Nicole Savino- OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano
Attraverso l’analisi del fenomeno noto come semplice esposizione è possibile tentare di spiegare come fenomeni che sfuggono ad un chiaro controllo consapevole possano influenzare la disposizione affettiva di un soggetto e rivestire un ruolo nell’orientare il comportamento umano.
La ricerca in psicologia sociale ha spesso sottovalutato l’influenza che variabili non direttamente analizzabili possono avere nell’orientare le credenze, gli atteggiamenti e le tendenze comportamentali spontanee di ogni individuo. Attraverso l’analisi del fenomeno noto come semplice esposizione è possibile tentare di spiegare almeno in parte come fenomeni che sfuggono ad un chiaro controllo consapevole possano influenzare la disposizione affettiva di un soggetto e rivestire un ruolo nell’orientare il comportamento umano.
Con il termine ‘semplice esposizione‘ s’intende una condizione in cui uno stimolo viene reso accessibile alla percezione di un individuo. Questo è il presupposto teorico dal quale si sono sviluppati filoni di ricerca orientati ad indagare i diversi aspetti che sono coinvolti in tale fenomeno. Il percorso che ha caratterizzato la ricerca in questo campo parte dal contributo fondamentale di Zajonc. L’ipotesi principale dalla quale parte l’autore si può così riassumere:
Semplici e ripetute esposizioni ad uno stimolo sono una condizione sufficiente per determinare in un soggetto una disposizione positiva verso tale stimolo ( Zajonc 1968).
L’autore è arrivato a formulare tale ipotesi basandosi sia su indagini di tipo correlazionale che su alcune evidenze sperimentali, ossia:
- La correlazione tra la connotazione affettiva di una parola e la frequenza con la quale tale parola viene utilizzata;
- L’effetto provocato dalla manipolazione sperimentale della frequenza d’esposizione a stimoli rappresentati da parole senza significato e simboli, ad esempio ideogrammi, sulla connotazione attrubuita da un soggetto a tali stimoli.
In particolare ciò che Zajonc intendeva sottolinare è la relazione lineare esistente tra frequenza dello stimolo ed effetto ottenuto. Sicuramente già nei suoi presupposti teorici la ricerca sulla mere exposure si contrappone decisamente alle celebrate leggi sull’attività cognitivo-attentiva che hanno imperato dalla fine del diciannovesimo secolo sino alla metà circa del secolo scorso.
Dagli studi condotti all’epoca da autori quali Fechner (1876), James (1890), Pepper (1919) e Maslow (1937), emerse la convinzione che nei processi cognitivi tutto ciò che può risultare troppo familiare, troppo noto ad un soggetto, distoglie la sua attenzione da un fenomeno, al contrario, uno stimolo nuovo può rappresentare una forte fonte d’interesse.
In accordo con questa ipotesi l’industria pubblicitaria, ad esempio, pur riconoscendo il grande potenziale attribuito alla semplice esposizione nell’orientare le scelte del consumatore, si è dedicata spesso ad una forma di pubblicità che rispettasse la nota legge secondo la quale la disposizione positiva verso uno stimolo viene incrementata se quest’ultimo viene presentato in associazione con un altro stimolo considerato piacevole, in grado di catturare immediatamente l’attenzione. Il prodotto reclamizzato quindi viene spesso presentato al pubblico in contiguità con un rinforzo positivo quale, ad esempio, il corpo femminile.
Allo stesso tempo l’industria pubblicitaria cerca di non cadere nella trappola della overexposure, in accordo con la teoria sulla familiarità degli stimoli (Ederly, 1940; Wiebe 1940) secondo la quale nel momennto in cui uno stimolo diventa eccessivamente abituale e familiare per un soggetto perde parte del suo potenziale attrattivo.
Ma è davvero possibile ipotizzzare che sia così semplice orientare i gusti e le preferenze di un individuo? Per tentare di rispondere a questa domanda ci affidiamo ad alcuni studi condotti da Zajonc sulla correlazione tra la frequenza di utilizzo di alcune parole e il loro significato.
Da tali ricerche sperimentali è emerso che i termini aventi un significato positivo sono utilizzati molto più frequentemente rispetto ad altri con una connotazione negativa. Nello specifico tale correlazione è, secondo Zajonc, almeno in parte il risultato di un fenomeno di semplice esposizione.
Da una ricerca condotta da Johnson, Thomson e Frincke (1960) emerge che la presentazione ripetuta di termini senza significato tende a far migliorare la loro valutazione stimata su una scala Likert di tipo ‘good-bad’. Come Zajonc ha dimostrato in seguito, il fenomeno analizzato nella suddetta ricerca non è altro che la coseguenza diretta di ciò che viene chiamata ‘semplice espozione’. Infatti le persone utlizzano più frequentemente parole che hanno un significato positivo non tanto per la natura semantica del termine, ma più semplicemente perchè nelle interazioni sociali esse vengono preferite rispetto al corrispettivo negativo. In pratica un soggetto reagisce più positivamente a parole che rimandano ad un significato positivo in quanto vi è comunque esposto con maggior frequenza.
In ‘Attitudinal effect of mere exposure’ (1968) Zajonc presenta i risultati di alcune ricerche volte ad appurare, in modo più rigoroso, l’esistenza di una relazione tra frequenza d’esposizione ad uno stimolo e la conseguente valutazione dello stimolo stesso.
In un esperimento da lui condotto sono state mostrate ai soggetti 12 immagini rappresentanti ideogrammi cinesi, la cui frequenza di presentazione, manipolata dallo sperimentatore, variava da 0 a 23 esposizioni. Il compito richiesto consisteva unicamente nel prestare attenzione alle immagini presentate. Nella seconda fase gli sperimentatori hanno comunicato ai partecipanti che i caratteri visti in precedenza erano in realtà degli aggettivi appartenenti ad una lingua straniera che avevano un significato positivo o negativo. Il compito dei soggetti sperimentali era ipotizzarne il significato sistemandoli su una scala Likert a 7 punti. I risultati di questa ricerca dimostrarono l’esistenza di una relazione positiva tra frequenza di esposizione e valutazione attribuita agli aggettivi. In pratica i soggetti hanno valutato più positivamente gli stimoli ai quali nella prima fase sperimentale sono stati esposti con maggior frequenza.
In uno studio successivo Zajonc ha indagato fino a punto gli effetti della semplice esposizione possono essere riscontrati utilizzando stimoli a rilevanza sociale. In questo esperimento è stata mostrata ai partecipanti una serie di fotografie di studenti. Anche in questo caso la frequenza di presentazione (0 -25) è stata manipolata dallo sperimentatore. La relazione tra semplice esposizione e conseguente valutazione dello stimolo è stata testata attraverso le risposte ad un differenziale semantico a 7 punti (good-bad) compilato dai soggetti in una seconda fase sperimentale. Ancora una volta i risultati dimostrano che frequenza d’esposizione e desiderabilità modello-stimolo sono positivamente correlate e soprattutto che la positività del giudizio cresce in funzione del numero di esposizioni con cui tale stimolo è stato presentato ai soggetti.
Non è però tutto così semplice come sembra. Ci sono altre variabili che intervengono nel condizionare il comportamento umano.
In uno studio pionieristico condotto da Kunst-Wilson e Zajonc (1980) gli autori hanno dimostrato che i soggetti sperimentali non erano in grado di distinguere percettivamente gli stimoli presentati nella fase d’esposizione da altri (distrattori) mostrati solamente nella seconda fase sperimentale. In un primo momento ai soggetti è stata mostrata per brevissimo tempo (1-2msec) una serie di ottagoni regolari presentati con egual frequenza (5 volte). Successivamente i ricercatori hanno presentato ai partecipanti una coppia di stimoli composta da un ottagono presentato nella prima fase e da uno mai visto. Per ogni coppia veniva chiesto ai soggetti di riconoscere quale fosse lo stimolo già presentato in precedenza e quale tra i due considerrasse più piacevole.
I risultati dimostrano che i soggetti non sono riusciti a distinguere percettivamente le figure mostrate nella prima fase dalle altre, ma erano comunque in grado di discriminarli dal punto di vista ‘affettivo’. Infatti la maggioranza dei soggetti ha giudicato come più piacevole l’immagine presentata nella prima fase sperimentale pur non riuscendo a distinguerla percettivamente dal distrattore inserito successivamente. Questo tipo di evidenza sperimentale ha portato gli autori ad ipotizzare che nel fenomeno della semplice esposizione l’informazione affettiva sia elaborata secondo modalità in gran parte indipendenti dall’elaborazione dell’informazione cognitiva.
Nel suo articolo ‘On the Primacy of Affect‘ (1984) Zajonc sostiene il primato e l’indipendenza dei processi affettivi rispetto all’elaborazione cognitiva dell’informazione. In particolare l’autore si oppone all’eccessiva importanza attribuita da Lazarus (1982) ai processi cognitivi considerati come una condizione che precede necessariamente ogni fenomeno di natura affettiva. Secondo Zajonc numerosi fenomeni emotivi possono essere spiegati senza ricorrere a processi cognitivi di nessun genere. Per supportare tale constatazione l’autore fa riferimento al primato e all’indipendenza dal punto di vista sia filogenetico che ontogenetico di alcune reazioni affettive rispetto ad altre di tipo cognitivo. Ossia, se fenomeni di tipo affettivo precedono processi cognitivi ad alcuni livelli dello sviluppo individuale, allora è lecito affermare che esiste una reale indipendenza tra i due sistemi.
Ciò che Zajonc intende sottolineare è che alcuni fenomeni di natura affettiva possono avere luogo senza essere necessariamente mediati o preceduti da processi cognitivi e quindi senza una rielaborazione cosciente di tali fenomeni. Sicuramente la relazione tra processi cognitivi ed emozioni ha rappresentato un tema di grandissimo interesse per il Cognitivismo e ancora oggi è difficile trarne una verità assoluta e condivisa.