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I neuroni specchio e l’area di Allah

I recenti tragici eventi di Parigi offrono lo spunto per un esperimento mentale: liberare la psicologia dall'attuale ruolo di ancella della neurologia.

Di Marco Innamorati

Pubblicato il 24 Nov. 2015

Aggiornato il 29 Dic. 2015 13:30

La psicologia corre sempre più il rischio di essere ridotta ad ancella della neurologia. Ma i recenti tragici eventi di Parigi offrono lo spunto per un esperimento mentale utile a riconsiderare il ruolo dello psicologo nella società contemporanea.

Sembra di assistere in tempi recenti a una sistematica abdicazione della psicologia nei confronti delle neuroscienze. Ciò avviene sia nell’ambito della ricerca che in quello (strettamente collegato) dell’università. Per realizzare l’aspirazione di essere accolta a pieno titolo tra le scienze hard, la psicologia ha iniziato a dedicarsi sempre più a confrontare i risultati dei propri esperimenti sul piano della condotta o del comportamento con le variazioni di stato dei circuiti cerebrali. Si sta giungendo anche a valutare i risultati di una psicoterapia in funzione della possibilità di verificare mutamenti nel cervello. La psicologia, in altre parole, tende a identificarsi con la neuropsicologia.

I nuovi ricercatori e aspiranti tali sono a loro volta incoraggiati sempre più dal contesto a specializzarsi in temi neurologici, perché più paganti anche in termini di impact factor e h index (vocaboli esoterici che designano la capacità di far citare i propri lavori da altri). La selezione dei futuri docenti, infatti, lungi dal considerare aspetti come capacità di insegnare, conoscenza e/o esperienza di temi clinici, non esamina più nemmeno tanto il contenuto delle pubblicazioni quanto i fattori oggettivi (se la rivista dove hai pubblicato è ‘rankata’ x, vali x). I corsi di laurea tendono a riflettere questa tendenza, aumentando progressivamente il numero degli esami fondati su nozioni anatomiche più che psicologiche.

È lecito pensare che un buon 90% degli studenti di psicologia sarebbe interessato essenzialmente ad argomenti di carattere tecnico-pratico, utili alla futura professione. Viceversa, è probabile che, ovunque si iscriva, l’aspirante psicologo clinico trovi ad aspettarlo sempre più esami orientati verso argomenti di interesse, in ultima analisi, medico e biologico. Lo studente modello finirà per sapere tutto dei neuroni specchio e di come l’empatia sia, per così dire, oggettivamente osservabile nell’attivazione di certe aree corticali; senza ricavarne nulla nella capacità di stabilire un rapporto empatico con un paziente. Saprà tutto sull’amigdala ma non saprà distinguere l’ansia come stato dall’ansia come tratto.

L’invasione del prefisso neuro- è un fenomeno che non investe soltanto le discipline psicologiche. La possibilità di comprendere il mondo umano sulla base del funzionamento del cervello ha generato la neuropsicologia, la neuropsichiatria e persino la neuropsicoanalisi; ma anche una neurofilosofia, una neuroetica, una neuropolitica e così via. Persino chi si interessa di meditazione ha trovato opportuno tentare di identificare i cambiamenti che tale pratica induce sulla neocorteccia, per provarne l’efficacia. Manca all’appello forse solo una neuro-neurologia (cosa accade al cervello dei neuroscienziati mentre lavorano? proviamo a verificarlo con una risonanza magnetica!).

Absit iniuria verbis: nessuno mette in discussione qui che sia giusto e legittimo sviluppare la ricerca sul cervello e finanziare progetti che si fondano su fMRI, PET ed altri apparecchi le cui sigle misteriose evocano la facoltà finalmente acquisita di verificare l’attivazione dei neuroni. Tuttavia altrettanto legittimo sarebbe pretendere che la psicologia (come nel suo ambito la filosofia) torni ad essere utilizzata come strumento di analisi della condotta umana a prescindere dal sostrato cerebrale e recuperi la sua dignità ermeneutica, che sembra sempre più appannata, anche dal punto di vista della visibilità sui mezzi di comunicazione di massa.

Freud stesso, padre della psicoterapia, era un naturalista convinto ed era certo che un giorno si sarebbe potuto spiegare la psiche individuale in termini di sistemi neuronali (egli stesso provò a farlo, ovviamente senza successo, nel 1895). Era altrettanto certo, tuttavia, che la realtà psichica fosse comunque, appunto, un aspetto della realtà e che occuparsene fosse produttivo. Siamo così certi che il progresso delle neuroscienze abbia modificato così tanto il quadro della psicologia da rendere realmente prossimo ad avverarsi ciò che sognavano Freud e i primi psicologi scientifici, cioè che la comprensione della mente sia riducibile al suo funzionamento fisico?

Suggerirei di procedere con un piccolo esperimento mentale. Ci si chieda se oggi, di fronte alla tragedia appena occorsa a Parigi, sia più utile considerare le azioni dei jihadisti come frutto dell’elaborazione di cervelli o come il risultato delle azioni di individui, che abbiano sviluppato le loro motivazioni in particolari contesti sociali che dovremmo conoscere meglio. Sarà produttivo spiegare l’assenza apparente di dubbi da parte dei protagonisti, nel finire a bruciapelo gente già ferita, in termini di funzionamento (o mancato funzionamento) dei neuroni specchio? O sarà più sensato interpretare una simile condotta sulla base di un processo mentale di deumanizzazione del nemico, cercando di comprenderne i fattori? Porterà maggiori risultati chiedersi se esiste un’area di Allah nel cervello che inneschi determinati comportamenti o domandarsi quali siano le distorsioni cognitive del terrorista e come sia possibile disinnescarle (nel senso più letterale del termine, purtroppo)?

La possibilità che persone capaci di comportamenti adattivi siano anche disposti a porre termine alla propria vita facendosi saltare in aria, onde uccidere allo stesso tempo il maggior numero possibile di supposti nemici è qualcosa che sconvolge profondamente il nostro animo di occidentali. Noi siamo abituati a considerare preziosa la nostra esistenza presente, indipendentemente dalla convinzione di alcuni di noi che esista una vita dopo la morte. L’idea che altri siano convinti che il loro sacrificio costituisca un martirio e che doni loro l’accesso a un Paradiso popolato di un certo numero di vergini pronte a soddisfare i loro desideri per l’eternità non può costituire una spiegazione.

Sposta solo la domanda di una casella, facendoci chiedere come essi acquisiscano una tale convinzione (e se tale convinzione, peraltro, vacilli o meno, o venga rinforzata con ulteriori incentivi e di che tipo). Peraltro, si potrebbe affermare reciprocamente: come ci è incomprensibile la decisione di morire in modo violento se non per effetto della follia, altrettanto è lontana dalla nostra esperienza la precedente morte di tutta la nostra famiglia sotto un bombardamento oppure la vita in un contesto culturale che rifiuta integralmente le nostre convinzioni se non addirittura le ripugna. Si tratta invece di esperienze compiute almeno da alcuni dei jihadisti morti suicidi a Parigi o in altre occasioni meno mediatizzate.

Studiare la psicologia di questi uomini potrebbe essere un passo utile alla comprensione anche di una possibile strategia di reazione. Non è facile decidere a priori se sia opportuno tentare un dialogo con persone che apparentemente il dialogo non lo desiderano; né se un’intensificazione di attività militari contro il cosiddetto Califfato non costituisca, piuttosto che un efficace mezzo per dissuadere da nuovi attentati, un incentivo ad impegnarsi nella ‘guerra santa contro i crociati’.

In effetti la Psicologia dimostra spesso di poter offrire degli strumenti che non vengono poi di fatto utilizzati nel loro pieno potenziale euristico. Philip Zimbardo, per esempio, malgrado fosse già un personaggio universalmente riconosciuto per gli studi sul cosiddetto effetto Lucifero (Zimbardo, 2007), ha tentato invano di offrire la propria interpretazione dei fatti di Abu Ghraib. Si ricorderà della condanna inflitta ai soldati americani che infliggevano umiliazioni ai nemici catturati durante la guerra in Iraq. Zimbardo spiegò in modo del tutto convincente come fosse il contesto a guidare il comportamento di tali soldati, ma nessuno volle prendere in considerazione quanto egli sosteneva, trovandosi molto più comodo spiegare gli abusi come iniziativa dei singoli (Un resoconto della testimonianza di Philip Zimbardo è disponibile qui)

Al contrario, ascoltare Zimbardo avrebbe significato capire le azioni dei condannati, estendere la responsabilità alle gerarchie militari e prevenire eventuali successivi problemi consimili. Nel suo piccolo, chi scrive può ricordare di aver invano offerto con Alessandro Rossi, in tempi non sospetti (Innamorati e Rossi, 2004), tanto delle spiegazioni sui meccanismi del terrorismo nell’epoca di Internet (per ricordarne uno: il funzionamento del franchising del terrore di Al-Qaeda); quanto un esame dei meccanismi aggregativi offerti dalla rete a coloro che in passato erano stati lupi solitari; quanto delle indicazioni su siti che lasciavano comprendere collegamenti tra individui pericolosi (sulla base dell’analisi semiotica e psicologica dei testi presenti nei siti stessi). Scoprire in seguito il concreto e reale valore predittivo di molte ipotesi (a suo tempo assai poco considerate) non è stato per noi un motivo di grande soddisfazione.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Freud, S. (1895), Progetto di una psicologia, trad. it. in Opere, vol. 1, Boringhieri, Torino 1968, pp. 201-84.
  • Innamorati, M. e Rossi, A. (2004), La rete dell’odio. Analisi strategica, semiotica e psicologica dell’integralismo, fondamentalismo e razzismo su Internet, Valter Casini, Roma 2004.
  • Zimbardo, P. G. (2007), L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2008.
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