reggono il confronto con la realtà e il senso di sé perde lentamente coerenza. L’instabilità emotiva che emerge, riaccende il conflitto doloroso tra desiderio di dipendenza e spinta all’autonomia, tra rinuncia all’altro e riscatto personale.
Bisogna scegliere, rischiando di perdere l’amore o di lasciare andare tutto quello che si è costruito. Ma quando la frammentazione diventa intollerabile, il legame offre la soluzione all’angoscia. Ritrovarsi nello sguardo dell’altro è l’unico modo per approdare in un porto sicuro, per cedere di nuovo al calore della dipendenza e riprendere finalmente fiato. Il dolore è spento, per ora.
C’est fini.

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